domenica 25 agosto 2013

Record di nitidezza con tecnologia italiana



Per dimostrare che funziona sono andati in capo al mondo, in Cile. Ma per ideare l’ottica più sbalorditiva che mai abbia equipaggiato un telescopio sono partiti dalla terra di Galileo. Sono i ricercatori dell’Osservatorio Astrofisico di Arcetri dell’INAF: insieme a un team di astronomi dell’Università dell’Arizona e del Carnegie Observatory, sono riusciti a scattare le fotografie astronomiche più nitide di sempre.
Un successo tecnologico straordinario, che ha già portato a ben tre risultati scientifici pubblicati sul numero odierno di The Astrophysical Journal. Un successo reso possibile da un sistema ottico d’avanguardia ideato e realizzato in gran parte in Italia, nei laboratori dell’INAF e di due PMI d’eccellenza: la Microgate di Bolzano e l’ADS International di Lecco.
Si chiama MagAO, il sistema che ha permesso di ottenere da Terra una risoluzione doppia rispetto a quella raggiunta nello spazio dal telescopio spaziale Hubble. Dove “Mag” sta per Magellan, uno dei due telescopi gemelli da 6.5 metri situati all’Osservatorio di Las Campanas, sulle Ande cilene, a circa 2400 metri d’altezza. E “AO” sta per Adaptive Optics, in italiano “ottica adattiva”: una tecnologia in grado di annullare – o quasi – le distorsioni introdotte dalla turbolenza atmosferica, consentendo così ai telescopi terrestri di avvicinarsi al loro potere risolutivo teorico.
L’effetto lo si può ammirare nella sequenza di tre immagini qui sotto. Quella più a sinistra mostra la stella binaria Theta 1 Ori C osservata senza ottica adattiva. Al centro e a destra, lo stesso sistema binario con l’ottica adattiva in funzione: il miglioramento in termini di nitidezza è impressionante.



Crediti: Laird Close/UA
A rendere “adattiva” l’ottica, nel caso del Magellan Telescope così come per il Large Binocular Telescope (LBT), è un sistema integrato formato, da una parte, da sensori che valutano in continuazione – e puntualmente – la turbolenza atmosferica misurando il fronte d’onda di sorgenti luminose. E dall’altra da uno specchio secondario “danzante”: uno specchio in grado di modificare la propria forma un migliaio di volte al secondo, grazie a centinaia di attuatori (585 per il Magellan Telescope, ancora di più per LBT), così da compensare le distorsioni.
Questo del Magellan Telescope non è certo il primo successo dell’ottica adattiva, ma è la prima volta che questa tecnologia porta a risultati scientifici rilevanti in banda visibile. «Quando nel 2008 ci chiesero di sviluppare un sistema di ottica adattiva simile a quello che già avevamo messo a punto per LBT ma orientato, questa volta, alle osservazioni nel visibile», ricorda Simone Esposito, dell’INAF di Arcetri, fra gli autori degli articoli usciti su ApJ e fra i leader nello sviluppo di questa tecnologia, «ancora nessuno ci aveva mai provato. C’era grande scetticismo sulla possibilità di poter ottenere buoni risultati nel visibile con sistemi adattivi. Nel 2010, però, con LBT abbiamo mostrato che si poteva fare. E l’anno successivo, dopo averlo provato ad Arcetri come quello di LBT, è terminata l’installazione del sistema al Magellan, in Cile. Ora sono arrivati anche i risultati astronomici». E che risultati: orientando il telescopio verso la Nebulosa d’Orione, grazie all’ottica adattiva le immagini hanno mostrato al di là di ogni dubbio come Theta 1 Ori C sia effettivamente un sistema binario.
Foto di apertura:
Credit: NASA/JPL-Caltech
A cura di Marco Malaspina
Fonte:
http://www.media.inaf.it/2013/08/22/magellan-adaptive-optics/
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giovedì 22 agosto 2013

WISE ritorna in attività





La missione Wide-field Infrared Survey Explorer della NASA verrà riattivata a settembre per continuare lo studio e la ricerca dei near-Earth objects. Dal 2009 al 2011 ha catalogato circa 560 milioni di oggetti e corpi rocciosi come asteroidi e comete, grazie alle sue potenti ottiche a infrarossi.

