sabato 15 febbraio 2014

L'Osservazione dell'Universo Potrebbe Accelerarne la Distruzione

astronomia


Se le teorie della fisica quantistica sono corrette, la comprensione dell'Universo potrebbe cambiare la nostra percezione di esso fino a distruggerlo. La drammatica conclusione è stata tratta da due fisici americani, secondo i quali, la nostra comprensione del 'sistema universo' porterà inevitabilmente alla sua fine.

La conoscenza è potere, o almeno questo è quello che siamo stati portati a credere.
Ma, paradossalmente, sapere troppo potrebbe accidentalmente innescare un conto alla rovescia che porterà alla fine dell’Universo!

Secondo questa teoria, ogni volta che guardiamo l’universo, non facciamo altro che dargli uno spintone verso la sua morte. Ad avanzare la drammatica conclusione sono Lawrence Krauss della Case Western Reserve University di Cleveland, Ohio, e il collega James Dent, secondo i quali gli studi astronomici hanno accelerato il processo nel corso degli ultimi due decenni, soprattutto concentrandosi sulla misurazione dell’energia oscura, la misteriosa forza che determina l’espansione dell’universo.

La teoria, secondo i ricercatori, è la conseguenza naturale di una strana proprietà della fisica quantistica, la branca della scienza che studia il comportamento delle particelle e forse dell’intero universo. La semplice osservazione, infatti, è capace di influenzare l’andamento di uno stato quantistico.
L’esperimento quantistico più noto è quello della doppia fenditura. L’esperimento ha mostrato che quando un osservatore guarda passare una particella attraverso due fenditure poste in una barriera, la particella si comporta come un proiettile, passando attraverso una delle due fenditure.

Tuttavia, se l’osservatore smette di guardare la particella, questa inizia a comportarsi come un’onda, riuscendo a passare attraverso entrambe le fenditure nello stesso tempo. Questo significa che la materia e l’energia possono presentare le caratteristiche sia delle onde che delle particelle e che il loro comportamento dipende dalla presenza di un osservatore.

Questo fenomeno si presenta in maniera ancor più sconcertante nel cosiddetto ‘effetto Zenone quantistico‘, il quale afferma che un sistema, che decadrebbe spontaneamente, è inibito o addirittura non decade affatto se sottoposto ad una serie infinita di osservazioni, impedendo così transizioni a stati diversi da quello iniziale.
In contrasto, interferire con una transizione a tempi successivi può portare al fenomeno opposto, noto come effetto anti-Zenone (o inverso), in cui il decadimento è accelerato. Entrambi gli effetti sono stati osservati recentemente in diversi esperimenti.

Il problema è che quando osserviamo un sistema, possiamo mantenerlo in un certo stato. Gli studi hanno dimostrato che l’osservazione ripetuta di un sistema in uno stato di alta energia, mantiene tale sistema in uno stato di decadimento accelerato. Se questo è in uno stato di bassa energia, la sua osservazione lo manterrà in uno stato di decadimento lento.

Secondo Krauss, questo principio vale anche per l’universo. Essendo l’universo in espansione un sistema ad alta energia, la sua osservazione, in particolare il suo lato ‘oscuro’, potrebbe mantenerlo in uno stato di decadimento accelerato. Insomma, più guardiamo l’universo, più anticipiamo la sua fine.
L’unica soluzione per fermare il decadimento accelerato dell’Universo sarebbe quello di fermare la ricerca, così che possa spostarsi tranquillamente in uno stato di decadimento più lento, e allora saremo tutti salvi.

Tuttavia, potremmo non essere i soli ad osservare e studiare l’Universo. Se ad un certo punto ci dovessimo accorgere che il nostro ‘sistema cosmo’ è giunto alla fine, potremmo sempre dare la colpa agli extraterrestri curiosi e alle loro osservazioni.


Fonte: 
http://www.ilnavigatorecurioso.it/2014/02/11/fisica-quantistica-losservazione-delluniverso-potrebbe-accelerare-la-sua-distruzione/





Là dove osa Voyager 1





I risultati dell’Interstellar Boundary Explorer della NASA, pubblicati oggi su Science, sono coerenti con quelli raccolti dagli osservatori terrestri per raggi cosmici. E mostrano come i confini dell’eliosfera siano plasmati dal campo magnetico interstellare.

