giovedì 30 dicembre 2010

Perché andare sempre più lontano


Ecco dunque rivelato l’ultimo record astronomico: è JKCS041 il più lontano ammasso di galassie scoperto finora, a quasi 11 miliardi di anni luce. Una distanza smisurata,  ottenuta portando al limite estremo la strumentazione scientifica e  sfruttando le tecniche più avanzate disponibili oggi per lo studio dell’Universo. E un risultato ottenuto dopo lunghi periodi di osservazioni e analisi dati, che ha impegnato scienziati e tecnici.
Al di là di questo numero, che già da solo può darci l’idea di quanto smisurato sia lo spazio che ci circonda, perché è così importante spingere le nostre osservazioni sempre più in avanti, alla caccia degli oggetti celesti – siano essi galassie, lampi di raggi gamma o Supernovae – sempre più remoti? Intanto perché guardare a distanze sempre maggiori significa osservare il cosmo e i suoi componenti ad epoche sempre più prossime alla sua genesi.

È davvero il caso di dire che la strumentazione astronomica diventa una vera e propria “macchina del tempo” per andare a ritroso, verso quel “Big Bang” da cui si sarebbe formato e poi evoluto l’Universo. Il rapporto tra distanza spaziale e distanza temporale degli oggetti celesti in prima approssimazione è immediata: ad esempio, sapere che JKCS041 dista da noi 10,6 miliardi di anni luce ci dice che quello che osserviamo è l’agglomerato di galassie com’era 10 miliardi e 600 milioni di anni fa. Questo perché la luce ha una velocità finita (300.000 chilometri al secondo) e l’anno luce è proprio la distanza percorsa dalla radiazione luminosa in un anno. Tanto per dare un termine di paragone, si ritiene che il Sole e il Sistema solare abbiamo cominciato a formarsi da una nube di gas e polveri “solo” 5 miliardi di anni fa.
Conoscere com’era l’Universo primordiale fornisce quindi agli astronomi e soprattutto ai cosmologi tante preziose informazioni per ricostruire i primi passi della sua evoluzione. E molto spesso le osservazioni mettono in crisi quei modelli teorici che con complesse equazioni e lunghissime elaborazioni numeriche condotte con i più potenti  supercomputer oggi operativi, cercano di descrivere com’era e come si è evoluto l’Universo. Questo è il caso del lavoro condotto su JKCS041, ma anche di altri recentissimi studi. Come quello guidato da Giovanni Cresci dell’INAF e pubblicato su Nature nell’ottobre scorso riguardo ai processi che spiegano come si siano formate le prime galassie nell’universo. Esse si sarebbero accresciute catturando enormi quantità di gas, essenzialmente idrogeno ed elio, presente in regioni di spazio vicine e non, come ritenuto finora, attraverso spettacolari scontri e fusioni tra strutture stellari più piccole.

Anche il telescopio spaziale Hubble, per le sue caratteristiche uniche, è stato intensamente utilizzato per indagare gli albori dell’universo, fornendo agli scienziati una lunga serie di fondamentali risultati. L’ultimo in ordine cronologico riguarda la stima dell’abbondanza e le proprietà delle galassie che popolavano l’Universo solo 800 milioni di anni dopo il Big Bang, dunque quasi 13 miliardi di anni fa. Le stelle presenti in queste galassie avrebbero prodotto un intenso flusso di radiazione ultravioletta, responsabile della cosiddetta re-ionizzazione cosmica che, strappando gli elettroni all’idrogeno primordiale presente nello spazio, lo ha reso “trasparente”, permettendo così alla luce degli oggetti celesti di propagarsi e di giungere fino a noi.
E dove non arrivano ancora i telescopi fabbricati dall’uomo, ci pensa la Natura a darci una mano per spingere il nostro sguardo ancor più oltre. In un recentissimo lavoro pubblicato sulla rivista Science, a cui hanno partecipato i ricercatori dell’INAF Gianfranco De Zotti e Sara Buttiglione insieme a Luigi Danese e Joaquin Gonzalez-Nuevo della Sissa-Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste, è stato possibile osservare galassie distanti ben 11 miliardi di anni luce grazie al fenomeno della “lente gravitazionale”, predetto dalla Teoria della Relatività Generale di Einstein, secondo la quale qualunque corpo celeste dotato di massa provoca una deflessione dei raggi luminosi che passano nelle sue vicinanze per effetto della sua forza di attrazione gravitazionale. In caso di allineamento tra sorgente luminosa, “lente gravitazionale” e osservatore, la luce della sorgente viene focalizzata, proprio come succede quando si utilizza una lente normale, e la sorgente appare  così molto più luminosa di quanto farebbe se non venisse distorta. Questa sorta di telescopio cosmico ha permesso di studiare anche le proprietà delle galassie che agiscono da lente, come ad esempio la distribuzione della materia luminosa e della materia oscura al loro interno e di scrutare i dettagli delle sorgenti luminose che ne subiscono l’effetto.

Osservare e studiare l’Universo primordiale ci permette quindi di conoscere con più precisione come erano le “condizioni iniziali” del cosmo, requisito fondamentale per affinare le simulazioni e le teorie che ne descrivono la sua evoluzione, migliorando così la comprensione di tutti quei fenomeni fisici che hanno lo hanno portato a trasformarsi fino a come è oggi.

2000 comete scoperte da SOHO


Fortuna che due millenni fa il telescopio spaziale SOHO era ancora ben lungi dall’entrare in funzione. Se fosse stato già operativo, i tre Magi in rotta verso Betlemme avrebbero avuto il loro bel da fare per scegliere quale cometa seguire: il Solar and Heliospheric Observatory di Esa e Nasa ha infatti appena individuato la sua duemillesima cometa.