Le ferie prima o poi finiscono per tutti e anche alcune le sonde spaziali, con la fine di agosto, devono tornare a regime. E’ il caso di WISE (Wide-field Infrared Survey Explorer), la sonda della NASA lanciata nel 2009 che ha scoperto e studiato decine di migliaia di asteroidi nel nostro Sistema solare prima di essere posta in ibernazione nel febbraio del 2011, quando i suoi strumenti sono stati spenti.

I ricercatori del JPL hanno deciso che da settembre prossimo la sonda ricomincerà la sua attività per i prossimi tre anni, alla ricerca di NEO (near-Earth objects), ovvero asteroidi che orbitano a meno di 45 milioni di chilometri dalla Terra. WISE tornerà ad usare il suo telescopio con uno specchio da 40 centimetri di diametro e le sue ottiche a infrarossi alla ricerca di circa 150 oggetti, studiandone la forma, le caratteristiche e la riflettività insieme ad altri 2000 già scoperti in passato.

Durante la sua attività WISE ha raccolto circa 7500 immagini ogni giorno fino a febbraio 2011 (circa 2,7 milioni in tutta la missione). Nell’ambito del progetto NEOWISE della NASA, la sonda è stata la protagonista della più dettagliata ricerca mai realizzata sui NEO. Proprio perché gli asteroidi non emettono ma riflettono la luce, le ottiche a infrarossi di WISE sono degli strumenti potenti per catalogare e studiare la popolazione degli asteroidi. Solo nel 2010 la sonda ha studiato 158mila corpi rocciosi tra i 600mila conosciuti, tra cui 21 comete, più 34mila asteroidi nella cintura tra Marte e Giove e 135 near-Earth objects.

Amy Mainzer, principal investigator di NEOWISE al Jet Propulsion Laboratory, ha detto che la sonda “non solo ci permette di studiare al meglio gli asteroidi e le comete, ma ci permette di programmare al meglio le future missioni nello spazio”.

Foto:
Credit: NASA/JPL-Caltech

A cura di Eleonora Ferroni

Fonte:
http://www.media.inaf.it/2013/07/30/buchi-neri-affamati-e-super-veloci/

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mercoledì 21 agosto 2013

Buchi Neri Affamati E Super Veloci





Un gruppo di ricercatori inglesi è riuscito a calcolare la velocità di rotazione di una galassia, a 500 milioni di anni luce dalla Terra, mentre stava inglobando grandi quantità di materiale proveniente dal disco di accrescimento della galassia circostante. Future osservazioni renderanno i dati più precisi.

Un gruppo di astronomi è stato in grado di misurare la rotazione di buchi neri supermassicci usando un nuovo metodo, tale da permettere di studiare in modo ancora più approfondito il fenomeno che porta alla crescita delle galassie.

Gli scienziati della Durham University, nel Regno Unito, hanno osservato un buco nero, con una massa 10 milioni di volte quella del Sole, al centro di una galassia a spirale 500 milioni di anni luce dalla Terra, mentre si stava alimentando con il materiale presente nel disco circostante.

La distanza è stata calcolata osservando i raggi X e ultra violetti emessi durante “il pasto” del buco nero. Usando la distanza tra questo e il disco della galassia, i ricercatori sono stati in grado di calcolare lo “spin”, cioè il momento angolare del buco nero.

I buchi neri si trovano al centro di quasi tutte le galassie e possono produrre particelle incredibilmente calde, tanto da impedire ai gas intergalattici di raffreddarsi, e che sono alla base della formazione stellare. Gli scienziati non capiscono ancora perché i getti vengono espulsi nello spazio, ma gli esperti della Durham credono che il loro immenso potere e calore potrebbe essere legato alla rotazione del buco nero, molto difficile da misurare.

La rotazione del buco nero porta verso il centro il materiale presente nel disco di accrescimento e, ovviamente, più materiale viene inglobato più il buco nero gira veloce. È proprio la distanza con il disco che determina, quindi, la velocità di rotazione.

Gli scienziati, che hanno pubblicato la ricerca su , hanno utilizzato immagini a raggi x ottenute dal satellite XMM-Newton dell’ESA.

Foto:
Crediti immagine: NASA/JPL-Caltech

A cura di Eleonora Ferroni

Fonte:
http://www.media.inaf.it/2013/07/30/buchi-neri-affamati-e-super-veloci/

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martedì 20 agosto 2013

Asterosismologia Per Esopianeti





Un team di ricercatori ha usato l'asterosimologia per determinare con maggiore accuratezza la massa di un esopianeta orbitante la stella HD 52265, dirimendo il dubbio se si trattasse veramente di un pianeta o piuttosto di una nana bruna. L'importanza dello studio ce lo spiega Ennio Poretti, asterosismologo dell'INAF - Osservatorio di Brera.

