venerdì 30 aprile 2010

Scoperti i buchi neri intermedi

Nuove prove dal NASA Chandra X-ray Observatory e dall'ESA XMM-Newton rafforzano la tesi che due buchi neri di medie dimensioni esisterebbero vicino al centro di una galassia. Questi buchi neri eviterebbero di cadere nel centro della galassia e potrebbero essere necessari per la crescita di buchi neri supermassicci al centro delle galassie, compresa la Via Lattea.


Per diversi decenni, gli scienziati hanno sospettato la presenza di due classi distinte di buchi neri: i primi con una massa all'incirca dieci volte quella del Sole e i secondi, quelli supermassicci, che si trovano al centro delle galassie, che vanno da centinaia di migliaia a miliardi di masse solari.
Ma ciò ha lasciato un mistero irrisolto: esistono buchi neri che hanno una massa intermedia tra questi estremi?
Le prove dell'esistenza di questi oggetti sono state spesso controverse e fino ad ora non ci sono forti studi della presenza di più di un buco nero in un'unica galassia.

Recentemente, un team di ricercatori ha trovato le prove nei dati a raggi X della presenza di due buchi neri di medie dimensioni nella galassia M82 che si trova a 12 milioni di anni luce dalla Terra.
"Questa è la prima volta che vengono trovate le prove dell'esistenza di due buchi neri in un'unica galassia", ha detto Feng Hua dell'Università Tsinghua in Cina. "La loro posizione vicino al centro della galassia potrebbe fornire indizi circa l'origine dei più grandi buchi neri dell'Universo, i buchi neri supermassicci che si trovano al centro di gran parte delle galassie".
Un possibile meccanismo per la formazione di buchi neri supermassicci potrebbe essere una reazione a catena dopo la collisione di stelle in ammassi di stelle compatte, in modo da provocare la formazione di stelle estremamente massicce, che poi crollerebbero per formare dei buchi neri di massa intermedia. Gli ammassi stellari poi affonderebbero al centro della galassia, dove i buchi neri di massa intermedia si fonderebbero per formare un buco nero supermassiccio.
In questo quadro, gli ammassi che non sono stati abbastanza massicci o abbastanza vicini al centro della galassia per cadere all'interno, potrebbero sopravvivere, come farebbe qualsiasi buco nero che contengono.

"Non possiamo dire se questo processo si sia effettivamente verificato in M82, ma sappiamo che entrambi queste possibili buchi neri di medie dimensioni si trovano all'interno o nelle vicinanze di ammassi stellari", ha detto Phil Kaaret presso la University of Iowa, che è co-autore di entrambi i documenti. "Inoltre, M82 è il luogo più vicino a noi, dove le condizioni sono simili a quelle di un universo, con un moltitudine di stelle in formazione".
Le prove di questi due "superstiti" buchi neri ci viene fornita da come le loro emissioni di raggi X variano nel tempo e dall'analisi della loro luminosità dei raggi X e spettri, cioè, la distribuzione dell'energia dei raggi X

I dati di Chandra e XMM-Newton, dimostrano che l'emissione dei raggi X per uno di questi oggetti muta in modo distintivo come per i buchi neri di massa stellare che si trovano nella Via Lattea. Utilizzando queste informazioni e i modelli teorici, il team, ha stimato la massa di questo buco nero tra le 12.000 e le 43.000 volte la massa del sole. Questa massa è sufficientemente grande per generare copiose emissioni di raggi X attirando il gas direttamente dal suo ambiente, piuttosto che da una compagna binaria, come fanno i buchi neri di massa stellare.

Il buco nero si trova a una distanza di 290 anni luce dal centro di M82. Gli autori si chiedono se il buco nero è nato allo stesso tempo della galassia o è stato attirato nel centro della galassia dall'esterno. Ma potrebbe essere appena scampato dal cadere nel buco nero supermassiccio che presumibilmente è situato nel centro di M82.
Il secondo oggetto, situata a 600 anni luce di distanza dal centro di M82, è stato osservato sia dal Chandra che dal XMM-Newton. Durante le esplosioni di raggi X, le variazioni periodiche e casuali normalmente presenti scompaiono dando un forte indizio che un disco di gas caldo domina l'emissione di raggi X. Una misura dettagliata dei dati a raggi X indica che il disco si estende fino all'orbita più interna e stabile attorno al buco nero. Un comportamento simile è stato visto dai buchi neri di massa stellare nella nostra Galassia, ma questa è la prima individuazione di un candidato probabile di massa.

Il raggio dell'orbita stabile più interna dipende solo dalla massa e dalla rotazione del buco nero. Il modello migliore per l'emissione di raggi X implica la presenza di un buco nero in rapida rotazione con la massa nella gamma tra le 200 e le 800 volte quella del Sole. La massa è in accordo con le stime teoriche per un buco nero creato in un ammasso di stelle in fuga e con collisioni stellari.
"Questo risultato è uno dei più forti elementi di prova fino ad oggi per l'esistenza di un buco nero di massa intermedia", ha detto Feng. I due documenti che descrivono i risultati esposti, sono recentemente apparsi sull'Astrophysical Journal. Il NASA Marshall Space Flight Center di Huntsville, Alabama, gestisce il programma Chandra del NASA Science Mission Directorate a Washington. La Smithsonian Astrophysical Observatory controlla Chandra e le operazioni di volo da Cambridge.


A cura di Arthur McPaul

Fonte: http://www.sciencedaily.com/releases/2010/04/100429132751.htm



giovedì 29 aprile 2010

Vita aliena presto scoperta sugli esopianeti, ma...

Nuove prospettive per la ricerca di vita extraterrestre verranno dallo studio delle super Terre, con i nuovi telescopi spaziali, ma tuttavia il primo contatto potrebbe essere un sogno irrealizzabile


Anche se i nostri telescopi saranno in grado di individuare i segni della presenza di vita sui pianeti extrasolari entro i prossimi 100 anni, sarebbe probabilmente necessario attendere ancora molti secoli prima di poterli guardare veramente da vicino.

"Purtroppo, forse ci vorrá ancora più tempo dei 23 secoli trascorsi da quando Epicuro ipotizzò la presenza di altri pianeti, prima di poter vedere gli alieni da vicino" ha detto Jean Schneider, astrobiologo presso l'Osservatorio di Parigi a Meudon. Lui e i suoi colleghi hanno discusso della difficoltà di studiare a distanza la vita aliena. Schneider e i suoi colleghi affermano che nei prossimi 15-25 anni, ci saranno due generazioni di missioni spaziali in grado di analizzare con maggior dettaglio i pianeti extrasolari. La prima generazione conterrà dei coronografi da 1,5 a 2,5 metri di larghezza che bloccheranno la luce diretta da una stella per la ricerca di pianeti giganti e super-Terre nelle vicinanze. La seconda generazione sarà caratterizzata da interferometri, coronografi e altre attrezzature capaci di analizzare meglio la luce riflessa da questi pianeti extrasolari. Queste missioni, potrebbero rivelare le sostanze chimiche contenute nelle loro atmosfere o sulla loro superficie. Allo stesso tempo, verranno probabilmente installate anche delle telecamere coronografiche sui più grandi telescopi terrestri.

Dopo questi progetti, le future missioni potrebbero cercare pianeti potenzialmente abitabili da stelle distanti oltre 50 parsec o lune rocciose dei pianeti giganti osservati nelle zone abitabili delle stelle vicine. Le missioni potrebbero anche profondamente indagare sui pianeti extrasolari che mostrano potenziali segni di vita. Tali missioni richiederebbero matrici molto più grandi nello spazio: ad esempio, prendendo un immagine di 100 pixel di un pianeta doppio distante della Terra a circa 16,3 anni luce di distanza, sarebbero richiesti gli elementi che compongono una matrice di un telescopio spaziale posto a più di 43 chilometri di distanza.

Da tali immagini di pianeti extrasolari riusciremmo a capire dettagli come gli anelli, le nuvole, gli oceani, i continenti e forse anche un accenno di foreste o savane. Il monitoraggio a lungo termine potrebbe rivelare avvicendamenti stagionali, eventi vulcanici e cambiamenti climatici. Potrebbero anche essere rilevata la presenza di lune, dalla proiezione dalle ombre sui pianeti. Strumenti più sensibili nell'infrarosso potrebbero rilevare l'anidride carbonica, che potrebbe dire molto sull'atmosfera.

Al di là poi dei segni convenzionali di vita come noi la conosciamo, rappresentati dall'ossigeno atmosferico, un altro tipo di segnale potrebbe essere quello "tecnologico", caratteristiche che cioė non possono essere spiegate semplicemente dalla complessa chimica organica. Alcuni esempi di queste traccie potrebbero includere la luce laser, i gas clorofluorocarburi, o anche le costruzioni artificiali.

"Cercare gli alieni è filosoficamente importante, ci ricorderebbero ciò che è essenziale nella condizione umana", ha detto Schneider.

Il sistema stellare più vicino al Sole è il sistema di Alpha Centauri. Alpha Centauri A, conosciuta anche come Rigil Kentaurus, è la stella più luminosa della costellazione del Centauro ed è la quarta stella più brillante nel cielo notturno. Alpha Centauri A è della identica classe spettrale del Sole, pertanto molti scienziati ipotizzano che potrebbe avere pianeti che ospitano la vita.


"Tuttavia, se gli scienziati effettivamente rilevassero i segni della presenza di vita, sarebbe davvero frustrante dover attendere diversi secoli prima che l'umanità possa realizzare la speranza di vedere da vicino questi alieni" ha spiegato Schneider. Per ottenere le immagini di organismi giganti su un ipotetico pianeta di Alpha Centauri A o B a circa 4,37 anni luce di distanza, gli elementi che compongono una matrice telescopica dovrebbero coprire una distanza di circa 400.000 km di larghezza, o quasi il raggio del Sole. L'area necessaria per raccogliere anche un solo fotone da un pianeta è di circa 60 miglia di larghezza. Per determinare se la forma di vita si muove con una velocità di anche 2 metri al minuto e che il moto non sia dovuto ad errori di osservazione, l'area richiesta per la raccolta dei fotoni necessari dovrebbe essere di circa 1,8 milioni di chilometri di larghezza .

L'unica alternativa sarebbe quella di inviare i veicoli spaziali sul pianeta, ma un tale viaggio sarebbe lungo e pericoloso. Alla velocità del 30% della velocità della luce, con una grana da 100 micron di spessore, circa la larghezza di un capello umano occorrerebbe all'incirca la stessa energia cinetica per un corpo da 100 tonnellate che viaggi a 60 miglia all'ora. Nessuna tecnologia attualmente disponibile potrebbe accelerarlo fino a velocità elevate. Si potrebbe invece viaggiare più lentamente e quindi più sicuri, ma anche andando all'1% della velocità della luce (o circa 1.860 miglia al secondo) occorrerebbero millenni per il veicolo spaziale prima di raggiungere la sua meta di destinazione.