La scoperta risale allo scorso 26 dicembre. In realtà, a scovare le tracce della cometa nel mare d’immagini raccolte dallo strumento LASCO (Large Angle and Spectrometric Coronagraph), è stato un appassionato d’astronomia polacco, il 24enne Michał Kusiak, studente alla Jagiellonian University di Cracovia. Michal vive a Zywiec, una piccola cittadina nel sud della Polonia. Ha iniziato ad appassionarsi all’astronomia da bambino, guardando un programma di divulgazione della TV polacca chiamato “Kwant”. Da lì a prendere a prestito il binocolo del nonno per scrutare il cielo il passo è stato breve. Ma per arrivare a scoprire nuove comete nei dati di un satellite, come ha fatto? Media Inaf lo ha raggiunto al telefono per farsi spiegare i segreti del mestiere. «Be’, un po’ come tutti i cacciatori di comete del mondo», racconta Michal, «mi collego ogni volta che mi è possibile, anche ogni giorno, ai server che contengono le immagini raccolte da SOHO. E mi metto a spulciarle con pazienza.

Per capire dove posso trovare dati nuovi, consulto su web il programma del SOHO DSN (Deep-Space Network). Certo, occorre un bel po’ di pratica: ci ho messo tre anni, da quando ho iniziato, per trovare la mia prima cometa. Me lo ricordo ancora, era il 2007, e appena mi sono reso conto d’esserci riuscito sono corso in sala urlando “Goool!”, come allo stadio. Un’emozione incredibile».
Sono circa una settantina, sparsi in 18 nazioni, gli appassionati di comete che, da 15 anni, dedicano ogni giorno il loro tempo libero a rovistare fra le immagini messe online da SOHO a caccia di comete. Certo, tenere il ritmo di Michal non è facile, visto che di comete, da quel giorno del 2007, ne ha già individuate ben 113, tutte tranne una grazie a SOHO. La lista completa si trova sul suo sito web, cometman.tk. I nomi assegnati alle comete sono semplici sigle. L’ultima scoperta, per esempio, è SOHO-2000. E scorrendo la lista si viene a sapere che anche la cometa precedente, SOHO-1999, è stata individuata da Michal. «Già, è una fra le più brillanti, e l’ho dedicata a una mia carissima amica, Katarzyna Kusiak, che non si è mai stancata d’incoraggiarmi ad andare avanti con questo lavoro. Quanto all’ultima, SOHO-2000, vorrei dedicarla a tutti i miei amici del Sungrazing Project: è con loro, e grazie ai loro consigli, che ho mosso i primi passi da cacciatore di comete».

Il nome del progetto al quale partecipa Michal deriva dalla parola “sungrazer” (cometa radente), usata per indicare corpi celesti la cui orbita corre vicinissima al Sole, al punto che la maggior parte di queste comete vengono vaporizzate poche ore dopo esser state scoperte. Lo strumento LASCO di SOHO, però, ha individuato anche molte comete che periodicamente, dopo essere sfrecciate attorno al Sole, ritornano.
LASCO, in realtà, non è stato progettato per cercare comete, bensì per studiare le emissioni della corona solare. Per farlo, però, si avvale di un sistema in grado di oscurare la luce del Sole: ed è proprio questo stratagemma a consentirgli di immortalare oggetti di luminosità molto debole, altrimenti resi invisibili dalla luce accecante della nostra stella. Un’attività che si è andata intensificando nel tempo.

Se per scoprire le sue prime mille comete SOHO ha impiegato dieci anni, per le successive mille ne sono bastati cinque. Questo, in parte, grazie alla sempre più numerosa partecipazione di appassionati come Michal e ai miglioramenti effettuati dal team di LASCO sulla qualità delle immagini. Ma oltre a ciò, riferisce il comunicato della Nasa, pare che sia in corso un aumento sistematico, ancora senza spiegazione, del numero di comete che viaggiano attorno al Sole.
Insomma, se avete voglia di seguire le orme di Michal, le occasioni non mancano. Il team di SOHO ha messo a disposizione, allo scopo, una guida completa per aspiranti cacciatori di comete. E chissà, la prossima cometa potreste scoprirla proprio voi.

mercoledì 29 dicembre 2010

I buchi neri nelle prime fasi di vita



La maggior parte delle galassie nell'Universo, inclusa la nostra Via Lattea, contengono buchi neri la cui massa varia da circa un milione a circa 10 miliardi di volte quella del nostro Sole. Per trovarli, gli astronomi cercano l'enorme quantità di radiazioni emesse dal gas che rientra in tali oggetti durante la loro fase attiva, ciè quando c'è l'accrescimento di materia. Questo "gas" si ritiene che sia il mezzo con cui i buchi neri crescono.

Un team di astronomi dell'università di Tel Aviv, tra cui il Prof. Hagai Netzer e Benny Trakhtenbrot, hanno stabilito che una prima rapida crescita dei buchi neri più massicci si sarebbe verificata quando l'Universo aveva solo circa 1,2 miliardi di anni e non 2-4 miliardi di anni, come si riteneva precedentemente, e stanno crescendo ad un ritmo molto veloce.

La nuova ricerca si basa su osservazioni con alcuni dei più grandi telescopi terrestri nel mondo: il "Gemini North" in cima al Mauna Kea nelle Hawaii e il "Very Large Telescope Array" sul Cerro Paranal in Cile. I dati ottenuti con la strumentazione avanzata su questi telescopi mostrano che i buchi neri che erano attivi quando l'Universo aveva solo 1,2 miliardi di anni sono circa dieci volte più piccoli rispetto alla maggior parte dei buchi neri massicci che si vedono in tempi successivi. Tuttavia, essi stanno crescendo molto più velocemente.
Il tasso di crescita misurato dai ricercatori ha permesso di valutare quello che è successo a questi oggetti molto prima e più volte in seguito. 

Il team ha scoperto che i buchi neri che hanno iniziato tutto il processo di crescita quando l'Universo aveva solo alcune centinaia di milioni di anni fa, avevano masse soltanto di 100-1000 volte la massa del Sole. Tali buchi neri possono essere correlati alla primissime stelle nell'Universo. Hanno anche scoperto che il periodo di crescita successiva delle fonti osservate, dopo i primi 1,2 miliardi anni, è durato solo 1-200 anni.