Conoscere meglio l’interno di una stella per conoscere meglio i pianeti che le orbitano intorno. Può essere sintetizzato così l’approccio di un team di ricercatori del Max Planck Institut, Institut de Recherche en Astrophysique et Planetologie (Tolosa), dell’Osservatorio di Meudon (Parigi) e molti altri, sia europei che americani, e i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences.

Gli scienziati hanno esaminato HD 52265, una stella a circa 92 anni luce di distanza dal nostro pianeta e con una massa il 20 per cento maggiore del nostro sole. Già più di un decennio fa, gli scienziati avevano identificato un pianeta in orbita intorno a questa stella. Lo hanno quindi scelto come modello per dimostrare come la proprietà della stella potesse far luce sulle proprietà del pianeta.

Usando l’astrosismologia (vedi Media INAF) che identifica le proprietà interne delle stelle misurandone le oscillazioni di superficie sono stati in grado di valutare con precisione le caratteristiche della stella, come la massa, il raggio, l’età e la rotazione interna. Per far ciò si sono avvalsi del telescopio spaziale COROT, una missione guidata dall’Agenzia Spaziale Francese (CNES) e in collaborazione con l’Agenzia Spaziale Europea (ESA), per rilevare piccole variazioni nell’intensità della luce stellare causata dai sismi stellari.

“I periodi misurati delle oscillazioni stellari, spiega Ennio Poretti dell’INAF – Osservatorio Astronomico di Brera e Responsabile PRIN-INAF 2010 “Asteroseismology”, sono leggermente diversi se esse si propagano nel senso di rotazione della stella o in senso contrario. A partire da questi scarti temporali si è potuto determinare il periodo di rotazione e, dalle differenti ampiezze delle variazioni, l’inclinazione dell’asse di rotazione della stella. In questo modo, anche per un pianeta non transitante come HD 52265, si è potuto ricostruire l’orbita e derivare la massa, circa due volte quella di Giove, escludendo così che si tratti di una nana bruna, come suggerito da alcuni”.

“Questo innovativo risultato, conclude Poretti, mostra come la tecnica dell’asterosismologia sia in grado di giocare un ruolo fondamentale nella caratterizzazione dei pianeti extrasolari. Per queste sue grandi potenzialità è alla base della missione PLATO 2.0, attualmente in corsa per la selezione M3 dell’ESA e mirata alla scoperta di pianeti simili alla nostra Terra”.

A cura di Redazione MediaINAF

Fonte:
http://www.media.inaf.it/2013/07/30/astrosismologia-per-esopianeti//

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sabato 17 agosto 2013

Un Pianeta Alieno Ai Raggi X





Per la prima volta in assoluto, l’occultazione di una stella da parte di un pianeta al di fuori del Sistema solare è stata osservata in banda X. A rilevarla, i telescopi spaziali Chandra della NASA e XMM-Newton dell’ESA. Il mondo alieno è HD 189733b, già noto come l'esopianeta blu.

Sono trascorsi quasi vent’anni dalla scoperta del primo pianeta extrasolare, e da allora ne sono stati visti a migliaia intenti a transitare innanzi alla loro stella madre. Sempre, però, in luce visibile. Ora per la prima volta, complice un allineamento propizio, il fenomeno è stato rilevato in banda X. Protagonisti di quest’osservazione da record, il pianeta HD 189733b – in orbita attorno a una stella distante da noi 63 anni luce – e i due telescopi spaziali sensibili ai raggi X che hanno assistito al transito: Chandra della NASA e XMM-Newton dell’ESA.

HD 189733b – definito giusto qualche settimane fa, qui su Media INAF, “il pianeta dipinto di blu” – è un cosiddetto “Giove caldo” (il più vicino alla Terra fra quelli conosciuti), ovvero un esopianeta paragonabile, quanto a stazza, al nostro Giove, ma con un’orbita molto più stretta. Per la precisione, la distanza fra HD 189733b e la sua stella è 30 volte più piccola di quella che separa la Terra dal Sole. E un anno, lassù, dura appena 2.2 giorni.