Indipendentemente dal metodo, a quanto pare ci vorranno secoli per avere un diretto contatto visivo con qualsiasi tipo di vita aliena nelle vicinanze, almeno nel quadro della scienza e della tecnologia che abbiamo ora. Ciò che la fisica potrebbe però fare in un millennio, non è prevedibile, hanno detto i ricercatori.

"Spero che ci sarà una rivoluzione imprevedibile nei concetti fisici," ha detto Schneider scherzando [ha poco da ridere... aggiungerei, ndt]

Non tutti hanno però ritengono queste prospettive deludenti.

"Abbiamo sempre cercato la vita indirettamente, mediante la ricerca di traccie atmosferiche della presenza sua presenza,forse più probabili della scoperta di una cellula", ha detto l'astrobiologo Alan Boss alla Carnegie Institution di Washington, che non ha preso parte a questo studio. "Questo è ciò che abbiamo sempre sperato e siamo ancora ben lontani dal poter conseguire questo modesto traguardo. Saremo felicissimi di trovare intanto vita su Marte prima di metterci a cercare le prove della vita al di fuori del Sistema Solare! "

Certo, c'è sempre una possibilità che arriveremo a studiare gli alieni da vicino, piuttosto che il contrario, però secondo Boss, è un evento improbabile.
"Non abbiamo bisogno di preoccuparci della venuta degli alieni sulla Terra per schiavilizzarci, i viaggi interstellari dalle creature viventi sono solo fantascienza, e non scienza", ha detto.

Il nostro commento
Ennesimo articolo che affronta a distanza di pochi giorni il solito argomento. Siamo soli? Dove sono gli alieni? Quando gli scopriremo? Quando li vedremo da vicino? Esiste una seconda Terra?

Le solite domande apparentemente senza risposta. La comunità scientifica sta facendo grossi passi da gigante per rispondere nel più breve tempo possibile a queste domande. I nuovi supertelescopi spaziali scopriranno presto nuove terre, ma come giustamente si chiedono gli studiosi, sarà come guardare e non toccare, perchè le immani distanze non ci permetteranno di scoprire quali forme di vita abitano il pianeta o comunicare con loro.

Sembra che l'invalicabile limite della velocità della luce sia l'unica barriera a tale eventualità, ma anche se la si riuscisse a superare in laboratorio, non sarebbe possibile probabilmente inviare a tale velocità nessun mezzo né automatico né con equipaggio.

Con le moderne tecnologie, non riusciamo nemmeno ad essere certi se su Marte sia effettivamente esistita la vita e non abbiamo nemmeno i fondi per rimandare gli astronauti sulla Luna, ad una manciata di centinaia di migliaia di km dalla Terra. Con queste premesse, non so come potrà essere perseguita l'ardita impresa di scoprire forme di vita extrasolari, se non con traccie indirette dai prossimi supertelescopi. La scoperta di queste traccie sconvolgerebbero definitivamente le idee di unicità della presenza umana nel Cosmo, ma di fatto, una seconda Terra a 100 o più anni luce da noi non cambierebbe nulla e non aprirebbe nessuna prospettiva reale.

Non resta dunque che rimettere le mani alla relatività di Einstein e soprattutto alla fisica quantistica per cercare di accorciare o annullare queste distanze, come qualche fisico sosterrebbe. Senza una nuova fisica, nuove tecnologie, nuovi fondi e nuove risorse, i "pianeti pullulanti" di vita che il Webb Space Telescope potrebbe scoprire, riempiranno solo i libri di astronomia e le pagine dei blog, ma in concreto non darebbero molto altro all'esplorazione e alla sete di conoscenza che l'uomo ha.


A cura di Arthur McPaul

Fonte: http://www.astrobio.net/exclusive/3476/seeing-the-closest-aliens-will-take-centuries


I celestiali segreti del Gatto


E’ una vera e propria culla di nuove stelle la nebulosa NGC6334, detta Zampa di Gatto per la particolare conformazione della polvere stellare apparsa in un’immagine ottica ripresa dal telescopio dell’ESO, il Wide Field Image, dell’Osservatorio di Paranal in Cile. Polvere e gas che, nonostante l’ardente attività di queste giovani stelle, alcune con massa fino a dieci volte quella del sole, impediscono la loro osservazione in questo momento così particolare com’è appunto l’accensione della fusione nucleare seguita dai vacillanti momenti di vita dei loro primi milioni di anni. 
Ma ora grazie ad una nuova immagine del telescopio ad infrarossi VISTA, anche lui dell’ESO e posto accanto al  Very Large Telescope di Paranal, gli astronomi hanno potuto superare il velo composto da polveri e gas, mettendo così a “nudo” le giovani stelle in formazione.

VISTA ha il principale specchio del diametro di 4,1 metri ed è equipaggiato della più grande camera ad infrarossi esistente su un telescopio. Grazie alla capacità di osservazione di VISTA è possibile vedere l’intera regione di formazione delle stelle in un colpo solo con una chiarezza mai avuta finora.
Riuscendo a superare i limiti del visibile causati dall’oscuramento provocato dalla polvere stellare, si può imparare molto circa le modalità della formazione delle stelle e il loro sviluppo nei primi milioni di anni di vita. La nebusosa Zampa di Gatto si trova nel centro della Via Lattea, a 5500 anni luce dalla Terra nella costellazione dello Scorpione e si estende per circa 50 anni luce.

Acqua anche sugli asteroidi: lo dice la NASA


Gli scienziati della NASA hanno scoperto composti di ghiaccio d'acqua e composti organici a base di carbonio sulla superficie di un asteroide, uno dei più grandi della Fascia Principale degli Asteroidi, facendo ipotizzare ancora una volta che alcuni asteroidi e comete, possano aver portato l'acqua sulla Terra primordiale. La ricerca è stata pubblicata nel numero odierno della rivista Nature.

"Per molto tempo il pensiero è stato che l'acqua non potesse esistese nella cintura di asteroidi nemmeno per riempire una tazza", ha detto Don Yeomans, direttore del NASA Near-Earth Object Program Office al Jet Propulsion Laboratory di Pasadena, in California "Oggi invece riteniamo che si possa riempire buona parte della Terra ".

La scoperta è il risultato dell'osservazione dell'asteroide 24 Themis da parte dell'astronomo Andrea Rivkin della Johns Hopkins University Applied Physics Laboratory di Laurel, nel Maryland. Rivkin, insieme a Joshua Emery, della University of Tennessee a Knoxville, impiegato al NASA Infrared Telescope Facility per effettuare misurazioni in sette occasioni diverse a partire dal 2002. Dai dati elaborati è stata rintracciata la presenza di ghiaccio d'acqua e composti organici a base di carbonio utilizzando immagini ad infrarosso.

I risultati dello studio sono particolarmente sorprendenti perché si credeva che Themis, orbitante intorno al Sole a "soli" 479 milioni km (297 milioni di miglia), era troppo vicino alle fonti di calore ardenti del Sistema Solare per contenere ancora il ghiaccio d'acqua originatosi 4,6 miliardi anni fa quando si formò.
La ricerca potrebbe contribuire a riscrivere il libro sulla formazione del Sistema Solare e la natura degli asteroidi.  "Questo è emozionante perché ci fornisce una migliore comprensione sul nostro passato e apre prospettive per il nostro futuro", ha detto Yeomans.  

"Questa ricerca indica che non solo gli asteroidi possono essere una fonte di materie prime, ma potrebbero essere utilizzati come stazioni di rifornimento e pozze d'acqua per la futura esplorazione interplanetaria".

Le conclusioni di Rivkin e Emory sono state confermate in modo indipendente da un altro team guidato da Humberto Campins presso la University of Central Florida di Orlando.
La NASA rileva e studia asteroidi e le comete che passano vicino alla Terra sia con telescopi terrestri e che spaziali. Il Near-Earth Object Program, comunemente chiamato "Spaceguard", scopre questi oggetti e traccia le trame delle loro orbite per determinare se potrebbero essere pericolosi per il nostro pianeta.

JPL gestisce il Near-Earth Object Program Office della NASA's Science Mission Directorate a Washington. JPL è una divisione del California Institute of Technology di Pasadena.

L'analisi dei fatti:
Questo studio è l'ennesima dimostrazione che il vecchio modello del Sistema solare è ormai prossimo ad essere sgretolato definitivamente. Un insieme di oggetti sterili che circondano il Sole, ad eccezione delle Terra, è ormai un'idea che non combacia più con i dati di fatto. L'acqua, inizia ad esere presente ormai dappertutto, anche se in forma di ghiaccio e assieme ad essa anche le molecole semplici a base di carbonio. A questo punto sorge il sospetto che forme elementari microbiotiche, potrebbero essere presenti non solo sui pianeti come Marte o Venere, ma anche sui satelliti come la Luna, Encelado, Ganimende, Europa e Titano.
Le prospettive che la vita legata all'acqua o al metano possa esistere davvero, si va sempre più allargando.

Particolarmente interessanti sono anche le prospettive che questi asterodidi possano essere utlizzati come basi spazio porto per dei rifornimenti di acqua e altre sostanze utili ai viaggi interspaziali, anche se in un remoto futuro. Credo che l'unico appiglio che possa davvero far decollare i viaggi interspaziali sia la possibilità di uno sfruttamento a livello minerario di questi corpi. Chissà che presto non inizino a valutare seriamente anche queste ipotesi. Allora, il bisogno stimolerebbe lo sviluppo tecnico. Come è sempre accaduto.