Il nuovo studio è il culmine di un progetto durato sette anni all'Università di Tel Aviv, nato per seguire l'evoluzione dei buchi neri più massicci e confrontarli con l'evoluzione delle galassie in cui tali oggetti risiedono.
I risultati saranno riportati in un nuovo documento prima di apparire sul The Astrophysical Journal .
Altri ricercatori del progetto sono il Prof. Ohad Shemmer della University of North Texas, che ha partecipato alla fase precedente del progetto e il Prof. Paulina Lira, presso l'Università del Cile.

A cura di Arthur McPaul

martedì 28 dicembre 2010

Enigmi alieni: Incontri ravvicinati


Molti personaggi storici del passato, hanno trascritto nelle loro cronache avvistamenti di oggetti volanti. La possibilità che in passato vi siano stai incontri ravvicinati con extraterrestri è una ipotesi molto suggestiva che pare trovare spesso conferme dai documenti che ci giungono dal passato, in cui gli dei sembrano farsi guerra tra loro con armi letali a noi note...

Alamo Gord, 16 luglio 1945. Gli scienziati si ritrovano in Nuovo Messico per il test della prima bomba atomica. Il fungo sprigionato raggiunse l'altezza di oltre 12 km e per la prima volta nella sua storia l'uomo ha creato un ordigno capace di distruggere l'intero pianeta. 
Ma è davvero la prima volta che viene sperimentata sul nostro pianeta un'arma simile? In molti scritti, come la Bibbia o gli antichi testi epici indiani si parla non solo di Carri Volanti ma anche di armi forbidabili che gli Dei utilizzavano. L'arma di Brama sembra essere proprio una arma nucleare e i suoi effetti sono proprio gli stessi della bomba atomica, come ad esempio "soli roteanti" o "alberi che bruciano" o "perdita di capelli da parte della gente". Nel 1922, un ufficiale scopre nel Pakistan meridonale, le rovine della città di Mohenjo Daro, risalente al 2600 a.C. ed abbandonata per motivi economici e climatici. Tuttavia il ritrovamento degli abitanti morti all'improvviso per strada, sembrano essere ricchi di radiazioni e le loro ossa non hanno subito decomposizione. Il ricercatore britannico David Davenport sembrò aver trovato una zona nel sito in cui era avvenuto il processo di vetrificazione, tipico dei siti in cui è avvenuto una esplosione atomica. Molti sono gli scritti dove si parla di guerre tra gli dei che ricordano molto chiaramente le armi nucleari. C'è da chiedersi se gli antichi fossero stati testimoni di tecnologie belliche da parti di visitatori extraterrestri.

 
Nella Bibbia si parla di eventi riconducibili ad eventi bellici nucleari. La distruzione di Sodoma e Gomorra sembra essere quella di un olocausto nucleare. I cosiddetti "angeli" che portavano la morte dal cielo, secondo i ricercatori, potrebbero essere invece alieni con armi sorprendenti.
Nel Mar Nero, l'archeologo Ballard, avrebbe scoperto una fattoria sommersa risalente a migliaia di anni fa. Egli potrebbe aver trovato anche le prove che il Diluvio Universale fosse una storia vera. Il Mar Nero infatti, sarebbe stato sommerso intorno all'8000 a.C. assieme a molti altri villaggi del Mar Mediterraneo. Noè, potrebbe essere un personaggio vero e che la sua Arca potrebbe essere un fatto storico. Negli scritti dei "Rotoli del Mar Morto", si narra che Noè sia di discendenza "divina", forse inseminato artificialmente da visitatori alieni, ovvero un esperimento genetico. Secondo la Bibbia, Dio manda il Diluvio per punire gli abitanti della Terra, ma potrebbe essere invece una strategia degli alieni per creare una nuova stirpe di uomini?
In alcuni quadri medeievali ci sarebbero le prove che gli uomini conoscessero razzi volanti, satelliti spaziali o mezzi volanti simili ai dischi volanti? Riprodotti in quadri religiosi,  questi oggetti volanti, sarebbero l'interpretazione in chiave religiosa di antichi avvistamenti di oggetti volanti non identificati o di veri e propri incotri con esseri intelligenti?
Ma le presunte prove della visita di extraterrestri nel passato sono molteplici. Le prime testimonianze risalgono già dal XIV, in concomitanza con la Peste Nera, che secondo alcuni studiosi potrebbe essere stata addirittura diffusa dagli extraterrestri.
Un incontro con un oggetto volante assai anomalo lo ebbe persino Cristofolo Colombo e il suo equipaggio poco prima di sbarcare nelle Americhe. Videro una luce come quella di una candela che si muoveva su e giù. "Un oggetto luminoso di alza dall'acqua e va verso il cielo...".
L'avvistamento di Colombo sarebbe riportato anche nei registri ufficiali dell'Inquisizione. Anche il navigatore Magellano sembra avvistare un oggetto anomalo in cielo. Fenomeni naturali o oggetti volanti extraterrestri?


E se tutto fosse vero e gli extraterrestri ci hanno realmente visitato in passato? 
Germania, Norimnberga,14 aprile 1591. Dalle testimonianze raccolte e dalle incisioni, centiania di testimoni videro in cielo luci, croci volanti e dischi combattere come se ci fosse stata una battaglia aerea. 
Il primo oggetto non identificato visto con un telescopio fu da parte di Cotton Mather nel 1714, un predicatore cristiano, colonialista in America. L'avvistamento è riportato anche nelle cronache della NASA. 
L'interesse crescente per l'astronomia accende l'interesse mondiale sulla possibilità di vita intelligente su altri pianeti del Sistema Solare. Nel XVIII secolo l'idea della vita extraterrestre comincia a prendere piede e iniziano a comparire i primi documenti relativi agli avvistamenti, soprattutto agli albori della nascita degli Stati Uniti d'America.