Un’osservazione senza precedenti, dunque, questa messa a segno da Katja Poppenhaeger dello Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics (CfA) e colleghi. Ma soprattutto un risultato che apre la strada a nuove scoperte. Studiare un esopianeta in banda X offre infatti la possibilità di ottenere informazioni preziosissime sulla composizione della sua atmosfera. HD 189733b, proprio per la sua relativa prossimità alla Terra, era già da tempo nel mirino degli astronomi.

Dai dati raccolti con la sonda Kepler e il telescopio spaziale Hubble era emersa la presenza, nella sua atmosfera, di particelle di silicati, responsabili della sua caratteristica colorazione blu. L’osservazione con Chandra e XMM Newton offre ora nuovi indizi sullo spessore e sulla composizione della sua atmosfera. Durante i transiti, i due telescopi spaziali hanno infatti rilevato una diminuzione della luce in banda X tre volte superiore alla corrispondente diminuzione in banda visibile. «I dati a raggi X suggeriscono l’esistenza di strati estesi, nell’atmosfera del pianeta, trasparenti alla luce ottica ma opachi ai raggi X», spiega Jurgen Schmitt, dell’Hamburger Sternwarte (Germania), uno dei coautori dell’articolo in uscita su The Astrophysical Journal. «Tuttavia, per averne certezza, occorrono altri dati».

A cura di Marco Malaspina

Fonte:
http://www.media.inaf.it/2013/07/30/pianeta-a-raggi-x/

Foto di apertura:
Crediti: X-ray: NASA/CXC/SAO/K.Poppenhaeger et al;
Illustrazione: NASA/CXC/M.Weiss

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venerdì 16 agosto 2013

Quel puntino siamo noi!!!





La sonda Cassini ha realizzato il 19 luglio un'immagine del nostro pianeta vista dal sistema di Saturno. Per ora ancora grezza, verrà elaborata nei prossimi mesi, e continuerà la tradizione di immagini della Terra dai confini del Sistema solare iniziata dal famoso "pale blue dot" ripreso da Voyager nel 1990.

Speriamo che il 19 luglio, alle ore 23:30 circa, non abbiate dimenticato di fermarvi, di smettere di rimuginare i soliti pensieri quotidiani, di guardare verso l’alto e sorridere. E che quel sorriso fosse degno di superare alla velocità della luce l’orbita di Marte, attraversare indenne la fascia degli asteroidi, lambire Saturno e dopo un viaggio di 80 minuti circa imprimersi nella CCD della camera di Cassini, insieme a miliardi di altri sorrisi. In un segno di poco più di un pixel.

Quella di oggi potrebbe sembrare solo un’altra “semplice” fotografia della Terra scattata dallo spazio, un’immagine raw (grezza) e bisognerà aspettare i prossimi mesi per vederla pulita, sistemata e rimontata in un ritratto inedito del sistema di Saturno comprensivo della Terra. Il clamore mediatico che l’ha preceduta e l’invito della NASA rivolto a tutti i terrestri di partecipare all’evento spaziale (realizzando anche un gruppo Flicker di proprie immagini del momento) sembrano in contraddizione con i pochi sgranati pixel che dovrebbero rappresentare la Terra ripresa dall’orbita di Saturno.






La Terra vista da Cassini a Saturno nel 2006. Crediti: NASA/JPL/Space Science Institute

In realtà l’immagine di oggi va vista come il frutto di un progetto iniziato decine di anni fa, agli albori dell’esplorazione spaziale e che ha un obiettivo semplice e geniale: scattarci una foto dai confini del Sistema Solare. Realizzare una immagine dalla quale risulti chiaro come l’Essere umano sia piccolo (parlando di mere dimensioni fisiche) e contemporaneamente, come sia incredibilmente grande (in termini di ambizione scientifica e umana).

Tracciando a ritroso la storia di questo progetto torniamo al 15 settembre 2006, quando Cassini già realizzò un’impresa simile da una distanza dalla Terra di 1,5 miliardi di km. Questa volta il ritratto era in colori naturali e la Terra compariva con un accenno di Luna, tra gli anelli del sistema di Saturno (nel box dell’immagine originale), in controluce rispetto alla luce del Sole. La scelta di inquadrare la Terra con questa particolare illuminazione è stata fatta dal team di Cassini per non rischiare di rovinare la CCD della sonda con la luce diretta della nostra stella.