A cura di Arthur McPaul

mercoledì 28 aprile 2010

WISE: altre spettacolari perle dal cosmo

[NGC 6.723: Per questa fantastica immagine, sono stati utilizzati tutti e quattro i rivelatori a infrarossi a bordo di WISE. I colori blu e ciano rappresentano i raggi infrarossi a lunghezza d'onda di 3,4 e 4,6 micron, dominati dalla luce delle stelle. Il verde e il rosso rappresentano la luce a 12 e 22 micron, che è soprattutto la luce dalla polvere calda. Image Credit: NASA / JPL-Caltech / Team WISE]


Questa immagine di WISE (Wide-field Infrared Survey Explorer) è ampia più di 12 volte le dimensioni della Luna piena al confine tra le costellazioni del Sagittario e della Corona Australe. Nell'immagine sono visibili due tipi di ammassi.
I ciuffi che corrono in basso nella nebulosa di questa immagine rappresentano una vicina regione di formazione stellare. Alla luce visibile la polvere all'interno della nebulosa è oscura e riflette la luce delle stelle dentro e dietro di essa, dando luogo a numerose nebulosa catalogate come NGC 6726, NGC 6727, NGC 6729, IC 4.812. Ma grazie a WISE che utilizza la luce infrarossa, possiamo finalmente vedere la luce della stessa polvere come si scalda con la luce delle stelle neonate dell'ammasso (verde e rosso). Vediamo anche le stelle incastonate nella polvere blu / ciano. Questo ammasso stellare è stato chiamato Cluster Coronet. Si trova a circa 420 anni luce dalla Terra e si estende per circa 10 anni luce di diametro. Il Cluster Coronet è un ammasso composto soltanto da poche decine di stelle, molte delle quali sono solo vecchie solo pochi milioni di anni.
Appena a sinistra del centro appare un tipo molto diverso di ammasso di stelle. Si chiama NGC 6723 ed è  un ammasso globulare situato a a circa 29.000 anni luce dalla Terra, che si estende per circa 65 anni luce di diametro.Gli ammassi stellari globulari contengono da centinaia di migliaia a milioni di stelle e orbitano attorno alla galassia in un alone sferico che lo circonda. Queste sono alcune delle stelle più vecchie nell'Universo, databili oltre 10 miliardi di anni.

[IC 1795 - Questa immagine copre un'area di cielo più grande di 12 Lune piene. Sono stati utilizzati tutti e quattro i rivelatori a infrarossi a bordo di WISE. I colori blu e ciano rappresentano alla lunghezza d'onda di 3,4 e 4,6 micron, la luce delle stelle. Il verde e il rosso rappresentano la luce a 12 e 22 micron, che è soprattutto la luce dalla polvere calda. Image Credit: NASA / JPL-Caltech / Team WISE]
 
Questa immagine da WISE mostra l'interno della costellazione di Cassiopea  dove si stanno formando complesse regioni stellari che fanno parte del braccio a spirale di Perseo della Via Lattea. Anche due delle immagini precedentemente rilasciate da WISE sono parte dello stesso complesso di formazione stellare delle nebulose: The Soul Nebula e Maffei 1 e 2. Una chiara regione di formazione stellare è visibile nell'angolo in basso a destra questa immagine, denominata IC 1795. La maggior parte di questa regione appare scura e relativamente priva di stelle nelle fotografie in luce visibile. Questo avviene a causa della polvere interstellare che oscura la luce, ma che diventa vivace nelle immagini a raggi infrarossi ottenute da WISE. La nube si trova a oltre 6.000 anni luce dalla Terra. Le stelle che si vanno formando in questa immagine sono relativamente giovani, nell'ordine di milioni di anni.
A cura di Arthur McPaul

La NASA lancia un prototipo top secret

La NASA lancia un nuovo mezzo spaziale coperto dalla segretezza assoluta sulla missione da svolgere.


Come si addice ad un progetto segreto ha per nome una sigla, X-37B e poco aggiunge la descrizione generica di Orbital Test Vehicle, veicolo di prova orbitale. L’X, comunque, sta per «sperimentale». Così, avvolto dal mistero, è partito giovedì notte dall’area militare di Cape Canaveral un nuovo mini-shuttle americano, completamente automatico, senza astronauti a bordo. Dunque mentre lo shuttle civile della Nasa si avvia al museo una volta completate, entro l’anno, le tre missioni rimaste che chiudono 19 anni di attività, l’Usaf, l’aviazione militare americana, raccoglie il testimone e rilancia con un successore ancora più ambizioso, un avveniristico concentrato di nuovissime supertecnologie aerospaziali.

Facile immaginare le capacità che dimostrerà questo robot alato volando intorno alla Terra soddisfacendo innanzitutto le necessità della Difesa spaziale ma anche terrestre. E la spedizione, iniziata salendo in orbita chiuso nell’ogiva di un razzo Atlas V, ha questo obiettivo: per nove mesi collauderà sia le nuove tecnologie utilizzate sia gli impieghi possibili. Lunga dieci metri, la struttura è completamente diversa dal vecchio shuttle e per proteggersi non ha più le tradizionali e delicatissime piastrelle di carbonio che furono anche la causa del secondo disastro nel 2003 ma materiali compositi di nuova natura. Giunto in orbita, il mini- shuttle ha aperto i portelloni ed esposto un pannello fotovoltaico con celle all’arseniuro di gallio dal quale ricavare energia. Le celle a combustibile del suo predecessore non sono utilizzabili per un periodo tanto lungo perché richiederebbero serbatoi di idrogeno e ossigeno di dimensioni esagerate. A quel punto, ha liberato un satellite portato nella stiva la cui natura è ufficialmente segreta ma del quale sono trapelate le funzioni. I due veicoli hanno infatti cominciato un balletto cosmico cercandosi e inseguendosi a vicenda, collaudando sensori e sistemi di guida e comando che per l’attuale shuttle erano un sogno.

A che cosa servirà?
Ad attaccare o difendere un veicolo in orbita. Il tema della protezione dei satelliti sia civili che militari è sempre più presente alle autorità americane perché alle «infrastrutture spaziali» è ormai legata buona parte dell’economia e della vita nazionale coinvolgendo dai satelliti per le telecomunicazioni, alla meteorologia, alla navigazione col Gps. La necessità della difesa, poi, è diventata ancora più pressante dopo la dimostrazione data dai cinesi nel gennaio 2007 di saper distruggere un satellite: nel caso specifico era il loro vecchio e ormai fuori uso satellite Fengyun-1. «Fondamentalmente — dice Gary Payton dell’Usaf e leader dei programmi spaziali militari — il nostro veicolo è una versione aggiornata dello shuttle. L’aviazione ha una serie di missioni militari nello spazio e l’X-35B ci aiuterà ad assolverle al meglio». Il progetto era nato nel 1999 per iniziativa della Nasa e dell’Usaf quando l’ente spaziale cercava di costruire un successore al vecchio shuttle. Se ne occupavano soprattutto i «Phantom Works» della Boeing, i laboratori dove erano nati gli aerei spia più celebri del dopoguerra. Ma nel 2004 la Nasa si ritirava lasciando l’impresa alla Darpa, l’agenzia di ricerca del Pentagono e all’aviazione che effettuarono anche alcuni test nell’atmosfera con un modello analogo, più piccolo (X-40A).

Il progetto, avvolto subito dal segreto, riprendeva un vecchio sogno dell’Usaf e apre la strada verso un obiettivo già da qualche anno indicato dal Pentagono: disporre di un mezzo che in meno di due ore possa raggiungere qualsiasi punto del pianeta. Il sogno, invece, risale ancora agli anni Sessanta quando l’Usaf stava già costruendo un suo mini-shuttle alato (Progetto Dyna Soar) con due piloti. Doveva essere lanciato con un razzo Titan (come adesso si impiega il razzo Atlas V) che fece un volo di prova, e già era stato selezionato il primo gruppo di astronauti militari che dovevano salire a bordo. Tra questi c’era il giovane Neil Armstrong che poi passerà alla Nasa e diventerà il primo uomo a sbarcare sulla Luna. Ma quando la Casa Bianca si orientò verso la costruzione dello shuttle della Nasa abbandonò il piano del concorrente grigioverde. Che ora rinasce in una versione molto più sofisticata perché non ha nemmeno più bisogno dei piloti. E quando avrà concluso il suo primo debutto spaziale l’X-35B, il cui costo ovviamente è segreto, il suo cervello- computer lo farà atterrerà, sulle sue ruote, sulla pista della base spaziale militare di Vandenberg, in California. Inizierà così una nuova era. E per cercare di carpire qualche segreto gli amatori che inseguono i satelliti dai continenti punteranno antenne e telescopi scambiandosi informazioni sul sito http://satobs.org.


Fonte: http://centroufologicotaranto.wordpress.com/2010/04/28/la-missione-segreta-senza-astronauti-del-nuovo-mini-shuttle/

Comete in 3d


Avvicinarsi alle comete può essere molto pericoloso. Le minuscole particelle di polvere espulse dalle regioni cosiddette “attive” delle comete possono danneggiare le sonde spaziali che le inseguono. Gli scienziati del Max Planck Institute for Solar System Research in Germania hanno ora sviluppato un modello al computer in grado di localizzare le regioni attive, utilizzando unicamente le informazioni disponibili da Terra. Il nuovo metodo, descritto sulla rivista Astronomy & Astrophysics, potrebbe contribuire a calcolare un itinerario sicuro di volo per la sonda spaziale Rosetta dell’ESA, che dovrebbe raggiungere la cometa Churyumov-Gerasimenko nel 2014.

Per effetto della radiazione solare, le sostanze volatili sulla superficie del nucleo cometario, come acqua, anidride carbonica e monossido di carbonio, sublimano, trasportando nello spazio particelle di polvere di dimensioni che arrivano fino ad alcuni centimetri di diametro. Viste da Terra, queste fontane di polvere appaiono come getti a spirale che circondano la cometa, formando un alone di polvere e gas che può raggiungere dimensioni notevoli, fino a un milione di chilometri di diametro. È la cosiddetta “chioma” della cometa.

“Le immagini scattate da Terra mostrano questi getti in due dimensioni”, dice Hermann Böhnhardt che ha diretto la ricerca. “Ma non si riesce a capire da dove esattamente abbiano origine le particelle di polvere e gas”. Per aggirare il problema e localizzare con precisione il nucleo attivo, i ricercatori hanno trovato un metodo indiretto che per la prima volta tiene conto della forma tridimensionale delle comete.
“Finora le simulazioni assumevano le comete come sfere o ellissoidi”, spiega Jean-Baptiste Vincent del centro di ricerca tedesco. Un approccio che non è molto buono, considerando che nella realtà le comete non sono esattamente “palle”di ghiaccio sporco, ma hanno forme irregolari e bizzarre. È possibile ricostruirne la sagoma, guardando la cometa per un intero periodo di rotazione: i cambiamenti nella luminosità permettono di calcolare il suo aspetto tridimensionale.

Il programma di calcolo è stato arricchito con ulteriori informazioni sulle “probabili” regioni attive, le proprietà fisiche delle particelle di polvere, dimensioni  e velocità emissione. La simulazione ha prodotto un’immagine che, confrontata con quella di un telescopio a Terra, permette di raffinare ulteriormente le informazioni.
Il metodo ha superato il primo esame, riuscendo a “indovinare” le regioni attive della cometa Temple-1 usando solo le informazioni a disposizione da Terra e verificando che in effetti i dati concordano con quelli ottenuti nella missione Deep Impact della NASA che visitò Temple-1 nel 2005.