Com’è orientato il campo magnetico della nostra galassia? L’ago della bussola, quello che potrebbe indicarci la risposta, potrebbe essere un misterioso nastro d’energia e particelle ai confini del Sistema solare. Un nastro sottile e circolare, del quale già avevamo reso conto qui su Media INAF, la cui struttura è delineata da un’intensa emissione di atomi neutri. Individuata da IBEX – l’Interstellar Boundary Explorer della NASA – già nel 2009 catturando particelle a energie relativamente basse (nell’ordine delle centinaia di KeV), la struttura a nastro risulta ora confermata anche da osservazioni a energie dieci ordini di grandezza più elevate, nella scala dei TeV: quelle ottenute da esperimenti come Milagro, As-gamma e IceCube catturando raggi cosmici di provenienza interstellare.

La direzione del campo magnetico galattico, rimasta fino a oggi sconosciuta, potrebbe essere il tassello mancante per comprendere come la forma dell’Eliosfera – la gigantesca bolla che avvolge l’intero Sistema solare – sia modellata dal campo magnetico interstellare, scrivono gli autori dello studio, coordinato da Nathan Schwadron della University of New Hampshire, pubblicato oggi online su Science Express. Di conseguenza, ci aiuterebbe a capire meglio anche come l’eliosfera riesca a proteggerci dai pericolosi raggi cosmici provenienti dalla galassia.

Una misura, questa della direzione del campo magnetico interstellare, che gli autori dello studio suggeriscono di compiere in tandem con il più remoto avamposto dell’umanità: la sonda Voyager 1, la prima a essersi addentrata nello spazio interstellare. E a oggi la sola, insieme alla sorella Voyager 2, in grado di raccogliere informazioni di prima mano dai confini dell’eliosfera. La direzione del campo magnetico interstellare che si deduce dai dati inviati da Voyager 1, a dire il vero, è diversa da quella indicata da IBEX. Una discrepanza che ovviamente pone interrogativi agli scienziati, ma che non necessariamente implica un errore da parte di una delle due sonde. L’incongruenza, suggeriscono i ricercatori, potrebbe essere dovuta solo al diverso insieme di dati analizzati: molto puntuali, raccolti in un luogo e in un periodo di tempo ben circoscritti nel caso di Voyager 1; mediati su grandi distanze nel caso di IBEX.

«È un’epoca affascinante. Solo cinquant’anni», ricorda Schwadron, «fa eravamo ancora alle prese con le prime misure del vento solare, e cominciavamo appena a capire qualcosa della natura di ciò che accade nello spazio immediatamente oltre la Terra. Oggi stiamo muovendo i primi passi in un territorio ancora tutto da esplorare indagando la fisica al di là dell’eliosfera».

Per saperne di più:
Leggi su Science l’articolo “Rays Related to the Sun’s Local Galactic Environment from IBEX”, di N. A. Schwadron, F. C. Adams, E. R. Christian, P. Desiati, P. Frisch, H. O. Funsten, J. R. Jokipii, D. J. McComas, E. Moebius e G.P. Zank

Foto in alto:
L’intensità dei raggi cosmici (in alto) messa a confronto con quanto predetto dai modelli che si basano sui dati di IBEX (in basso). La buona corrispondenza fra osservazioni e previsioni, evidenziata dal colore delle diverse regioni, avvalora la stima di IBEX della direzione locale del campo magnetico galattico. Crediti: Nathan Schwadron, UNH-EOS.

A cura di Marco Malaspina

Fonte:
http://www.media.inaf.it/2014/02/13/ibex-eliosfera/

Supportaci:








Lo scudo solare velato di nero d’ossa



Un pigmento preistorico, rielaborato in chiave moderna, rivestirà lo scudo termico della sonda Solar Orbiter. Una delle tante sfide tecnologiche per questa missione ESA in fase di realizzazione. Facciamo il punto con Ester Antonucci, responsabile del coronografo METIS e associata INAF.