A onor di cronaca, Cassini non è stata la prima a tentare l’impresa. Era il 14 febbraio 1990 quando la sonda Voyager 1 dall’orbita di Nettuno a circa sei miliardi di chilometri di distanza dalla Terra, scattò una fotografia del pianeta Terra, un minuscolo, quasi indistinguibile puntino. L’idea di girare la fotocamera della sonda e scattare quella foto così assurda e così preziosa è stata del geniale astronomo e divulgatore scientifico Carl Sagan. A prima vista, la Terra appariva in quell’immagine come un puntino di 0,12 pixel quasi indistinguibile nella luce verde del Sole (inevitabile nel realizzare un’immagine di una zona così vicina al Sole).






La Terra ripresa dalla sonda Voyager 1 il 14 febbraio 1990

E se siete scettici e faticate a distinguere in quei pochi pixels una delle immagini spaziali più famose ed evocative, nota al mondo come il “pale blue dot”, fermatevi un attimo. Come scrisse Sagan (che cito per intero), considerate ancora quel puntino.

“Quel puntino è qui. Quel puntino è casa. Quel puntino è noi. Su di esso, tutti coloro che ami, tutte le persone che conosci, tutti quelli di cui hai mai sentito parlare, ogni essere umano che sia mai esistito, ha vissuto qui la propria vita. L’insieme delle nostre gioie e dolori, migliaia di religioni, ideologie e dottrine economiche, così sicure di sé, ogni cacciatore e raccoglitore, ogni eroe e codardo, ogni creatore e distruttore di civiltà, ogni re e plebeo, ogni giovane coppia innamorata, ogni madre e padre, figlio speranzoso, inventore ed esploratore, ogni predicatore di moralità, ogni politico corrotto, ogni “superstar”, ogni “comandante supremo”, ogni santo e peccatore nella storia della nostra specie è vissuto lì. Su un minuscolo granello di polvere sospeso in un raggio di Sole.”

A cura di Livia Giacomini

Fonte:
http://www.media.inaf.it/2013/07/22/quel-puntino-siamo-noi/

Foto di apertura:
Una delle immagini raw della Terra realizzate dalla Cassini il 19 Luglio 2013. Crediti: NASA/JPL/Space Science Institute

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Un ammasso, due gruppi di stelle





Un gruppo di astronomi, utilizzando l'Hubble Space Telescope della NASA e dell'ESA, ha determinato il moto orbitale di due distinte popolazioni di stelle in un antico ammasso globulare stellare, rivelando che si sono formate in tempi diversi e offrendo un raro sguardo sui primi giorni della Via Lattea.

Ancora una volta Hubble si rivela uno strumento indispensabile per le grandi scoperte spaziali. Infatti un gruppo di ricercatori guidati da Harvey Richer della University of British Columbia in Vancouver ha combinato le recenti osservazioni di Hubble con otto anni di osservazioni prese dall’archivio del telescopio per determinare i movimenti delle stelle nell’ammasso globulare 47 Tucanae, che si trova a circa 16.700 anni luce distanza nella costellazione meridionale del Tucano.

L’analisi ha permesso ai ricercatori, per la prima volta, di mettere in relazione il movimento delle stelle all’interno del cluster con la loro età. Le due popolazioni stellari presenti in 47 Tucanae hanno una differenza di età inferiore ai 100 milioni di anni. La scoperta è stata pubblicata sulla rivista The Astrophysical Journal Letters.

“Quando si analizzano i movimenti delle stelle, più è lungo il tempo di osservazione, e più accuratamente possiamo misurare il loro movimento”, ha detto Richer. “Questi dati sono così buoni che possiamo effettivamente vedere i singoli movimenti delle stelle all’interno del cluster. I dati ci offrono prove dettagliate per cercare di capire come le diverse popolazioni stellari si sono formate nei cluster.”

Gli ammassi globulari della Via Lattea sono ciò che resta del processo di formazione della nostra galassia. 47 Tucanae ha più di 10,5 miliardi di anni ed è uno dei più brillanti dei 150 ammassi globulari della nostra galassia.

Alcuni precedenti studi spettroscopici hanno rivelato che molti ammassi globulari contengono stelle di diversa composizione chimica, suggerendo che vi siano stati più episodi di formazione stellare. Questa analisi di Hubble supporta quegli studi, ma aggiunge il moto orbitale delle stelle all’analisi.