Il prossimo obiettivo sarà calcolare le regioni attive della cometa Churyumov-Gerasimenko, verso cui è diretta la missione Rosetta dell’ESA. Il nuovo metodo potrebbe contribuire a determinare una rotta sicura per Rosetta attraverso la Chioma cometaria e magari anche aiutare a definire un sito adatto di atterraggio del lander Philae.

Fonte: INAF

martedì 27 aprile 2010

Planck mostra le zone di nascita stellare

Nuove immagini del Planck Space Observatory dell'ESA rivelano le forze motrici della formazione stellare e danno agli astronomi un nuovo indizio per comprendere la complessa fisica che forma la polvere e i gas nella nostra Galassia.


La formazione stellare avviene ben nascosta dietro i veli di polvere, ma questo non significa che non possiamo vederli ugualmente. Di fatto, dove i telescopi ottici vedeno solo nero, gli occhi a mocroonde di Planck rivelano una miriade di strutture ardenti di gas e polveri. Planck ha utilizzato questa sua capacità per osservare due regioni relativamente vicine nella nostra Galassia dove è presente una intensa formazione stellare. [Nella foto: Una regione di formazione stellare attiva nella Nebulosa di Orione, come la ha osservata Planck. Questa immagine copre una regione di 13x13 gradi. Si tratta di una combinazione a tre colori dei tre su nove canali, con frequenza a 30, 353 e 857 GHz. (Credit: ESA / LFI ed HFI)]

La regione di Orione è infatti una grande culla di formazione stellare, distante circa 1500. E' celebre agli astrofili per la sua Nebulosa di Orione, che può essere vista anche ad occhio nudo come una macchia di colore rosa tenue.
L'immagine copre gran parte della costellazione di Orione. La nebulosa è il punto luminoso al centro inferiore. Il punto luminoso a destra del centro è la "Nebulosa Testa di Cavallo", così chiamata perché ad alti ingrandimenti mostra una colonna di polvere simile a una testa di cavallo.

L'arco gigante rosso di Loop Barnard dovrebbe essere l'onda dell'esplosione di una stella che è esplosa all'interno della regione di circa due milioni di anni fa. La bolla si è creata recentemente a circa 300 anni luce.
A differenza di Orione, la regione di Perseo è una zona meno vigorosa per la formazione stellare, ma, come mostra Planck nell'immagine, sta producendo ancora stelle.
Le immagini mostrano i processi fisici che si verificano nelle polveri e nei gas del mezzo interstellare. Planck ci può mostrare ogni processo in maniera separata. Alle frequenze più basse abbiamo la mappa delle emissioni causate dagli elettroni ad alta velocità e l'interazione con i campi magnetici della galassia.

Un componente aggiuntivo viene diffuso dalla polvere che emette particelle di filatura a queste frequenze. A lunghezze d'onda intermedie di pochi millimetri, le emissioni dei gas sono riscaldate dalle neonate stelle calde. A frequenze ancora più alte, Planck ha mappato lo scarno calore delle polveri estremamente fredde. Questo può rivelare il nucleo più freddo fra le nuvole, che si avvicinano alle fasi finali del collasso, prima di rinascere come stelle a pieno titolo. Le stelle poi disperdono le nubi circostanti.
Il delicato equilibrio tra il collasso e la dispersione della nube regola il numero di stelle che produce una Galassia.

Planck sta migliorando la nostra comprensione di questi meccanismi, perché, per la prima volta, fornisce dati sui diversi meccanismi di emissione più importanti in contemporanea.
La missione principale di Planck è quella di osservare l'intero cielo a lunghezze d'onde a microonde per mappare le variazioni nella radiazione fossile del Big Bang. Pertanto, non può fare a meno di osservare la Via Lattea che ruota e trascina i suoi rilevatori elettronici nel cielo notturno.

A cura di Arthur McPaul

Fonte: http://www.sciencedaily.com/releases/2010/04/100426113116.htm


I "tubemen" marziani...

Abitare nei tubi lavici di Marte bevendo l'acqua marziana. Chi di voi accetterebbe "l'allettante" offerta "tutto incluso"?


"I nostri antenati preistorici vivevano nelle caverne come sappiamo, ma ora sembra che i primi esseri umani che andranno su Marte faranno lo stesso.

L'analisi della geografia marziana ha suggerito il giusto tipo di grotte per questo scopo. "Almeno due regioni, la Tharsis e l'Eliseo, possiedono caratteristiche vulcaniche che possono essere luoghi adatti per le grotte" dice l'autore Kaj Williams della NASA Ames Research Center di Mountain View, California.
Inoltre l'analisi suggerisce che le grotte in queste regioni conterrebbero una pronta fornitura di acqua, sotto forma di ghiaccio.

I tubi lavici sono le strutture più probabili di caverna che si potrebbero occupare su Marte. Queste grotte-tunnel sono state create dagli antichi flussi di lava solidificatasi in superficie, mentre lava all'interno è stata drenata a distanza lasciando i tubi "cavi".
L'esistenza di ghiaccio in queste grotte era sospettato da molto tempo ma Williams e colleghi hanno utilizzato un modello al computer per scoprire esattamente come esso si potrebbe creare al loro interno. Hanno inoltre esaminato quanto tempo potrebbe durare. Il modello della grotta esaminata occupa una casella di 10 metri quadrati e di 8 metri di altezza, con una sola apertura piccola nel tetto.

Essi hanno scoperto che durante il giorno marziano, l'aria calda non riuscirebbe ad entrare nella grotta fredda, salvando il ghiaccio dallo scioglimento. Di notte, quando l'aria si raffredda all'esterno, nelle pareti della grotta si creerebbe vapore acqueo che condenserebbe la brina sulle pareti già gelide. Il modello ha dimostrato che il ghiaccio sarebbe stabile, con una durata di oltre 100.000 anni (Icarus, DOI: 10.1016/j.icarus.2010.03.039 ).

Il ghiaccio formatosi sulle pareti delle grotte di Marte potrebbe rivelarsi una fonte utile di acqua per l'abitazione e come carburante; inoltre potrebbe anche fornire riparo dalle pericolose radiazioni solari. Gli astronauti avrebbero trovato l'idea casa-grotta eccellente, dice il co-autore Brian Toon della University of Colorado, Boulder. "Forse potremmo chiamarli 'cavenauts'".

[Gli astronauti su Marte dovrebbero soggiornare in uno di questi crateri collegati ai "tubi" lavici. Credit: NASA/Goddard Space Flight Center Scientific Visualization Studio]

Alcune considerazioni
Questa sembra una trovata apparentemente geniale, da parte dei ricercatori dell'University del Colorado, ma in realtà presuppone una serie di limiti tecnici e pratici vergognosi.
Non avrebbe molto senso occupare un luogo gelido e inospitale alla vita umana cone dei tubi lavici, che porrebbe soltanto ulteriori impedimenti alla colonizzazione umana. Per realizzare infatti questa trovata goliardica, sarebbe necessario allestire nel sito una serie di strumentazioni che dovrebbero essere costruite ad hoc, come le strutture abitative, i respiratori, i termo condizionatori e quant'altro si renda necessario per la sopravvivenza umana. Tutto questo sembra progettato per evitare di andare su Marte con una struttura abitativa già pronta da installare come modulo di sgancio del velivolo di atterraggio, soluzione più pratica e sicura.
A quanto pare queste trovate sono mirate al massimo risparmio in fatto di risorse economiche. Ma gli scienziati si sono chiesti cosa succederebbe se l'acqua prodotta dal ghiaccio delle caverne di Marte fosse in qualche maniera contaminata da una serie di microbatteri o da forme patogene di vita non rilevabili dagli strumenti in dotazione? E poi, a qual fine spostare centinaia di kg di attrezzatura in delle cavità che potrebbero rilevarsi instabili e pericolose?
La veritá è che la politica di risparmio è incompatibile con missioni di ricerca umana su altri pianeti. Su Marte, bisognerebbe inviare una gigantesca suite che garantisca agli astronauti tutti i comfort per una lunga permanenza. Un gigantesco modulo base, con attrezzature comode da trasportare, diversi lander, numerosi robot automatici da utilizzare nei primi giorni di missione per una pre-esplorazione della zona e durante le giornate particolarmente ventose o ostili alle passeggiate umane. Occorrerebbe dotare il modulo di strutture per costruire un tentativo di base esterna, con delle serre per sperimentare la possibilità di autocoltivare delle piante in loco. Altro che caverne e ghiaccio marziano! Una base enorme, grande come un transatlantico, con almeno una decina di astronauti, pronta a resistere alle intemperie devastanti e a schermare gli uomini dalle radiazioni.
E poi, non credo che la NASA troverebbe gente disposta a bere ghiaccio radiattivo ricco di potenziali agenti tossici. Non credo che per risparmiare sia una buona trovata uccidere vite umane, per lo più nello spazio!
Con queste premesse, i "caveman" marziani sarebbero infatti soltanto carne da macello spaziale...
Marte non è la Luna, e prima di dare sfogo a questi "sogni erotici", degni dei più ridicoli b-movies di fantascienza di serie B, credo che sarebbe più opportuno valutare l'imminente realizzazione di mezzi propulsori che ci possano far muovere in poche decine o centinaia di giorni da un pianeta all'altro, come ad esempio il progetto VASIMIR, che inspiegabilmente viene puntualmente affossato...


A cura di Arthur McPaul

Link: http://www.newscientist.com/article/mg20627574.600-martian-tubes-could-be-home-for-cavenauts.html


lunedì 26 aprile 2010

Hawking ammonisce: l'uomo stia alla larga dagli alieni

"Gli alieni sono là fuori e l'uomo farebbe meglio a starsene attento", questa la dichiarazione shock del celebre astrofisico Stephen Hawking.


Non solo quindi è certo che gli alieni esistono, ma Hawking ammonisce l'umanità ad evitare qualsiasi contatto con essi e a starsene a debita distanza.
Come se questo già non bastasse per sconvolgere l'opinione pubblica, Hawking sostiene anche, che la vita extraterrestre non esisterebbe solo nei pianeti, ma anche al centro delle stelle o addirittura fluttuante nello spazio interplanetario.

La logica del ragionamento di Hawking sugli alieni è insolitamente semplice. L'universo, dispone all'incirca di 100 miliardi di galassie, ciascuna contenente centinaia di milioni di stelle. In un luogo così grande, la Terra è improbabile che sia l'unico pianeta dove la vita si sia evoluta.