L’antico pigmento nero derivato da ossa bruciate, usato già più di 30.000 anni fa nelle pitture rupestri, viene ora in soccorso alla tecnologia spaziale. Una versione moderna del nero d’ossa andrà infatti a rivestire la parte più esterna dello scudo termico in titanio del Solar Orbiter, la sonda dell’ESA che si avvicinerà più di ogni altra al Sole, il cui lancio è previsto nel 2017. Con una tecnologia utilizzata per gli impianti dentali, il colore (per cui è stato inventato l’ossimorico appellativo di Solar Black) non verrà semplicemente steso sopra ma diventerà tutt’uno con il metallo dello scudo. Grazie alle sue proprietà termo-ottiche, questo rivestimento non scolorirà nel tempo, nonostante anni di esposizione ad un flusso estremo di radiazione ultravioletta, né sarà soggetto a cariche elettrostatiche indotte dal vento solare. Uno dei tanti problemi tecnologici da risolvere per questo gioiellino che dovrà trovarsi a suo agio fronteggiando una luce solare 13 volte più intensa di quella che arriva sulla Terra e temperature che saliranno fino a 520 gradi.

“Lo scudo termico è estremamente importante per proteggere gli strumenti del Solar Orbiter che sono progettati per guardare direttamente il Sole,” ci spiega Ester Antonucci, già direttrice dell’Osservatorio Astrofisico di Torino dell’INAF e responsabile del coronografo METIS. “Naturalmente, essendo strumenti di altissima precisione, è altrettanto importante controllarne il gradiente termico per non avere deformazioni che rovinerebbero le immagini e le osservazioni solari”.

Ma perché “dipingere” una sonda solare proprio di nero?

In generale perché dobbiamo avere delle condizioni per cui la luce possa entrare negli strumenti senza avere delle interferenze e delle riflessioni con lo scudo termico. Per noi che vogliamo osservare con METIS la debole corona sovrastante il disco solare è ancora più fondamentale che non entri luce parassita quando schermiamo appunto il disco solare.

Ci può fare il punto della situazione su Solar Orbiter?

Per il Solar Orbiter si stanno costruendo ben dieci strumenti. E’ un carico scientifico molto complesso, che va dai raggi x, al visibile agli strumenti che misurano in situ il plasma. Attualmente si è nella fase di completamento della progettazione degli strumenti, che dovrebbero poi essere realizzati entro la fine del 2015. Servirà quindi un anno e mezzo per integrarli all’interno del satellite e per le varie verifiche prima del lancio, attualmente previsto per il luglio 2017. Ci vorranno ancora poi tre anni, attraverso orbite molto complesse, passaggi multipli vicino a Venere e un altro passaggio vicino alla Terra, perché si possa raggiungere l’orbita con il perielio più vicino al Sole. A quel punto sarà il manufatto umano che arriverà più vicino al Sole all’interno dell’orbita di Mercurio. I tre di avvicinamento saranno usati per calibrare gli strumenti e anche per verificarne la stessa stabilità termica, perché durante l’orbita la sonda spaziale subirà una differenza di temperatura molto grande. Quindi anche questo periodo sarà fruttuoso per avere degli strumenti che funzionino alla perfezione quando, nel 2020, cominceremo ad osservare il Sole.

Qual è il risultato che vorrebbe vedere per primo?

Ce ne sono tanti, ma certamente la fase più emozionante sarà quando la sonda si alzerà abbastanza rispetto all’eclittica e al piano equatoriale solare in modo da poter vedere finalmente i poli del Sole. Noi da Terra non riusciamo a vederli sufficientemente bene per motivi geometrici. Invece, con questa sonda riusciremo effettivamente a vederli in altissima risoluzione e, attraverso la misura delle oscillazioni, a scorgere quello che c’è sotto la superficie del Sole anche guardando i poli, per verificarne la simmetria sferica. Inoltre, i poli sono le zone da cui proviene il vento solare e vorremmo proprio studiare con sufficiente accuratezza la base di questo vento solare veloce. E questo si può fare solo osservando ai poli.


A cura di Stefano Parisini

Fonte: http://www.media.inaf.it/2014/02/14/lo-scudo-solare-velato-di-nero-dossa/





Terra chiama spazio, di nuovo


Uno dei più grandi obiettivi degli scienziati è quello di scoprire vite aliene nello spazio. Non solo forme basilari, ma proprio forme di vita intelligenti con cui comunicare. Molti ricercatori hanno provato a cercare una soluzione, finora senza esiti positivi. Un giorno, dicono gli scienziati, sarà possibile comunicare agevolmente anche con le navette interstellari.