Toman Paine lancia uno degli attacchi più pensanti alla cristianità e afferma che l'esistenza degli extraterrestri è una cosa ovvia. Subirà gravi danni personali da queste e da altre affermazioni di natura politica. L'uomo inizia a comprendere che le credenze religiose sono assurde e che il cosmo potrebbe essere pieno di vita al di la dell'idea dell'esistenza di Dio. 
Nel Nuovo Messico, molti resti di edifici dei nativi americani, mostrano grandi conoscenze di carattere astronomiche. E' un sito imponente ed isolato, che secondo alcuni studiosi potrebbe essere allineato assieme ad altri adifici alla Cintura di Orione. E' possibile che anche le popolazioni native americane abbiano avuto contatti con entità axtraterrestri?

 
Altri misteri sembrano esserci in alcuni siti nel Canada e in Scozia. Antichi segreti e forse addirittura l'Arca dell'Alleanza. A partire dal 1896-97-98 negli USA, si inziarono a verificare avvistamenti massicci nei cieli, fino ad arrivare agli attuali livelli di massa. Sono dei segni che presto si manifesteranno apertamente? Se fosse accertato che forme di vita extraterrestre ci hanno visitao in passato, la nostra storia andrebbe completamente riscritta.

A cura di Arthur McPaul

lunedì 27 dicembre 2010

Anche Plutone nasconde un oceno sotto il ghiaccio?


Il freddo Plutone, uno dei più grandi pianeti nani transnettuniani del Sistema Solare, potrebbe nascondere sotto la sua superficie ghiacciata un oceano di acqua liquida, nonostante il freddo estremo. Secondo un nuovo modello sviluppato dallo scienziato planetario Guillaume Robuchon della University of California, Santa Cruz il calore radioattivo del nucleo di Plutone, potrebbe mantenere l'acqua allo stato liquido. "Questo oceano non sarebbe una semplice pozzanghera ma avere una sezione tra i 100 e i 170 km di spessore al di sotto di ben 200 chilometri dello strato di ghiaccio", ha detto Robuchon in una riunione annuale della American Geophysical Union a San Francisco all'inizio di questa settimana.

Se così fosse, Plutone sarebbe unito alle lune Encelado e Reha di Saturno, o Europa di Giove, ritenute in possesso di un oceano sotto la loro crosta ghiacciata.
Il calore di Plutone proverrebbe dal decadimento dei nuclei radioattivi, in particolare del potassio-40, del suo nucleo. Anche se la superficie di Plutone è probabilmente più fredda di -380 ° F (-230 ° C), ci potrebbe essere calore sotto la calotta di ghiaccio:
"Il ghiaccio è un buon isolante", ha detto il collaboratore di Robuchon, Francis Nimmo, anch'esso della University of California si Santa Cruz.





Plutone al centro con le tre lune note: Caronte, Nix e Hydra. Credit: NASA/ESA/H. Weaver (JHU/APL) / A. Stern (SwRI) / HST Pluto Companion Search Team.

Robuchon ha aggiunto che secondo il suo modello, Plutone produrrebbe immediatamente un oceano sotto il ghiaccio, se le sue rocce contengano almeno un centinaio di parti per miliardo di potassio radioattivo. (Sulla Terra le rocce contengono circa lo 0,01 per cento del potassio-40.)

Tuttavia, per l'esistenza di un oceano è necessaria l'esistenza di un nucleo roccioso, con acqua e ghiaccio a strati sulla superficie. Se il corpo è invece fosse completamente composto di acqua non è possible ipotizzare l'oceano al suo interno.
 
Quando la sonda della NASA New Horizons raggiungerà Plutone nel 2015, sarà relativamente facile verificare se possiede effettivamente un oceano sotto la superficie. In caso negativo, il pianeta nano dovrebbe essere relativamente appiattito ai poli, con un rigonfiamento "fossile" equatoriale rimasto da prima della sua storia, quando il corpo girava più velocemente.

"Tale rigonfiamento esiste sulla nostra Luna, che naturalmente non nasconde oceani", ha detto Nimmo. Inoltre, se ci fosse un oceano su Plutone, la superficie dovrebbe mostrare crepe createsi per via della graduale perdita di calore della calotta di ghiaccio addensatasi nel corso di miliardi di anni.

Questo perché il ghiaccio congelandosi si sarebbe espanso, provocando il rigonfiamento della superficie verso l'alto, nel processo di cracking. Se c'era solo ghiaccio e non un oceano, il raffreddamento del pianeta avrebbe contratto il ghiaccio piuttosto che espanderlo. "Stiamo facendo previsioni" ha detto Nimmo, "ma scopriremo la verità quando New Horizons arriverà sul pianeta nano".

A cura di Arthur McPaul

Fonte

domenica 26 dicembre 2010

Anno Domini 536: i cieli si oscurarono e... scese il gelo



Nel 536 d.C. un evento misterioso ha oscurato il cielo portando il mondo un lungo periodo di gelo.
Le testimonianze storiche a sostegno di questo evento straordinario sono molteplici:
Lo storico bizantino Procopio registrò nel suo rapporto sulle guerre con la Vandali , "che durante questo anno [536 dC] il Sole perse la sua luminosità ... e sembrava come se fosse in eclisse.." 
Negli Annali gaelici furono registrate le seguenti cronache:
  • "Un fallimento del pane durante l'anno 536 dC"- The Annals of Ulster
  • "Un fallimento di pane a partire dagli anni 536-539 dC"- The Annals of Inisfallen

Ulteriori fenomeni sono stati segnalati da una serie di fonti indipendenti contemporanee:
  • Basse temperature e neve durante l'estate in Cina, con rinvio della vendemmia e perdita dei raccolti.
  • "Una fitta nebbia secca" in Medio Oriente,  Cina e in Europa
  • Siccità in Perù.