"Per il mio cervello matematico, i numeri mi fanno pensare che l'esistenza degli alieni sia un'ipotesi perfettamente razionale", ha detto. "La vera sfida è quella di capire cosa gli alieni potrebbero effettivamente essere".

Secondo lui la maggior parte di essi potrebbero essere microbi o semplici animali, come il tipo di vita che ha dominato la Terra per la maggior parte della sua storia. In una scena nel suo documentario per la Discovery Channel si vedono delle mandrie di erbivori catturati da alieni-lecertola volanti. Un altro mostra animali acquatici fluorescenti nei vasti oceani sotto la superficie ghiacciata di Europa, una delle lune di Giove.

Queste scene sono solo delle ipotesi, ma Hawking le utilizza per affermare che una qualche forma di vita potrebbe essere intelligente e rappresentare una minaccia per l'uomo. Egli ritiene che il contatto con una tale specie potrebbe essere devastante per l'umanità. Suggerisce inoltre che gli alieni potrebbero attaccare la Terra per le sue risorse, "Basta guardare noi stessi per capire come potrebbe essere una vita intelligente e capire cosa non vorremmo incontrare. Immagino che possano giungere con enormi astronavi, in cerca di una nuova dimora dopo aver esaurito tutte le risorse sul loro pianeta. Tali alieni sarebbero forse esseri nomadi, in cerca di conquistare e colonizzare il primo pianeta che riescano a raggiungere"

Egli conclude che cercando di entrare in contatto con razze aliene è "un po troppo rischioso". Se mai gli alieni ci visitassero, penso che il risultato sarebbe come quando Cristoforo Colombo sbarcò in America, che non portò molti benefici ai nativi americani".

La realizzazione del documentario segna un trionfo per Hawking, che è paralizzato dalla Sclerosi Laterale Amiotrofica e ha capacità molto limitate di comunicazione. Il progetto ha impegnato la produzione per più di tre anni, durante il quale lo stesso Hawking ha redatto i testi e visionato il controllo delle riprese.

John Smithson, produttore esecutivo per la Discovery, ha dichiarato: "Ha voluto fare un programma che è stato divertente per un pubblico sia generale che scientificicamente preparato, con una notevole complessità e spessore, viste le idee coinvolte"

Hawking ha suggerito in precedenza la possibilità di vita aliena, ma le sue idee sono sostenute dalla scoperta di oltre 450 pianeti in orbita attorno a stelle lontane, mostrando che sono un fenomeno comune.

Finora, tutti i nuovi pianeti scoperti sono stati per la maggior parte gioviani caldi, ma solo perché i telescopi utilizzati non sono abbastanza sensibili all'individuazione di piccoli corpi delle dimensioni della Terra a tali distanze.

Un'altra svolta è stata la scoperta sulla Terra, della presenza di vita in ambienti estremi. Se la vita può sopravvivere ed evolversi, allora può
resistere anche a temperature estreme e condizioni differenti da quelle cui siamo abituati a vedere.

Nel suo recente "Meraviglie" prodotto dalla BBC sul Sistema Solare, il professor Brian Cox ha sostenuto l'idea, che la vita possa esistere su Marte, Europa e Titano.
Allo stesso modo, Lord Rees, l'astronomo reale inglese, ha avvertito la stampa che in una conferenza tenuta all'inizio di quest'anno che gli alieni, potrebbero rivelarsi oltre l'umana comprensione.

"Sospetto che ci potrebbe essere la vita e l'intelligenza là fuori, in forme che non possiamo concepire, proprio come uno scimpanzé non può capire la teoria quantistica, vi sono aspetti della realtà che superano le capacità del nostro cervello."

Hawking, esporrà tutta l'argomentazione presente in questo articolo in alcuni documentari che saranno pubblicati dal 9 maggio 2010 per Discovery Channel.


Alcune considerazioni
Non capita tutti i giorni che uno dei più geniali e celebri astrofisici dell'umanità si metta a parlare di alieni e lo faccia in questi termini. Se non fosse per le identiche, recenti affermazioni di altri "pezzi grossi" come Paul Davies, padre del nuovo SETI o degli astronomi della Royal Academy britannica, le parole di Hawking avrebbero, oggi, fatto tremare ancor più il "palazzo" della scienza accademica.

Tuttavia, non è così, soprattutto per i contenuti. Hawking dice sostanzialmente poco di nuovo rispetto a quello già detto dai più moderni e aperti esobiologi contemporanei, ma pondera in modo pessimista un eventuale ipotetico primo contatto.
Egli ritiene queste creature aliene siano "pericolose" per la nostra specie e le identifica sostanzialmente come "predatori" cioé come nostri simili. Se l'uomo spesso ha avuto paura del suo simile, è logico che un predatore come l'uomo abbia paura di un altro "predatore" giunto da un altro pianeta. La legge della natura è secondo Hawking identica in tutto il cosmo e quindi non c'è da stare tranquilli.

A livello psicologico, questi nuovi documentari, sono un'ulteriore mazzolata nei denti per coloro che evitano questo discorso come la peste. Di fatto per molti astronomi, un pò su negli anni, ma spesso meno anziani del genio Hawking, parlare di E.T. è come parlare di barzellette, e la l'ipotetica loro presenza è nient'altro che il frutto della fantasia del cinema da blockbuster hollywoodiano. In questo istante sto immaginando la loro faccia mentre leggono che anche il dio vivente dell'astrofisica ha apertamente dichiarato la verità: non siamo soli nell'Universo!

Nonostante l'entusiasmo che tutto ciò possa suscitare, resta tuttavia la desolante realtà dei fatti. Le missioni spaziali non hanno mai ricavato dati o documenti visivi della presenza di E.T. e i telescopi che scrutano gli altri sistemi planetari non riescono ad andare al di sotto delle ciclopiche dimensioni di pianeti della stazza di Giove.
Questo è desolante, in quanto anche se gente del calibro di Hawking sostiene come ha fatto, che non siamo soli scientificamente e statisticamente nell'Universo, le prove concrete continuano a mancare.
Alcune dichiarazioni però, nell'articolo in alto che sintetizza il suo discorso, sono praticamente inedite.
La vita, a suo dire, potrebbe essere presente anche al "centro delle stelle" o "fluttuante nello spazio". E' difficile immaginare la vita a milioni di gradi Kelvin nel core di una stella o sospesa nel vuoto tra le nubi di gas e polveri interstellari. Tuttavia forse, lo scienziato, ha voluto porre l'accento ad altre forme di vita, basate su altri meccanismi chimici, oppure, era semplicemente una metafora per affermare che tra le stelle lontane e i numerosi esopianeti, potrebbero esistere piccoli mondi rocciosi densi di acqua, carbonio e elementi basilari per la vita.

In ogni caso, si sta procedendo per grandi passi. La scienza ufficiale sembra aver finalmente aperto gli occhi e sta studiando questa questione sensibilizzando l'opinione pubblica e le sue stesse ricerche e i metodi di analisi.

Cosa dovremo aspettarci nell'imminente futuro dunque? A tal proposito, ragionando con il senno scientifico le possibili ipotesi sono le seguenti:

1) I nuovi supertelescopi come il James Webb Space Telescope in sincronia con lo Spitzer e altri di supporto da terra, dovrebbero entro il 2020, scoprire il primo mondo di natura rocciosa simile alla Terra. Questa scoperta spingerà l'incremento della strumentazione ad amplificare la puntigliosità di ricerca per scoprirne altri simili e più vicini a noi.

2) Le missioni in corso o le future missioni automatiche troveranno traccie di vita su Marte, Encelado, Titano, Ganimede o Europa. In tal caso si inizierà ad amplificare la preparazione di robot capaci di approfondire la questione in attesa, entro il 2050 di vedere l'uomo sbarcare su uno di questi mondi relativamente vicini o almeno su Marte.

3) La presenza aliena potrebbe manifestarsi autonomamente, in stile cinematografico, con dei vascelli interstellari alla deriva. In ogni caso, dopo una lunga quarantena, ospiteremmo questi esseri come si fa per i profughi di guerra e in cambio avremmo un balzo tecnologico di centinaia di anni. La storia dell'umanità cambierebbe e faremmo di tutto per riportare a casa questi esseri.

4) Il contatto potrebbe avvenire con esseri allo sbando, predatori famelici in cerca di acqua, di carbonio, di risorse vitali. Nonostante le loro supreme tecnologie, se ci dichiarassero guerra o attaccassero senza alcun avviso seminando morte e distruzione, potrebbero comunque soccombere per un banale raffreddore o per l'HIV.

5) Questa è l'ipotesi più possibilista al momento. Il paradosso di Fermi ci dice che le eterne distanze tra una civiltà e l'altra, ci terrebbero isolati per sempre o almeno fino a quando non saremmo in grado di sfidare e piegare le rigide leggi della relatività di Einstein e l'insuperabile velocità della luce. Per questo obbiettivo potrebbero essere necessari ancora centinaia di anni.

6) L'uomo è l'unico essere evoluto e intelligente nel cosmo. Siamo soli e siamo un rarissimo e unico caso di evoluzione chimica della materia atomica basata su idrogeno, ossigeno, azoto, carbonio e altri elementi. Sarebbe una grande delusione e alla nostra civiltà non resterebbe riprodurci e moltiplicarci fino a colonizzare tutti i mondi per noi abitabili.

Sono ovviamente solo ipotesi, alcune delle tante che la scienza classica e quella un pò fantasiosa suggeriscono.
Ma in attesa che qualcosa accada, non ci resta che vivere serenamente i nostri giorni, cercando di comprendere sempre più i tanti misteri che ci circondano.


A cura di Arthur McPaul

Link: http://www.timesonline.co.uk/tol/news/science/space/article7107207.ece


The Eerie Silence. Parla Paul Davies


Siamo soli nell'Universo?
"The Eerie Silence", un nuovo libro del ricercatore SETI, Paul Davies, offre uno sguardo fresco e ponderato a questo entusiasmante enigma.
Il celebre fisico Enrico Fermi si pose questa domanda oltre 60 anni fa, postulando il tristemente noto "paradosso di Fermi", in  cui le distanze tra una civiltà e l'altra, vieterebbero il contatto diretto. Considerata la vastità dell'universo, se davvero la vita fosse diffusa in tutto il cosmo, perché non abbiamo ancora trovato alcuna prova della sua esistenza?