Avete mai pensato a come inviare messaggi nello spazio o come parlare, se fosse possibile, con gli extraterrestri? Da sempre astronomi, ricercatori e amatori provano a mandare messaggi agli alieni, cercando di ricevere una risposta, cosa che non è mai accaduta (almeno per ora!). Di recente è stato pubblicato uno studio di  David Messerschmitt, dell’Università della California, dal titolo“Design for minimum energy in starship and interstellar communication”, nel quale si descrive la progettazione di un eventuale sistema di comunicazione all’avanguardia per mandare messaggi alle navicelle interstellari o, perché no, a chiunque ci ascolti da lassù.

Messerschmitt ha spiegato che possiamo già comunicare con le sonde che sono una certa distanza dalla Terra (per esempio, Voyager 1 nello spazio interstellare) grazie alle radiofrequenze, e ci sono anche strumenti di comunicazione laser che vengono utilizzati tra la Terra e la Luna. Il ricercatore però sa che a causa delle lunghe distanze che deve percorrere il nostro saluto agli astronauti, le informazioni possono perdersi e perdere anche di intensità. Pensando proprio al compromesso tra una larghezza di banda più ampia e meno bit consegnati al ricevente a causa della scarsa energia, il nuovo progetto utilizzerebbe una larghezza di banda non vincolata e quindi minimizza l’energia erogata.

C’è da dire, inoltre, che noi non conosciamo i sistemi di comunicazione che utilizzano gli extraterrestri (qualora esistessero altre forma di vita intelligente), quindi molti tentativi che negli anni sono stati fatti possono essere andati a vuoto. Comunicare da navicella a navicella non dovrebbe essere ostico, dato che utilizzerebbero metodi di comunicazioni bidirezionali con tecnologie simili. Nello studio, però, l’esperto spiega che le navicelle spaziali delle altre civiltà a noi ancora sconosciute (chissà ancora per quanto!) utilizzano quasi sicuramente tecnologie diverse e sarà più difficile comunicare con loro. Sicuramente gli ostacoli non saranno solo tecnologici, ma anche “diplomatici”, per così dire.

Ci vorrà del tempo per mettere insieme un messaggio adatto da lanciare nello spazio. In entrambi i casi l’energia necessaria sarebbe comunque molta, non tanto per comunicare con le navicelle spaziali, che spesso sono vicine alla Terra, ma quanto per parlare con gli alieni. In questo caso “il costo di antenne e trasmettitori sarebbe considerevole”, ha detto lo studioso, suggerendo che una soluzione sarebbe quella di minimizzare l’energia fornita al ricevitore. Altre civiltà potrebbero aver trovato modi più efficienti per superare questo problema, chissà! Intanto proviamo ancora: c’è qualcuno lassù?

a cura di Eleonora Ferroni

Fonte: http://www.media.inaf.it/2014/02/14/terra-chiama-spazio-di-nuovo/








giovedì 13 febbraio 2014

La danza delle aurore di Saturno

Immagini all'infrarosso e all'ultravioletto scattate dalla sonda Cassini della NASA e dall'Hubble Space Telescope. Si vedono aurore attive ai poli di Saturno. Credit: NASA/JPL-Caltech/University of Colorado/Central Arizona College and NASA/ESA/University of Leicester and NASA/JPL-Caltech/University of Arizona/Lancaster University

Grazie alle spettacolari e dettagliate riprese del telescopio spaziale Hubble e della sonda Cassini gli scienziati stanno indagando come si generano ed evolvono questi fenomeni sul pianeta gigante, scoprendo similitudini e differenze rispetto a quelle che avvengono sulla Terra.

Gli astronomi sono da sempre affascinati dalle aurore che si verificano sul pianeta Saturno e spesso vengono pubblicate foto di questo fenomeno osservato per la prima volta nel 1979, quando Pioneer 11 fotografò i poli del pianeta illuminati in ultravioletto. Lo spettacolare fenomeno è frutto dell‘interazione tra la magnetosfera e la ionosfera. Mentre l‘Hubble Space Telescope della NASA, in orbita intorno alla Terra, è stato in grado di osservare le aurore settentrionali nelle lunghezze d’onda ultraviolette, la sonda Cassini della NASA, in orbita attorno a Saturno, ha ottenuto close-up complementari della parte settentrionale, meridionale e della faccia non visibile dalla Terra agli infrarossi, in luce visibile e nelle lunghezze d’onda ultraviolette. Quello che è stato ottenuto è il dettaglio di una coreografia unica ai due poli del sesto pianeta del Sistema solare che mostra la complessità e la bellezza delle aurore.
A differenza della Terra, dove il magnifico spettacolo dura solo poche ore, su Saturno l’aurora può brillare anche per diversi giorni. La NASA, infatti, è stata in grado di osservare questo fenomeno dal 5 aprile 20 maggio 2013. Le immagini provenienti dall’UVIS (spettrometro ultravioletto), montato su Cassini e ottenute da un’insolita distanza ravvicinata, hanno fornito uno sguardo alle diverse caratteristiche delle deboli emissioni su una scala di poche centinaia di chilometri. Per gli esperti è ormai certo che il fenomeno sia legato alle variazioni causate dal vento solare che entra nell’atmosfera di Saturno: i gas fluorescenti presenti nell’alta atmosfera emettendo lampi di luce a diverse lunghezze d’onda formando le aurore che circondano i poli. Sempre più accreditata è, però, anche l’ipotesi che le aurore siano provocate dal campo magnetico dei due poli del pianeta.