Richer e il suo team hanno usato l’Hubble Advanced Camera for Surveys per osservare il cluster nel 2010. Hanno combinato queste osservazioni con 754 immagini d’archivio per misurare il cambiamento di posizione di oltre 30.000 stelle. Questi dati sono stati utilizzati anche per studiare il movimento delle stelle. Il team ha anche misurato la luminosità e la temperatura delle stelle.

L’archeologia stellare ha identificato due distinte popolazioni di stelle. La prima popolazione è costituita da stelle più rosse, che sono più vecchie, meno arricchite chimicamente, e orbitano su cerchi casuali. La seconda popolazione è costituita da stelle più blu, che sono più giovani, più arricchite dal punto di vista chimico, e si muovono in orbite più ellittiche.

La mancanza di elementi più pesanti nelle stelle rosse riflette la composizione iniziale del gas che ha formato il cluster. Dopo che le stelle più grandi hanno completato la loro evoluzione hanno espulso del gas arricchito con elementi più pesanti nel cluster. Questo, entrando in collisione con altro gas, ha formato un seconda generazione di stelle, più arricchita chimicamente, che si è concentrata verso il centro del cluster. Nel corso del tempo queste stelle si sono spostate lentamente verso l’esterno in orbite più ellittiche.

Questa non è la prima volta che Hubble ha rivelato la presenza di più generazioni di stelle in ammassi globulari. Nel 2007, i ricercatori di Hubble hanno trovato tre generazioni di stelle nel massiccio ammasso globulare NGC 2808.

A cura di Antonio Marro

Fonte:
http://www.media.inaf.it/2013/07/19/un-ammasso-due-gruppi-di-stelle/

Foto:
Immagine dell’antico ammasso globulare 47 Tucanae. L’immagine a destra mette in risalto le migliaia di stelle dell’ammasso.
CREDIT: NASA, ESA, Digitized Sky Survey (DSS; STScI / AURA / UKSTU / AAO), H. Richer e J. Heyl (University of British Columbia), e J. Anderson e J. Kalirai (STScI))

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mercoledì 14 agosto 2013

Che aria si respira su Marte?





Due strumenti a bordo del rover Curiosity hanno studiato la composizione dell'atmosfera di Marte con una precisione mai raggiunta prima, studiano in particolare il rapporto tra gli isotopi di carbonio, idrogeno, ossigeno e argon. I dati raccontano la storia dell'atmosfera di Marte e confermano l'origine marziana di molti meteoriti giunti sulla Terra.

Non contento di scavare e raccogliere campioni di roccia marziana, il rover della NASA Curiosity sta anche annusando l’aria del pianeta rosso, per ottenere la più dettagliata analisi mai effettuata della sua atmosfera. Due articoli sul numero di questa settimana di Science contengono i dati raccolti finora dalla suite di strumenti dedicati a questa impresa, chiamata Sample Analysis at Mars. Il primo dei due articoli deriva dai dati raccolti dallo spettrometro TLS (tunable laser spectrometer), e ha come primo autore Chris Webster del Jet Propulsion Laboratory della NASA. L’altro si basa invece sulle osservazioni del Quadrupole Mass Spectrometer (QMS), ed è firmato da Paul Mahafft del NASA Goddard Space Flight Center.

I due studi confermano in buona parte quanto osservato negli anni Settanta dalle missioni Viking, ma raggiungendo una precisione molto maggiore. L’atmosfera marziana appare costituita da un mix di anidride carbonica (il gas più abbondante), argon, azoto, ossigeno e monossido di carbonio.

Come spiega Webster in una intervista a Science, il vero salto di qualità di queste misurazioni rispetto a quelle di Viking è il fatto di essere riusciti a misurare non solo la concentrazione delle diverse sostanze chimiche, ma anche dei diversi isotopi di ogni elemento chimico, ovvero le diverse “versioni” degli atomi di carbonio, ossigeno, idrogeno e così via, che si differenziano per il numero di protoni. “Sulla Terra, la misurazione degli isotopi ci racconta molte cose sulla biologia, la geologia, il cambiamento climatico, perché tutti questi processi influenzano le concentrazioni relative di isotopi. Su Marte, ci danno una vera e propria finestra sulla storia del pianeta, raccontandoci di impatti di comete ed eruzioni vulcaniche”.