Paul Davies è un fisico presso l'Arizona State University's ed è presidente del progetto SETI per la ricerca di intelligenze extraterrestri. Nel suo nuovo libro, "Il misterioso silenzio" (The Eerie Silence) ci racconta dei vari sforzi compiuti dall'uomo per contattare gli alieni e illustra come dopo le recenti scoperte esobiologiche, si sia fortemente diffusa l'idea che la vita debba essere cosa assai comune nell'Universo. 
Centinaia di pianeti extrasolari sono stati individuati in orbita attorno a stelle lontane, con caratteristiche simili maggiormente a  Giove piuttosto che alla Terra, forse a causa dei mezzi di rivelamento, incapaci di trovare pianeti più piccoli di tipo roccioso.  Con i nuovi super telescopi terrestri e spaziali sarà forse nei prossimi anni scoprire mondi simili alla Terra nella nostra Via Lattea.
Alcune recenti scoperte di forme di vita estremofile, sulla Terra, rendono più entusiasmante la ricerca, testimoniando come la vita sia possibile anche in luoghi totalmente inospitali che un tempo sarebbero stati scartati dalla ricerca.

Per i fisici, la vita sembra essere sorta per un colpo di fortuna, senza alcun orchestratore, nessun coreografo a dirigere l'esecuzione, senza lo spirito nel corpo, nessuna volontà collettiva, nessuna forza di vita, ma solo atomi senza cervello unitisi in molecole da casuali fluttuazioni termiche. Eppure il prodotto finale è una forma squisita e altamente ordinata. Anche i chimici, che hanno familiarità con i poteri stupefacenti delle trasformazioni molecolari sostengono che la vita ha un qualcosa di speciale dentro di sé.  George Whitesides, Professore di Chimica all'Università di Harvard, scrive, "La vita è un qualcosa di assai notevole. Come reazioni chimiche in natura  non esiste nulla di simile".

Secondo Davies non c'è nulla nelle leggi della chimica o della  fisica per indicare la vita è un risultato inevitabile, o un imperativo cosmico. Egli nota che non c'è regolarità matematica alla vita, mentre "le sequenze chimiche sembrano del tutto casuali." Eppure, la vita ha un forte senso di ordine, dal momento che la riorganizzazione  delle sequenze chimiche può capovolgere l'intero sistema.

"Così la casualità e il derterminismo altamente specifico, o addirittura anzi unico, in qualità cosi particolari è assai difficile da spiegare con le leggi fisiche", scrive.

Le leggi biologiche dell'evoluzione potrebbero aver giocato un ruolo importante per l'origine della vita, perché tutto quello che è teoricamente necessario per andare avanti è la replica delle informazioni con il DNA, anche se le prime molecole non avevano la replicazione delle informazioni e utilizzavano meccanismi molto differenti. L'intima origine della vita a partire da materiali non viventi è ancora un mistero, Davies ha detto che la vita può essere un possibile esito di complessi sistemi di auto-organizzazione. Proprio come colonie di formiche, il mercato azionario e di Internet, la vita può derivare da una legge di complessità crescente che si verifica in determinate circostanze.

Per scoprire se la vita è stato soltanto un incidente bizzarro accaduto solo sulla Terra, abbiamo bisogno di cercarla altrove. Per Davies che vi è stata solo una missione spaziale che ha avuto in questo senso successo: la missione Viking della NASA. "I media tendono a presentare tutte le esplorazione di Marte, nell'ambito della ricerca per la vita, ma questa è soltanto disinformazione", scrive. "E' vero che alcune missioni esplorative hanno cercato l'acqua su di Marte, ma gli esperimenti biologici miratia  scoprire la vita, mancano da oltre trent'anni nelle missioni della NASA.  

Molti scienziati pensano gli esperimenti effettuati dal Viking non hanno trovato alcuna prova di vita, anche se alcuni, tra cui Gilbert Levin, che ha progettato l'esperimento Labeled Release, contestano questa conclusione. Anche se dovessimo trovare vita su Marte questo non ci direbbe se esiste la vita più molto lontano, dato che la Terra e Marte hanno spesso scambiato tra loro materiali meterorici e anche la vita microbiotica. 

Per rispondere alla domanda, abbiamo bisogno di trovare le prove per la vita su un pianeta lontano. Tuttavia, Davies, dice un altro modo per dimostrare che la vita non è soltanto un incidente raro, sarebbe quello di trovare un tipo completamente differente di vita sulla Terra.

"Se la vita ha iniziato più di una volta sulla Terra, potrebbe averlo fatto anche su altre parti nell'Universo", scrive Davies. "Se c'è qualcosa di molto particolare del nostro pianeta, è inconcepibile che la vita avrebbe avuto inizio due volte su un pianeta simile alla Terra".

Tutta la vita sulla Terra può essere collocata su un diagramma chiamato "albero della vita", che indica come i diversi organismi possono essere fatti risalire ad un antenato comune. Ma una biosfera ombra dovrebbe essere composto di vita che non avrebbe avuto un posto sull'albero. Davies scrive: 

Se si esamina l'interno di un microbo, è probabile che troverete le stesse cose - il DNA, le proteine, i ribosomi - come li si trovato in voi e me. Almeno, questo è quanto finora scoperto. Ma i microbiologi hanno appena scalfito la superficie del regno microbiotico. Il nostro mondo è letteralmente brulicante di piccoli organismi. Un solo centimetro cubo (0,061 pollici cubici) di suolo potrebbe contenere milioni di specie diverse da aggiungere a quelle conosciute e la stragrande maggioranza non sono state ancora classificate e tanto meno analizzato..."

Gli scienziati studiano i microbi nelle forme a noi conosciute, ma altre differenti potrebbero passare completamente  inosservate perché i test non sono fatti per rilevarle. Davies afferma che nuovi test dovrebbero essere sviluppati per vedere che cosa potrebbe esserci di nascosto proprio di fronte ai nostri occhi.  Gli astrobiologi spesso dicono che la vita complessa può essere rara nell'universo, ma la vita microbica è probabilmente abbondante. Essi motivano tale presupposto basandosi sulla storia della Terra, perché la vita semplice iniziata in tempi relativamente brevi qui, forse già 500 milioni di anni dopo l'origine della Terra, ma la vita multi-cellulare compare molto più tardi. Le prime testimonianze nei reperti fossili di vita multicellulari risalgono a circa 2 miliardi di anni fa, circa 2,5 miliardi di anni dopo la formazione della Terra. La storia della vita sulla Terra è per lo più fatta di singole cellule.

Anche se la vita complessa fosse trovata altrove, potrebbe essere intelligente? Con "intelligente", spesso, si intende la capacità di una specie vivente di saper utilizzare la scienza per indagare l'Universo. Davies utilizza coraggiosamente il L'equazione di Drake stimare ci potrebbero essere 10 mila  civiltà nella galassia in grado in questo in momento di comunicare con le onde radio.

"In questo momento la comunicazione interstellare è limitata non solo la distanza, ma dal tempo, se  onsideriamo civiltà aliene che vivono a migliaia di anni luce di distanza. Davies sottolinea che se fossero in grado di vedere la Terra con i telescopi, non ci vedono come siamo oggi, ma come eravamo nell'anno 1010 AD - molto tempo prima dell'invenzione delle onde radio. E poichè la tecnologia radio umana è sviluppata da soli circa 100 anni, ci vorranno altri 900 anni affinchè i nostri primi segnali radio li raggiungano.
 
I segnali di comunicazione sulla Terra sono ora in gran parte inviati da fibre ottiche, piuttosto che dalle lunghezze d'onda radio e per Davies  non c'è nessuna ragione per pensare che civiltà avanzate aliene utilizzino ancora queta tecnologia. Invece, egli suggerisce, che potebbero utilizzare i neutrini, a diverse lunghezza d'onda, o un sistema tipo internet a livello galattivo. Potremmo anche trovare indizi di tecnologia aliena vicini a noi come le nanomacchine, o le microsonde aggrappate al DNA. Davies pensa che la ricerca SETI dovrebbe essere ampliata per includere queste ricerche ed è anche opportuno cercare traccie aliene nello spazio che indicano avanzati progetti di ingegneria mineraria o addirittura discariche di rifiuti. 

Un problema con le nostre ricerche precedenti, dice Davies, è tendiamo a cercare gli alieni secondo i comportamenti e le motivazioni umanee. Egli è particolarmente critico sui precedenti tentativi di invio di messaggi per gli alieni. I fonografi a bordo della sonda Voyager 2, con i saluti in 55 lingue, così come la musica, il canto degli uccelli, e altri suoni dalla Terra, che egli le trova "una trovata inutile". Davies è altrettanto sprezzante dei messaggi sulla Pioneer 10 e 11, che raffiguravano le figure umane del maschio e della femmina (con la mano del maschio sollevato in segno di saluto), e il nostro Sistema Solare e la sua posizione nella galassia. [vedi immagine in basso]


Questa immagine può essere inutile per quanto concerne la segnalazione agli alieni, ma la dice lunga sugli esseri umani. Un breve messaggio di una comunità sconosciuta, presumibilmente straniero dovrà riflettere le cose che riteniamo più significativo su noi stessi. Il quadro è dominato dalle forme umane, ma la nostra forma fisica è probabilmente la cosa meno importante da comunicare. E 'quasi del tutto irrilevante sia sul piano scientifico e culturale. La mano alzata è il massimo dell'assurdità, un manierismo culturale, che sarebbe del tutto incomprensibile a un'altra specie, in particolare ad una che potrebbe non avere gli arti.

Invece, per Davies i nostri messaggi dovrebbero essere basati sulla matematica, preferibilmente contenenti equazioni che descrivono la nostra conoscenza delle leggi dell'Universo. Solo più tardi dovremmo condividere le informazioni più peculiari. Se mai dovesse avvenire un contatto, la società umana cambierebbe per sempre. La religione sarebbe particolarmente colpita fra tutte. Ma in una ironica autocritica riconosce che anche il SETI stesso è stato descritto come una religione, dal momento che è guidato dalla fede, piuttosto che dalle prove. Tuttavia egli sostiene che anche la sterile caccia agli alieni dopo un milione di anni di ricerche, non sarebbe una prova assoluta che non essi esistono. Come scienziato, Davies ha detto che non sarebbe sorpreso se la vita sulla Terra si rivelasse del tutto unica. Questa prospettiva solitaria lo rende inquieto, ma osserva anche questo sarebbe un silenzio d'oro, perché la vita sulla Terra sarebbe ancora più preziosa.
Eppure, questo silenzio sulla vita aliena è una ragione sufficiente per continuare a cercare, dice Davies. Bisogna aprire tutte le possibilità nella nostra ricerca con gli stranieri a disposizione finchè prima o poi arriverà la risposta che tanto stiamo cercando.