Nel video si vede anche una zona particolarmente luminosa dell’aurora che ruota in sincronia con la luna di Saturno Mimas. In precedenza altre immagini ottenute con l’UVIS avevano mostrato un punto luminoso aurorale intermittente legato elettricamente alla luna Encelado, un flusso di particelle cariche che viaggia dalla luna ghiacciata a Saturno, interagendo con il suo intenso campo magnetico e generando deboli aurore, un po’ come accade su Giove. I nuovi dati suggeriscono, quindi, che anche un’altra luna è in grado di influenzare lo spettacolo di luci su Saturno. ”Le immagini che abbiamo ottenuto sono le migliori finora per quanto riguarda i rapidi cambiamenti nelle emissioni aurorali”, ha detto Wayne Pryor, del Central Arizona College. “Alcuni punti sono più luminosi e si accendono ad intermittenza nelle immagini. Altre zone, invece, sono perennemente illuminate e ruotano attorno al polo, ma più lentamente rispetto alla velocità di rotazione di Saturno”, ha aggiunto.



aurora saturno polo nord polo sud


I nuovi dati ottenuti da Cassini e da Hubble stanno aiutando gli astronomi a risolvere anche alcuni misteri sulle atmosfere dei pianeti giganti gassosi. “Gli scienziati si sono chiesti perché le zone alte delle atmosfere di Saturno e  degli altri giganti gassosi sono riscaldate ben oltre quello che potrebbe essere normalmente previsto per la loro distanza dal Sole”, ha detto Sarah Badman, ricercatrice per la missione Cassini presso l’Università di Lancaster (Gb). “Guardando questa sequenza di immagini, realizzata da diversi strumenti, capiamo dove l’aurora colpisce e riscalda l’atmosfera”.
Attraverso i dati in luce visibile, invece, i ricercatori hanno potuto studiare i colori delle aurore. A differenza di quelle sulla Terra, che sono verdi nella parte bassa e rosse in alto, su Saturno sono rosse nella parte bassa e viola nella parte alta. Come sul nostro Pianeta, le aurore possono essere a forma di tenda che fluttua nel vento oppure a fiamma con le sembianze di fuoco che brilla in lontananza. Può assumere anche l’aspetto di un bagliore diffuso o di raggi isolati che si formano e scompaiono. Ma perché la differenza di colore? Sulla Terra la colorazione dipende dalla presenza di molecole di azoto e ossigeno eccitato, mentre su Saturno dalla presenza di molecole di idrogeno eccitate (ciò vuol dire che assorbono radiazioni ed emettono luce visibile). ”Ci aspettavamo di vedere un po’ di rosso nelle aurore di Saturno, dato che l’idrogeno emette una luce rossa quando si agita, ma sapevamo anche che potevano esserci variazioni di colore a seconda delle energie delle particelle cariche che bombardano l’atmosfera e della sua densità”, ha spiegato Ulyana Dyudina, del team di imaging presso il California Institute of Technology, Pasadena, California.
Un altro gruppo di ricercatori sta analizzando i dati raccolti nello stesso periodo dai i due telescopi terrestri del W.M. Keck Observatory alle Hawaii e dall’Infrared Telescope Facility della NASA. I risultati aiuteranno a capire come le particelle vengono ionizzate (caricate) nell’atmosfera alta di Saturno e li aiuterà a mettere in ordine un decennio di osservazioni terrestri di Saturno in prospettiva, perché possono vedere che cosa cosa disturba e interferisce nei dati che provengono dall’atmosfera terrestre.

A cura di Elena Ferroni



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