Secondo Webster, i più importanti messaggi che emergono dai due studi è il fatto che l’atmosfera marziana non sembra essere cambiata un granché nell’ultimo miliardo di anni: gli eventi che hanno determinato la sua composizione attuale si sono verificati per lo più prima. L’altro aspetto è la conferma dell’effettiva origine marziana di molti meteoriti trovati sulla Terra, consentita dalla misura della concentrazione di Carbonio 13, che nelle molecole di anidride carbonica nell’atmosfera di Marte si trova con una ratio corrispondente a quella di quei meteoriti. “Il fatto che due strumenti che funzionano in modo molto diverso come TLS e QMS è molto rassicurante” spiega Webster.

Interessantissime anche le misurazioni delle concentrazioni relative di idrogeno e deuterio, la sua variante più pesante. “Sulla Terra, il rapporto tra idrogeno e deuterio ci racconta la storia dell’acqua, e ci aiuta a fare ipotesi su come sia arrivata sul nostro pianeta. Anche su, la misurazione del rapporto D/H (deuterio/idrogeno) è il primo passo verso una ricostruzione completa della storia dell’acqua su Marte e la sua interazione con l’atmosfera, e la storia dell’atmosfera a sua volta sarà il riferimento per una storia della chimica delle rocce”. Il fatto che su Marte ci sia molto deuterio e poco idrogeno semplice, spiega Webster, supporta l’idea che Marte abbia perso gran parte della sua atmosfera all’inizio della sua storia, 3 o 4 miliardi di anni fa per poi perderne solo una piccola porzione in tutto il periodo successivo.

A cura di Nicola Nosengo

Fonte:
http://www.media.inaf.it/2013/07/18/che-aria-si-respira-su-marte/

Foto:
Il rover Curiosity (Credit: NASA)


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venerdì 2 agosto 2013

IRIS Illumina il Sole





Il momento in cui un telescopio entra in attività rappresenta il culmine di anni di lavoro e pianificazione che contemporaneamente pone le basi per un patrimonio di ricerca e di risposte per il
futuro.
Il 17 luglio 2013, il team internazionale di scienziati ed ingegneri che hanno sostenuto e costruito il NASA Interface Region Imaging Spectrograph, o IRIS, hanno vissuto questa emozione. Mentre la navicella orbitava attorno alla Terra, la porta del telescopio si è aperta per iniziare ad i misteriosi strati più bassi dell'atmosfera del Sole e i risultati sono stati a dir poco stupefacenti. Dati nitidi e chiari che hanno mostrato dettagli senza precedenti di questa regione poco osservata.


"Queste belle immagini di IRIS stanno per aiutarci a capire come la bassa atmosfera del Sole alimenta una serie di eventi globali", ha dichiarato Adrian Daw, lo scienziato IRIS del NASA Goddard Space Flight Center di Greenbelt, nel Maryland: "Si guarda a qualcosa con un dettaglio maggiore di quanto sia mai stato visto prima, che apre nuove porte alla comprensione. C'è sempre quel potenziale elemento di sorpresa".

Quando la porta del telescopio si è aperta, il 17 luglio 2013, IRIS ha cominciato ad osservare il Sole in un dettaglio eccezionale. Le prime immagini hanno mostrato una moltitudine di sottili strutture, come piccole fibre che non erano mai state viste in precedenza, rivelando enormi contrasti di densità e di temperatura in tutta la regione, anche tra le anse vicine che sono a poche centinaia di chilometri di distanza.
Le immagini hanno anche mostrato i punti che rapidamente si illuminano e si sfiocano, fornendo indizi su come viene trasportata l'energia assorbita in tutta la regione.

Le fini immagini di IRIS nella regione aiuteranno gli scienziati a monitorare come l'energia magnetica contribuisca al riscaldamento dell'atmosfera del Sole.
Gli scienziati hanno bisogno di osservare la regione nei minimi dettagli, perché l'energia che scorre attraverso di essa si diffonde dallo strato superiore dell'atmosfera solare alla corona, con temperature superiori a 1 milione di kelvin (circa 1,8 milioni di F), quasi un migliaio di volte più caldo della stessa superficie solare.

IRIS è una missione del programma NASA Explorer lanciata da Vandenberg Air Force Base, in California, il 27 giugno 2013.
Le capacità di Iris sono adattate unicamente a svelare la regione d'interfaccia solare, perché costituiscono l'emissione dei raggi ultravioletti che impattano nello spazio vicino alla Terra influendo sul clima della Terra.
L'energia che viaggia attraverso la regione ci aiuterà anche a comprendere meglio il vento solare che influisce sulla metereologia spaziale e può colpire i satelliti, le reti elettriche e sistemi di posizionamento globale, o GPS sulla Terra.