Gli studi in merito son stati molteplici, tutti con una raccolta di ampie prove scientifiche che hanno testimoniato la veridicità delle cronache storiche dell'epoca. 
Uno degli studi più completio in merito è stato prodotto da:
L. B. Larsen
Centre for Ice and Climate, Niels Bohr Institute, University of Copenhagen, Copenhagen, Denmark
B. M. Vinther
Centre for Ice and Climate, Niels Bohr Institute, University of Copenhagen, Copenhagen, Denmark
Climatic Research Unit, School of Environmental Sciences, University of East Anglia, Norwich, U. K.
K. R. Briffa
Climatic Research Unit, School of Environmental Sciences, University of East Anglia, Norwich, U. K.
T. M. Melvin
Climatic Research Unit, School of Environmental Sciences, University of East Anglia, Norwich, U. K.
H. B. Clausen
Centre for Ice and Climate, Niels Bohr Institute, University of Copenhagen, Copenhagen, Denmark
P. D. Jones
Climatic Research Unit, School of Environmental Sciences, University of East Anglia, Norwich, U. K.
M.-L. Siggaard-Andersen
Earth and Planetary Physics, Niels Bohr Institute, University of Copenhagen, Copenhagen, Denmark
C. U. Hammer
Earth and Planetary Physics, Niels Bohr Institute, University of Copenhagen, Copenhagen, Denmark
M. Eronen
Department of Geology, University of Helsinki, Helsinki, Finland
H. Grudd
Department of Physical Geography and Quaternary Geology, Stockholm University, Stockholm, Sweden
B. E. Gunnarson
Department of Physical Geography and Quaternary Geology, Stockholm University, Stockholm, Sweden
R. M. Hantemirov
Laboratory of Dendrochronology, Institute of Plant and Animal Ecology, Ural Branch of Russian Academy of Sciences, Ekaterinburg, Russia
M. M. Naurzbaev
Dendroecology Department, Sukachev Institute of Forest, Siberian Branch of Russian Academy of Sciences, Krasnoyarsk, Russia
Siberian Federal University, Krasnoyarsk, Russia

e approvato per la pubblicazione sulla GEOPHYSICAL RESEARCH LETTERS, VOL. 35, L04708, 5 PP., 2008 - doi:10.1029/2007GL032450

Hanno affermato che:
Le prove dai carotaggi di ghiacco dei depositi di solfato in Groenlandia e dell'Antartico indicano un sostanziale ed esteso velo atmosferico di polvere silicea per gli anni 533-534 dC ± 2 anni. Questa è stata probabilmente prodotta da una esplosione di grandi dimensioni, come una eruzione vulcanica equatoriale, che ha causato una attenuazione diffusa e ha contribuito al raffreddamento brusco in gran parte dell'emisfero settentrionale noto da documenti storici e dati degli anelli degli alberi per l'anno 536. I dati degli anelli degli alberi suggeriscono che questo è stato il più grave e prolungato episodio di raffreddamento di breve durata dell'emisfero settentrionale negli ultimi due millenni, superando anche la severità del periodo di freddo dopo l'eruzione del Tambora nel 1815.



Nella tabella in alto, viene mostrata l'evidenza dell'anomalia nella cronologia degli anelli di albero per la data indicata (Figura 1)

Evidenze in Groenlandia
La severità del raffrescamento estivo in vaste aree dell'emisfero settentrionale nel 536 è evidente nella bassa crescita mostrata in una serie di lunghi anelli della cronologia degli alberi in luoghi umidi e relativamente freschi a alte latitudini o altitudini elevate nel Nord e Centro della Svezia, della Finlandia, della Russia e dell'Austria (Tabella 1). Questi dati mostrano una ridottisssima crescita degli alberi  in questo periodo.


Qui di seguito invece ecco le misurazioni delle impurità chimiche in tre carotaggi di ghiaccio della Groenlandia: Dye-3, GRIP e NGRIP. 


Queste misurazioni rivelano una sottostima del segnale di acidità accoppiato, che è coerente con una causa vulcanica per l'evento dell'anno 536 d.C. (Figura 2b). Questo deposito di SO 4 2  è stato datato per il 533-534 ±2 negli strati nel Dye-3, GRIP e NGRIP avvenuti contemporaneamente [Vinther et al. , 2006]. Questa datazione è inoltre ancorata alla datazione del 79 dC in cui avvenne l'Eruzione del Vesuvio. La datazione 533-534 ± 2 SO 4 2 è preceduta da un deposito più grande datato 529 ± 2 (Figura 2b). Questo  deposito SO 4 2 potrebbe essere stato causato nel VI secolo dall'eruzione dell'Haruna (VEI = 5) in Giappone [Soda , 1996] e il suo modello SO 4 2 mostra sorprendenti somiglianze a quello derivante da due eruzioni  giapponesi del XVII (Figura 2c). Se la ragione della somiglianza è poco conosciuta, è interessante che le prove archeologiche suggeriscono fortemente che l'eruzione dell'Haruna ha avuto luogo all'inizio dell'state [Soda , 1996], cioè quasi nello stesso periodo delle due eruzioni vulcaniche giapponesi mostrate nella Figura 2c (le estati sono indicati con ''S'' in Figura 2). E' quindi ipotizzabile che i grandi modelli atmosferici  stagionali potrebbero produrre simili depositi quando avvengono eruzioni nello stesso periodo dell'anno.
Il deposito 533/34 ± 2 e del 1815 di Tambora mostrano anche alcune somiglianze con Dye-3 che hanno un inizio di picco più ampio con NGRIP SO42À (Figures 2a and 2b) [Clausen et al., 1997;
Langway et al. , 1995]. Un'altra somiglianza impressionante tra Tambora e le 533-534±2 è la loro distribuzione spaziale in tutta la Groenlandia. In entrambi i casi il Dye-3 SO 4 2 di carico (misurato in kg H 2 SO 4 per km 2 ) è 40-50% più grande del SO 4 2 À a carico GRIP / NGRIP (Tabella 3). Ciò è coerente con i modelli del un fallout radioattivo rilasciato a bassa latitudine ( $ 11 ° N) dalla bomba termonucleare nei primi anni del 1950 [Clausen e Hammer , 1988]. Per l'evento 529 ± 2 il Dye-3 SO 4 2, il carico è della stessa entità di GRIP e di NGRIP, indicando una fontissima eruzione  più a Nord[ Clausen e Hammer , 1988], dando le prove della reale di una eruzione per le medio-alte latitudini come causa più probabile del deposito SO 529 4 2 ±2 .