Adattamento a cura di Arthur McPaul

Fonte: http://www.astrobio.net/index.php?option=com_retrospection&task=detail&id=3461:






 

venerdì 23 aprile 2010

I crateri di Titano raccontano la sua storia

Gli ultimi studi del numero di crateri da impatto presenti su Titano, potrebbero svelare nuovi segreti sulle possibiltà che la luna ospiti la vita.


Dal 2004 al 2007, Cassini ha mappato il 22% della superficie di Titano . Gli scienziati hanno analizzato le immagini riprese dalla sonda ad alta risoluzione Radar Mapper, trovando 49 crateri da impatto. "I crateri da impatto si formano sulla superficie di ogni pianeta a causa dell'impatto degli asteroidi, comete e altri detriti", ha detto Charles Wood, scienziato presso l'Istituto di Scienze Planetarie a Tucson, Arizona, e autore principale dello studio. "L'analisi dei crateri da impatto è una tecnica utilizzata per conoscere la storia di un pianeta".Titano è stato descritto dalla NASA come uno dei maggiori mondi simili alla Terra studiato fino ad oggi, eppure è anche uno dei più ostili per la nascita e lo sviluppo della vita. [Nella foto: crateri da impatto nella regione Xanadu. Crediti: JPL NASA]

Uno dei principali ostacoli è la temperatura di circa 290 gradi F (-179 C). A queste temperature l'acqua sulla superficie diventa dura come la roccia, privando la vita della molecola principale necessaria alle reazioni chimiche basilari. Nonostante tutto, però il fascino di Titano non è mai venuto meno e anzi è aumentato, in quanto assomiglierebbe molto alla Terra primordiale, secondo l'opinione di Wood. Titano è l'unico corpo planetario del Sistema Solare ad eccezione della Terra e di Venere, ad avere una superficie solida e una densa atmosfera, ricca di azoto e metano. Il metano è tuttavia presente in forma liquida, gassosa e solida e gli scienziati ritengono che potrebbe svolgere nei processi biologici il ruolo che sulla Terra svolge l'acqua. "Alcuni scienziati infatti, sostengono che Titano è la versione fredda della Terra primordiale", e se fosse stato più caldo avrebbe sicuramenre ospitato la vita"
, ha detto Wood.
Comprendere quindi i processi chimici su Titano potrebbe aiutare a capire come ebbe inizio la vita sulla Terra, miliardi di anni fa.

I crateri da impatto recenti sono facili da identificare a causa della loro forma quasi circolare e i pavimenti interni piatti. Ma anche i vulcani possono creare depressioni circolari che assomigliano molto ai crateri da impatto. Gli scienziati hanno numerosi metodi per distinguere se i crateri siano stati creati dai vulcani o da un impatto. Anche se non si sa molto sull'attività vulcanica di Titano, gli scienziati pensano che i vulcani di Titano non espellano pietra lavica incandescente, come sulla Terra, ma acqua o un liquido mescolato con l'ammoniaca o altre sostanze chimiche che poi congelano in superficie. I vulcani potrebbero anche essere una fonte di metano per l'atmosfera di Titano.

Wood dice che c'è una forte evidenza che la maggior parte dei crateri osservati siano stati creati da impatti.
"Sul 22% di Titano, cinque sembravano essere crateri da impatto", ha detto Wood. In questa analisi, gli scienziati hanno identificato infatti il KSA, il Sinlap, il Menrva, l'Afekan e i crateri Selk. I restanti 44 crateri sono stati classificati di classe 2 (impatto quasi certo) e Classe 3 (crateri da impatto probabile). "Penso che abbiano fatto un buon lavoro, data la natura dei dati," ha detto Alfred McEwen, professore di scienze planetarie e direttore del Planetary Image Research Lab presso l'Università di Arizona.

Finora, le immagini di Cassini hanno rivelato solo circa un quinto della superficie di Titano, insufficiente per trarre delle conclusioni definitive circa il potenziale per qualsiasi tipo di forma di vita esistente su Titano. Wood dice che si scoprisse che la superficie di Titano è "molto antica," significherebbe che ci sono possibilità di trovare la vita. Se un corpo planetario ha molti crateri, come la luna di Giove Callisto, è perché la superficie non è stata alterata da attività vulcanica o intemperie atmosferiche. L'impatto con un asteroide o una cometa su un mondo così inattivo lascia traccie dei crateri per miliardi di anni. Ma per un pianeta attivo come la Terra, i crateri da impatto tendono a scomparire nel corso del tempo rimodellati dalzl'attività atmosferica, geologica o biologica. Titano ha pochissimi crateri da impatto, indicando che potrebbe essere una luna attiva con una superficie molto fresca.

In un altro recente studio, un team di scienziati ha esaminato i crateri da impatto su una superficie di Titano conosciuta come Xanadu, ciò che essi descrivono come "la regione più insolita su Titano". Xanadu, è grande all'incirca come l'Australia e sembra essere molto luminosa forse perchè fatta di ghiaccio d'acqua. Xanadu ha più crateri da impatto di ogni altra regione esaminata fino ad ora da Cassini, ma la distribuzione di questi crateri sembra essere molto irregolare. Ciò significa che l'età di Xanadu varia a seconda della posizione. Al momento, gli scienziati non hanno dati sufficienti per fare conclusioni finali circa l'età o l'attività della superficie di Titano, ed è per questo motivo che si rende necessario un esame completo della superficie.

"Nei prossimi sette anni, la proroga della missione Cassini finanziata dalla Nasa consentirà allo strumento radar di rivelare meglio la superficie di Titano", ha detto Wood. "Speriamo che entro la fine della missione, sia possibile ottenere i dati del 50% della superficie di Titano, riuscendo quindi a trovare più indizi sulla storia Titano"<\i>. McEwen spera in una scelta ancora migliore. "Una nuova missione su Titano sarebbe naturalmente ancora meglio. Ci piacerebbe avere dati più completi e ora che siamo in grado di capire Titano, possiamo progettare strumenti migliori per capire di più sulla sua superficie."


Adattamento a cura di Arthur McPaul

Link: http://www.space.com/scienceastronomy/titan-craters-moon-history-100422.html

LUCIFER guarderà negli infrarossi

Gli scienziati del Naval Research Laboratory hanno risolto un vecchio dilemma riguardante la massa dei raggi infrarossi di galassie brillanti.


Il Large Binocular Telescope (LBT), realizzato da Germania, Stati Uniti e Italia ha messo a punto la prima delle due nuove innovative telecamere/spettografi nel vicino infrarosso per l'LBT ed è adesso disponibile per gli astronomi sul monte Graham situato nel sud-est dell'Arizona.

Dopo oltre un decennio di progettazione, produzione e collaudo, il nuovo strumento, chiamato LUCIFER 1, permetterà di acquisire nuove conoscenze sull'universo e in particolare sulla Via Lattea e le galassie molto lontane. Descrizione foto: La galassia nana irregolare debole NGC 1569 si trova a 6,2 milioni di anni luce dalla Terra. Questa galassia contiene diversi ammassi stellari di grandi dimensioni con episodi di formazione stellare ad una velocità oltre 100 volte più veloci di quelli che osserviamo nella nostra galassia. Nella luce visibile, il nucleo della galassia stellare mostra solo tre grandi cluster, ognuno contenente più di un milione di stelle. Con Lucifero diviene possibile sbirciare attraverso la polvere cosmica e vedere molte più regioni compatte che formano stelle. (Credit: Anna Pasquali)

LUCIFER 1 è stato costruito da un consorzio di istituti tedeschi e sarà seguito da uno strumento gemello identico che verrà consegnato al telescopio nei primi mesi del 2011.
Dal design innovativo, Lucifer 1 permetterà agli astronomi di osservare in dettaglio senza precedenti, per esempio, regioni di formazione stellare che di solito vengono nascoste da nubi di polvere. Lo strumento fornirà una flessibilità senza eguali, con funzioni come un unico braccio robotico che potrà sostituire le maschere spettroscopiche all'interno dello strumento a temperature estreme sotto zero.

Lucifer 1 e il suo gemello sono montati nei punti di messa a fuoco dell'LBT, due giganti con gli specchi del diametro di 8,4 metri (27,6 piedi).
Ogni strumento è raffreddato fino a -213 gradi Celsius per osservare nella lunghezza d'onda del vicino infrarosso (NIR). Le osservazioni nel vicino infrarosso sono essenziali per la comprensione della formazione di stelle e pianeti nella nostra galassia e rivelare i segreti delle più lontane e giovani galassie.

Lucifero è un notevole nuovo strumento polivalente con una grande flessibilità che unisce un grande campo di veduta con una risoluzione elevata. Esso prevede tre telecamere scambiabili per l'imaging e la spettroscopia in diverse risoluzioni a seconda delle esigenze osservative. Oltre alle sue eccezionali capacità di imaging con l'utilizzo di 18 filtri ad alta qualità, Lucifer 1 consentirà la spettroscopia simultanea di circa due dozzine di oggetti in infrarosso con delle maschere a fessure tagliate dai laser. Per la massima flessibilità le maschere possono essere modificate anche a temperature criogeniche, attraverso lo sviluppo innovativo di un una maschera robot che porrà le maschere individuali con assoluta precisione nel piano focale.
"Assieme al grande potere di raccolta della luce del LBT, gli astronomi sono ora in grado di raccogliere le impronte digitali spettrali degli oggetti più deboli e più lontani nell'universo", dice Richard Green, direttore del LBT. "Dopo il completamento del sistema adattativo dello specchio secondario per correggere la perturbazione atmosferica, LUCIFER mostrerà la sua piena capacità, offrendo immagini con una qualità che altrimenti sarebbe stata ottenuta esclusivamente da osservatori spaziali".
"Già con le prime osservazioni di LUCIFER nelle regioni di formazione stellare stiamo avendo una indicazione dell'enorme potenziale del nuovo strumento", ha dichiarato Thomas Henning, il presidente tedesco dell'LBT

Gli strumenti sono stati costruiti da un consorzio di cinque istituti tedeschi guidati dal Centro per l'astronomia della Heidelberg University (Landessternwarte Heidelberg, LSW) assieme all'Istituto Max Planck a Heidelberg (MPIA), il Max Planck Institute for Extraterrestrial Physics di Garching (MPE), l'Istituto Astronomico della Ruhr University di Bochum (AIRUB) così come anche l'Università di Scienze Applicate di Mannheim (Hochschule di Mannheim).

Walter Seifert (LSW), Nancy Ageorges (MPE) e Marcus jutte (AIRUB), responsabili per la riuscita del progetto, hanno trascorso più di mezzo anno in piste diverse al sito dell'LBT per rendere efficente il telescopio. Holger Mandel, il ricercatore principale di Lucifer ha detto: "Fin dall'inizio, c'era grande eccitazione circa le potenzialitá di questo strumento per la scienza d'avanguardia. Ora, i sorprendenti risultati parlano da soli".