Progettato per la ricerca della regione di interfaccia in modo più dettagliato di quanto sia mai stato fatto prima, IRIS è una combinazione tra un telescopio ultravioletto e quello che detto spettrografo.
La luce dal telescopio è suddivisa in due componenti. La prima fornisce immagini ad alta risoluzione, l'acquisizione di dati su circa l'uno per cento del Sole in un istante. Mentre queste sono relativamente piccole istantanee, le immagini possono risolvere caratteristiche fino a 150 miglia di diametro.
Mentre le immagini sono in una lunghezza d'onda di luce alla volta, il secondo componente è lo spettrografo che fornisce informazioni su molte lunghezze d'onda della luce contemporaneamente.

Lo strumento divide la luce del Sole nelle sue diverse lunghezze d'onda e misura una data lunghezza d'onda quando è presente.
Queste informazioni vengono poi ritrattate su un grafico che mostra le linee spettrali.
Le Linee di Taller corrispondono alle lunghezze d'onda in cui il Sole emette la luce.
Le analisi delle righe spettrali possono anche fornire velocità, temperatura e intensità su come l'energia e il calore si muovono attraverso la regione.
"La qualità delle immagini e degli spettri che stiamo ricevendo da IRIS è incredibile. Questo era proprio quello che speravamo", ha detto Alan Title, ricercatore principale IRIS presso la Lockheed Martin Advanced Technology Center Solar and Astrophysics Laboratory di Palo Alto, in California.
"C'è molto lavoro da fare per capire che cosa stiamo vedendo, ma la qualità dei dati ci permetterà di farlo. "

IRIS non solo fornisce osservazioni allo stato dell'arte per osservare la regione dell'interfaccia, ma fa uso di tecnologie avanzate di calcolo per aiutare ad interpretare tutto ciò che esso riprende. Infatti, l'interpretazione della luce che esce dalla regione dell'interfaccia non poteva essere fatta prima dell'avvento dei supercomputer di oggi perché, in questa zona del Sole, il trasferimento e la conversione dell'energia da una forma all'altra non era compresa.

La missione IRIS ha implicazioni a lungo termine per la comprensione della genesi della meteorologia spaziale vicino alla Terra. Capire come l'energia solare sposta il materiale attraverso la regione di interfaccia potrebbe aiutare gli scienziati a migliorare le previsioni per i tipi di eventi che possono interferire con le tecnologie terrestri.

Traduzione e adattamento a cura di Arthur McPaul

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2013/07/130725141642.htm

Foto:
Confronto di una regione solare con le immagini tra la precedente sonda SDO e l'attuale IRIS (Credit: NASA/SDO/IRIS)




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giovedì 1 agosto 2013

Una Misteriosa Vecchia Spirale





Un suggestivo vortice cosmico è il centro della galassia NGC 524, visto dal telescopio spaziale Hubble della NASA / ESA. Questa galassia si trova nella costellazione dei Pesci, a circa 90 milioni di anni luce dalla Terra.

NGC 524 è una galassia lenticolare. Le galassie lenticolari sono da ritenersi uno stato intermedio in evoluzione galattica - non sono né ellittiche né a spirale. Le galassie a spirale sono galassie di mezza età con vaste, braccia che contengono milioni di stelle. Insieme a queste stelle ci sono grandi nubi di gas e polvere che, quando sono abbastanza dense diventano vivai dove nascono nuove stelle.
Quando tutto il gas si esaurisce o perdendosi nel vuoto cosmico, le braccia a poco a poco svaniscono e la forma a spirale comincia a indebolirsi.

Al termine di questo processo, ciò che rimane è una galassia lenticolare (un disco luminoso pieno di vecchie stelle rosse circondate da quel poco di gas e polveri della galassia che è riuscita ad aggrapparsi).

Questa immagine mostra la forma di NGC 524 in dettaglio, formato dal gas rimanente che circonda il rigonfiamento centrale della galassia. Le osservazioni di questa galassia hanno rivelato che mantiene un certo movimento a spirale, che spiega la sua struttura complessa.


A cura di Arthur McPaul

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2013/07/130726135822.htm

Foto:
Galassia NGC 524. (Crediti: ESA/Hubble & NASA, Acknowledgement: Judy Schmidt)

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