Evidenze anche in Antartide
I ricercatori hanno supposto che se il deposito del 533-534 ± 2 SO 4 2  trae origine da una eruzione tropicale, un deposito simile doveva essere rilevabile anche nei carotaggi di ghiaccio antartico. +

Fino a pochi anni fa l'incertezza nella datazione dei carotaggi di ghiaccio antartico oltre i 1500 anni indietro nel tempo era di circa il 5% o più [Cole-Dai et al. , 2000; et al. Steig , 2000; Taylor et al . , 2004], che è circa ± 70 anni per il 536. Tra le recenti iniziative per migliorare la datazione e quantificare meglio i valori della SO 4 2,  una nuova cronologia della SO 4 2 À ha assunto una incertezza di appena l'1% [Traufetter et al. , 2004] che ha rivelato un deposito di SO 4 2 intorno al 542 ± 17 (Tabella 3). Il deposito è stato rilevato in tre campioni di ghiaccio superficiale prelevati dalla Dronning Maud [ et al Traufetter. , 2004], dalla EPICA DML e dalla EPICA Dome C [ Severi et al. , 2007].

Da qui si può ipotizzare che l'evento del 536 può essere collegato ai depositi di SO 4 2 in entrambi gli emisferi, se si accetta la leggera imperferfezione dei carotaggi di ghiaccio antartico. Una datazione perfetta richiederebbe di spostare di 6 anni indietro nel tempo per l'Antartide e 2-3 anni avanti nel tempo per quella della Grienlandia. [...] Tuttavia è molto difficile credere che questo perfetto accordo vicino tra le analisi della Groenlandia e dell'Antartico sia casuale vista l'attuale analisi in queste carote di ghiaccio. Pertanto, i dati forniscono per entrambi gli emisferi una indicazione coerente di una eruzione vulcanica equatoriale come la probabile causa la maggior parte delle polveri del 536.


I dati dei carotaggi di ghiaccio della Groenlandia suggeriscono che l'eruzione associata al velo di polvere del 536 ha valori del 40% più alti di SO 4 2 rispetto all'eruzione del Tambora, mentre i carotaggi di ghiaccio antartico suggeriscono un deposito di circa il 15% più piccolo rispetto a quello di Tambora. Tuttavia, l'incertezza dell'Antartico nei depositì di SO 4 2 è troppo grande per offrire conclusioni definitive. Il fatto che il velo del 536 si associa con il 40% in Groenlandia rispetto all'eruzione del Tambora 1del 815 è in accordo con le osservazioni storiche provenienti dall'Europa, Cina e Mesopotamia che testimoniano per l'anno 536 un velo di polvere più grave e prolungato con un conseguente oscuramento maggiore rispetto all'eruzione del Tambora [ STOTHERS , 1984].

Se un'eruzione equatoriale è coerente con i veli di polvere osservata e la rapida crisi climatica del 536, non è chiaro in quale misura l'eruzione abbia contribuito direttamente alla natura prolungata della crescita apparente anomalia che si vede in Figura 1. La variabilità generale della temperatura nella figura 1 indica che la variabilità del clima potrebbe anche aver contribuito alla persistenza della crescita anomalia. Gli eventi del 567-568 ± 2 e il 674-675 ± 2 apparentemente non hanno causato un marcato impatto sulla crescita degli alberi NH, a causa della grandezza più piccola di questi eventi (il valore dei depositi di SO 4 2 è del 10–30% più piccolo rispetto al deposito dell'eruzione del Tambora). 

Il miglioramento della datazione dei carotaggi di ghiaccio da entrambi gli emisferi ci permettono di concludere che un'eruzione vulcanica di grandezza più ampia di quella del Tambora ha causato il velo di polvere del 536. Ciò sottolinea l'importanza delle analisi congiunte delle sezioni dagli alberi e delle registrazioni nei carotaggi di ghiaccio per la ricostruzione degli eventi di vulcanesimo del passato.

La scoperta dei crateri australiani
Le ricerche del dottor Abbott dell'American Geophysical hanno suggerito una teoria alternativa per spiegare questi valori di acidità nei carotaggi antartici e groenlandesi. Grazie alle misurazioni satellitari del livello del mare sono stati evienziati due crateri a circa 11 e 7,4 miglia al largo delle coste Australiane.

Secondo il National Geographic, che condusse un'analisi della costa, le grandi dune a forma di V lungo la costa, sarebbero la prova di un grande tsunami innescato da un gigantesco impatto.
Il Dr. Abbott ha calcolato che l'oggetto doveva essere stato di 2.000 m di diametro. Ha anche scoperto che i campioni nella zona hanno rivelato materiale che potrebbe essere stato fuso e poi schizzato verso il cielo.
Questo evento potrebbe spiegare in modo più sensato gli studi dell'anomalia climatica dell'anno 536 d.C.

La svolta dei fatti
Gli scienziati hanno trovato le prove dell'impatto di un enorme meteorite. Le interconnessioni con le altre prove hanno rivelato uno scenario drammatico: sembra che la catastrofe sia durata dieci anni, innescata da almeno due fenomeni mostruosi naturali, secondo quanto hanno dichiarato gli scienziati in occasione della riunione autunnale dell'American Geophysical Union (AGU) a San Francisco.

Ad innescare il raffreddamento del clima pluriennale sarebbe stata come già spiegato nello studio precedente una enorme nuvola di polveri creata dall'impatto. Un meteorite, avrebbe dovuto essere almeno 300 metri di spessore per causare tale fenomeno. Di recente, i ricercatori hanno scoperto nei fondali marini al largo della costa australiana nel Golfo di Carpentaria un cratere meteorico di circa 600 metri di diametro. Dallas Abbott, Dee Breger, e altri geologi della Columbia University negli Stati Uniti hanno hanno datato le tracce del meteorite, nel letto del mare al largo di Australia, già confermato poi dai carotaggi in Antartide e in Groenlandia. Il meteorite, secondo l'AGU, è pertanto il responsabile della grande catastrofe del 539 dC.

La prova del disastro climatico medievale come abbiamo già detto nella prima parte dell'articolo, i ricercatori le conoscono da tempo.
Grandi eruzioni vulcaniche hanno lasciato le loro tracce in tutto il mondo ma per una catastrofe globale di tale portata occorreva trovare prove ancora più devastanti.
Le tracce recentemente scoperte del  meteorite potrebbero mettere insieme i pezzi del puzzle. I buchi nel fondale marino nei pressi del cratere avrebbero favorito uno spostamento dei frammenti di meteorite e secondo Dallas Abbott l'unico responsabile imputabile è un meteorite.
L'oceanografo Mike Baillie della Queen's University di Belfast in Irlanda del Nord ha detto che cisono state calamità naturali. La sua ipotesi è coerente con gli anelli degli alberi e delle fonti storiche che indicano i periodi di siccità a metà del 540.
Probabilmente vi fu una grande eruzione vulcanica, seguita da un impatto meteoritico, ha detto Mike Baillie. Per un decennio, il mondo fu avvolto in nuvola di polvere, tale da essere paragonabile ad un fallout nucleare di portata inimmaginabile.


A cura di Arthur McPaul


Fonti:
http://www.spiegel.de/wissenschaft/natur/0,1518,735253,00.html
http://www.scribd.com/doc/31277069/New-ice-core-evidence-for-a-volcanic-cause-of-the-A-D-536-dust-veil-coughbullshit





giovedì 23 dicembre 2010

La nube a bolla


Nuova spettacolare immagine ottenuta dall’intramontabile telescopio spaziale Hubble. Questa volta protagonista è una gigantesca nube di gas, la cui forma ricorda quella di una bolla di sapone. La nube dista 160 mila anni luce dalla Terra e si trova nella Grande Nube di Magellano, una delle galassie satelliti della nostra galassia, la Via Lattea.

Denominata SNR 0509, la grande bolla gassosa si estende per 23 anni luce, si espande a una velocità di 18 milioni di chilometri orari ed è la parte più appariscente di ciò che rimane dell’esplosione di una supernova. Per gli astronomi, SNR 0509 è un tipico caso di esplosione di una supernova di tipo Ia che si verifica quando, in un sistema binario formato da due stelle in orbita una attorno all’altra, la più piccola, una stella nana bianca, attira a sé il gas della stella compagna. La nana bianca aumenta così di massa sino a superare un livello critico che la porta ad esplodere.

La luce di questa esplosione ha impiegato 160 mila anni per giungere sino a noi ed è forse stata visibile ad occhio nudo, nei cieli dell’emisfero sud della Terra, attorno al 1600. Si tratta però solo di una supposizione in quanto non abbiamo nessuna testimonianza storica di questo avvistamento.

L’immagine è il risultato di più riprese eseguite da Hubble tra il 2006 e il 2010: ogni singola ripresa, ottenuta con appositi filtri che lasciano passare solo determinate lunghezze d’onda, mette in evidenza particolari altrimenti nascosti. Combinandole insieme è stato possibile ottenere questa immagine ricca di dettagli e di colori che ci mostra la grande bolla gassosa che si staglia su uno sfondo pieno di stelle.

“Universi ciclici?... Nessuna prova”???


Mr. Penrose si sbaglia. A due settimane dallo studio che accreditava l’ipotesi di universi precedenti al nostro, arriva su ArXiv una replica corale, firmata da tre ricerche indipendenti dell’Università di Oslo, l’Università della British Columbia e l’Istituto canadese per l’astrofisica teorica di Toronto.

Affascinante idea quella di universi che nascono, s’espandono, collassano e ricominciano daccapo, in un ciclo infinito che non ha inizio e non ha fine. Peccato che nella radiazione cosmica di fondo – l’eco residuo lasciato dal Big Bang – non ci sarebbe alcuna evidenza di tutto ciò. Nessuna impronta, come ipotizzato da Penrose, di eventi violenti, quali la collisione di buchi neri, avvenuti in un tempo e uno spazio esistiti prima di noi.

Questo sostengono i tre gruppi che criticano, analisi alla mano, la teoria alternativa proposta da Roger Penrose (Oxford University) e Vahe Gurzadyan (Yerevan State University, Armenia). È vero – sostengono gli autori – che nell’immensa mappa del fondo cosmico prodotta dal satellite WMAP della NASA si può riscontrare la presenza di anelli concentrici, e persino di triangoli equilateri, dove la temperatura è marcatamente più uniforme rispetto al resto dell’Universo. Ma queste anomalie sono statisticamente compatibili con la teoria cosmologica standard dell’inflazione. Per la quale l’uniformità del cosmo si spiega assumendo che una frazione di secondo dopo il Big Bang l’Universo neonato abbia subito un’espansione estremamente accelerata, nota appunto come inflazione. Penrose e Gurzadyan si oppongono a questa teoria e ne hanno proposta un’altra, quella degli Universi ciclici: nella loro ipotesi, le anomalie del fondo cosmico sarebbero increspature dello spazio tempo generate da episodi violentissimi nell’epoca precedente alla nostra(tecnicamente detta “eone”), rimasti impresse, come un calco, quando è nato il nostro Universo.

Le nuove ricerche segnano, quindi, un altro “gol” a favore della teoria dell’inflazione? “Non esattamente”, risponde Gianfranco De Zotti, cosmologo dell’INAF-OA Padova. “Questi risultati non possono essere presi nè come una prova dell’inflazione, nè come una confutazione del modello di Penrose, così come i famosi cerchi non possono essere presi come prova degli Universi ciclici”. 

Il problema è che la teoria dell’inflazione, pur adatta a spiegare molti aspetti dell’Universo, manca ancora di una verifica sperimentale diretta. Ma il modello di Penrose, che pure non è da escludere a priori, è statisticamente debole. “Le nuove analisi rimettono le cose a posto facendo la statistica per bene. In questo modo, i cerchi, ma anche altre particolarità come triangoli equilateri, vengono fuori anche se la statistica è esattamente quella prevista dai modelli inflazionari standard. Tuttavia siamo al punto di partenza. Semplicemente, i dati esaminati non sono in grado di discriminare tra queste possibilità”. Sarà il satellite Planck, con nuove e più accurate mappe del fondo cosmico, a risolvere il mistero?

Un criovulcano su Titano?


Ha tutto l’aspetto del classico vulcano, con la forma a cono e un cratere al centro e, se le apparenze non ingannano, potrebbe esserlo davvero: si tratta di una conformazione rocciosa individuata su Titano, la maggiore delle lune di Saturno, grazie ai due strumenti a principale contributo italiano a bordo della sonda Cassini.
Sotra Facula, questo il nome della conformazione rocciosa, è stato paragonato al nostro Etna. Solo che non emetterebbe lava, ma ghiaccio.

“Se così fosse, dal punto di vista morfologico questo vulcano potrebbe avere una camera magmatica”, commenta Angioletta Coradini, dell’INAF-IFSI di Roma. Le condizioni su Titano, tuttavia, sono così diverse da quelle presenti sulla Terra che è prematuro parlare di questo genere di analogie. Analogie che in ogni caso si fermerebbero all’aspetto e alla struttura. “La differenza sostanziale rispetto ai vulcani terrestri”, continua Coradini , “è che questi ultimi si basano sul silicio e quindi le temperature alle quali le lave vengono emesse sono completamente diverse”. Ci possono quindi essere aspetti in comune dal punto di vista della forma e della struttura, non certo da quello della sostanza del materiale emesso durante un’eruzione. Se i vulcani terrestri che prendiamo come termine di paragone espellono roccia fusa sotto forma di lava incandescente, la loro controparte titanica erutterebbe invece ghiaccio fuso. Ecco perché si parla di criovulcanismo. “Il criovulcanismo è un fenomeno che abbiamo cominciato ad aspettarci di osservare su Titano fin dall’arrivo della Cassini”, spiega Enrico Flamini, program manager per la partecipazione italiana alla missione Cassini dell’ASI. “Titano è un po’ un mondo alla rovescia: l’acqua ghiacciata si comporta come la roccia sulla Terra.”

Alcuni ricercatori, alla NASA, sostengono che in realtà Sotra Facula non sia affatto un vulcano, ma una semplice conformazione rocciosa che ne ricorda l’aspetto. Per Angioletta Coradini, invece, “il punto non è capire se si tratti o meno di un edificio vulcanico, ma capire se si tratti effettivamente di criovulcanismo. Potrebbe essere un altro tipo di attività vulcanica, in cui non è coinvolta l’acqua ma altri fluidi. Dal punto di vista termodinamico, a meno che non ci siano molti elementi volatili, è molto difficile far risalire l’acqua, perché nelle condizioni di Titano è improbabile che essa raggiunga temperature sufficienti per comportarsi come un magma.”

La scoperta è stata fatta grazie alle immagini della sonda Cassini e a un po’ di fortuna. Il team di ricercatori che ha annunciato il risultato, infatti, stava combinando immagini multiple di una stessa area per ottenere una mappatura 3D: fortunatamente Sotra si trovava proprio in una delle zone di cui si sono ottenute immagini doppie. Ed è stato grazie all’opportunità di  analizzarne tridimensionalmente la forma e la struttura che sono state notate le caratteristiche tipiche di un vulcano.

Titano, per le sue dimensioni, può essere paragonato a Mercurio, ma al contrario del piccolo pianeta, possiede un’atmosfera che è anche più spessa di quella della Terra: a causa di questo guscio gassoso non è facile, nemmeno per la Cassini, riuscire ad osservare i dettagli della superficie. Nonostante queste difficoltà intrinseche, la sonda è riuscita anche stavolta a raccogliere dati eccellenti che portano a un susseguirsi di nuove scoperte. “Abbiamo progettato Cassini come una macchina complessa che potesse rispondere per molti anni agli interrogativi che erano sorti subito dopo le missioni Voyager”, conclude Flamini. “Ci siamo riusciti in pieno, anzi, ad oggi cominciamo anche ad eccedere le aspettative. Il fatto è che le scoperte sono tante come pure i risultati: merito dell’enorme qualità della missione e degli scienziati che lavorano sulla sua strumentazione.”

mercoledì 22 dicembre 2010

Le stelle massicce possono anche nascere isolate


Gli scienziati dell'Università del Michigan hanno usato il telescopio spaziale Hubble per ingrandire otto stelle giganti che sono dalle 20 alle 150 volte più massicce del Sole nella Piccola Nube di Magellano, una galassia nana vicina alla Via Lattea. I risultati hanno mostrato che cinque delle stelle non avevano stelle nelle vicinaze mentre le restanti tre sembravano essere in piccoli gruppi di circa dieci stelle.

Lo studente dottorato Joel Agnello e il professore associato Sally Oey del Dipartimento di Astronomia, hanno spiegato il significato della loro scoperta.
Una delle più accreditate teorie sostiene che la massa di una stella dipende dalle dimensioni del cluster in cui nasce, e solo un ammasso di stelle di grandi dimensioni potrebbe fornire una fonte abbastanza densa di gas e polveri per dar vita una di queste stelle massicce. La teoria opposta, sostenuta da questa ricerca, afferma che queste stelle mostruose potrebbero nascere anche in modo casuale ed isolato o in gruppi molto piccoli.
"I nostri risultati non supportano lo scenario che la massa massima di una stella in un cluster è in correlazione con la dimensione del cluster", ha detto Oey.
"I nostri risultati dimostrano che è possibile la formazione di grandi stelle in piccoli stagni", ha detto Agnello.

I ricercatori, al momento possono affermare che le stelle osservate non sono collegate ad ammassi e non sono stelle espluse, ma invece sono presenti addensamenti residui di gas che rafforzano la possibilità che le stelle sono ancora nei luoghi isolati dove si sono formate.

I loro risultati, sono stati pubblicati nell'edizione del 20 dicembre di The Astrophysical Journal, la ricerca è finanziata dalla Nasa e dalla National Science Foundation.

Foto in alto: A sinistra la stella 302 vista da Terra sembrava essere un unico oggetto , mentre grazie all'Hubble con un ingrandimento di 40x è risultata essere divisa in altre stelle. (credit: Lamb Joel)

A cura di Arthur McPaul