Il Large Binocular Telescope (LBT) è una collaborazione tra le comunità italiana astronomiche (Istituto Nazionale di Astrofisica - INAF), l'Università dell'Arizona, l'Arizona State University, la Northern Arizona University, il Beteiligungsgesellschaft LBT in Germania (Max Planck Institute for Astronomy in Heidelberg, Zentrum für Astronomie der Universität Heidelberg, Astrophysikalisches a Potsdam Institut, Istituto Max Planck per la fisica extraterrestre di Garching (Monaco), e Max Planck Institute fϋr Radio Astronomy di Bonn), The Ohio State University e Research Corporation (Ohio State University, University di Notre Dame, University of Minnesota, e l'Università della Virginia).


Adattamento a cura di Arthur McPaul

Link: http://www.sciencedaily.com/releases/2010/04/100422112639.htm

giovedì 22 aprile 2010

Risolto il mistero della massa delle galassie ellittiche agli infrarossi

Gli scienziati del Naval Research Laboratory hanno risolto un vecchio dilemma riguardante la massa dei raggi infrarossi di galassie brillanti.


Dato che le galassie sono i più grandi oggetti direttamente osservabili nell'universo, imparardo di più circa la loro formazione potremo ottenere la chiave per comprendere il funzionamento dell'Universo.

Il Dr. Barry Rothberg Jacqueline e il dottor Fischer, entrambi dell'Infrared-Submillimeter Astrophysics & Techniques Section in the Remote Sensing Division, per risolvere il problema hanno utilizzato i nuovi dati del telescopio Gemini di 8 metri in Cile, quelli precedentemente ottenuti dal WM Keck-2 di 10 metri e dai telescopi di 2,2 metri dell'Università delle Hawaii, confrontandoli poi con i dati d'archivio dal telescopio spaziale Hubble. I risultati della ricerca sono stati pubblicati sull Astrophysical Journal.

Le galassie si presentano generalmente si presentano in due forme: a spirale, come la nostra Via Lattea, o ellittica, in cui le stelle si muovono in orbite casuali, ci spiega Rothberg. Comprendere la formazione delle galassie più grandi comprendere è fondamentale per capire come l'Universo si è evoluto nel corso degli ultimi 15 miliardi di anni. La teoria classica afferma che le galassie a spirale si fondono tra di loro formano la maggior parte delle galassie ellittiche nell'Universo. Le galassie a spirale contengono significative quantità di gas di idrogeno freddo. Quando si fondono, le spirali vengono distrutte e il gas e le polveri vengono convertite in nuove stelle. La polvere viene riscaldata dalle stelle giovani e irradia energia a lunghezze d'onda infrarosse.

Fino a poco tempo fá gli scienziati pensavano che queste galassie, luminose ai raggi infrarossi, non erano tanto massiccie da poter dar vita a tutte le galassie ellittiche dell'Universo. Il problema sta nel metodo di misurazione della loro massa. Il metodo convenzionale in ambienti particolarmente polverosi IR-brillanti utilizza la luce nel vicino infrarosso per misurare i moti casuali di vecchie stelle. Maggiore è il loro moto casuale, maggiore è anche la massa presente. Usando la luce nel vicino infrarosso è possibile penetrare la polvere e vedere il maggior numero di stelle vecchie possibili.

Tuttavia, si verifica una complicanza quando avviene l'unione delle galassie a spirale, perché la maggior parte del loro gas viene incanalato verso il centro gravitazionale del sistema e forma un disco rotante. Questo disco di gas si trasforma in un disco di giovani stelle che è anche molto luminoso alle lunghezze d'onda del vicino infrarosso. Il disco rotante di stelle giovani, offusca le stelle vecchie e le fa apparire come se fossero molto meno vecchie in moto meno casuale. In contrasto con questo metodo convenzionale, Rothberg e Fischer invece hanno osservato i movimenti casuali di stelle vecchie a lunghezze d'onda in modo efficace utilizzando la polvere a loro vantaggio per bloccare la luce dalle stelle giovani. I loro nuovi risultati hanno mostrato che le stelle vecchie nelle galassie fuse assieme hanno grandi moti casuali, il che significa che diventeranno galassie ellittiche molto massiccie.

Il passo successivo per le ricerche dell'NRL è quello di osservare direttamente i dischi stellari in concentrazioni luminose utilizzando la spettroscopia IR tridimensionale. Ogni pixel rappresenta uno spettro e da questo i ricercatori possono creare delle mappe bidimensionali del moto stellare e della loro età. Questo permetterà loro di misurare le dimensioni, la rotazione, luminosità, la massa e l'età del disco centrale.

Adattato da materiali forniti dal Naval Research Laboratory .


Adattamento a cura di Arthur McPaul

Link: http://www.sciencedaily.com/releases/2010/04/100419173010.htm

Il “Raggio a Patata” definirà un Pianeta Nano


Gli astronomi hanno proposto la prima definizione oggettiva di un pianeta, che separa gli oggetti simili a patate, da quelli sferici. Decidere cosa è e cosa non è un pianeta è un problema su cui la International Astronomical Union ha generato tantissimo dibattito. La sfida è trovare un modo per definire un pianeta che non dipende da regole arbitrarie. Per esempio dire che gli oggetti più grandi di una certa grandezza sono pianeti ma quelli più piccoli non lo sono. Il problema è che le regole non arbitrarie sono molti difficili da trovare.

Nel 2006, la IAU, scateno un putiferio cambiando la definizione di pianeta,rimuovendo Plutone dal grado di pianeta, e facendolo diventare un membro di seconda classe del Sistema Solare. Plutone non è più un pianeta, ma un pianeta nano, insieme ad un altro mucchio di oggetti che orbitano il Sole.

La nuova definizione della IAU, di che cos’è un pianeta si basa su tre criteri: Deve orbitare intorno al Sole, Deve avere sufficiente massa da essersi formato in una forma quasi sferica per la gravità, e Deve aver liberato la sua orbita da altri oggetti.
Plutone soddisfa i primi due criteri, ma non il terzo, perché passa nell’orbita di Nettuno.(Anche se, stranamente, Nettuno passa)
Questi tipi di oggetti sono ufficialmente chiamati pianeti nani e la loro definizione e molto arbitraria. Nella sua infinita saggezza, la IAU ha dichiarato che i pianeti nano sono tutti gli oggetti trans-Nettuniani con un magnitudo assoluto di meno di +1(un raggio di almeno 420 km).
Oggi,Charles Lineweaver e Marc Norman della Australian National University in Canberra, si sono concentrati su un nuovo modo per definire i pianeti nano che cambierebbe drammaticamente il modo in cui pensiamo a questi oggetti. 

Alla fine, si parla di separare gli oggetti di forma a “patata”, nel Sistema Solare, da quelli di forma sferica. Quello che Lineweaver e Norman hanno fatto è mostrare a partire dai principi primi,come questa linea divisoria cade naturalmente tra gli oggetti che sono più grandi o più piccoli di 200 km in raggio.
Il loro approccio è stato quello di guardare ai oggetti a patata o sferici nelle immagini dei corpi del Sistema Solare. Le prove empiriche suggeriscono che la linea di demarcazione cade sui 200 km.
Lineaweaver e Norman in seguito hanno calcolato la forza dei materiali di questi oggetti nei primi anni della loro vita quando la loro forma è stata determinata. Hanno cosi calcolato le altre forze al lavoro in questi oggetti, come le forze gravitazionali e le forze associate ai rapidi movimenti di rotazione.


E’ venuto fuori che, visto da questo punto di vista, il limite di 200 km, ci sta molto bene. Qualsiasi cosa più piccola, quasi sicuramente non sarebbe stata spremuta abbastanza da forze abbastanza grandi da farla diventare una sfera. D’altro canto, qualsiasi cosa più grande è diventata una sfera.
Lineweaver e Norman sono quindi arrivati alla conclusione che i pianeti nani sono essenzialmente qualsiasi corpo che è più di 200 km in raggio che non ha liberato la sua orbita da altri corpi. Questa definizione sta bene per la maggior parte dei oggetti del Sistema Solare, ma ci sono uno o due casi particolari. L’asteroide Vesta, per esempio, è sia a forma di patata, sia più grande di 200 km di diametro. Lineweaver e Norman hanno spiegato questo suggerendo che potrebbe essersi deformato per via di una collisione,relativamente tardi nella sua storia.

[Cerere e Vesta, sono parte della Cintura di Asteroidi, che sta tra Marte e Giove. Cerere è considerato un pianeta nano, mentre npn lo è Vesta]

Il limite dei 200 km quindi sembra essere un buon criterio per la comunità astronomica, su cui basarsi insomma. Il problema è che questo aumenterebbe drammaticamente il numero di oggetti che vengono classificati come pianeti nano, e forse questo non piacerà a tutti, specialmente a quelli che ancora sperano in un posto speciale per Plutone.
D’altra parte, Plutone diventerebbe il principale rappresentante della famiglia di pianeti nano, un sotto-gruppo importante ma poco studiato, del Sistema Solare.
Eppoi, come gli astronomi sanno bene, l’interesse è più o meno sinonimo di finanziamento. E, ovviamente, questo è un particolare non detto, che è al cuore del dibattito su cos’è e cosa non è un pianeta.

a cura di Adrian

le meraviglie del satellite Planck


La città di Sant’Antonio spalanca una finestra sull’Universo primordiale e lo fa dedicando la terza edizione della manifestazione Padova Città delle Stelle al satellite Planck, la missione dell’Agenzia Spaziale Europea, con una forte partecipazione nazionale, mandata in orbita lo scorso anno per lo studio della radiazione cosmica di fondo, i resti del fuoco primordiale esploso dopo il Big Bang.
Il 27-28-29 aprile tre giornate di scienza e tecnologia  permetteranno al pubblico – giovani, studenti e appassionati – di conoscere da vicino l’avvincente impresa del telescopio spaziale Planck.

La manifestazione, organizzata dal Comune, il dipartimento di Astronomia dell’Università e INAF-Osservatorio astronomico di Padova, si apre con la premiazione dei vincitori del Premio Padova Città della Stelle, assegnato quest’anno a Nazzareno Mandolesi e Jean-Loup Puget, PI dei due strumenti a bordo, LFI e HFI.
“Dopo 20 anni di lavoro sul satellite Planck, un pezzo di vita insieme a “lui”, è grande per me la soddisfazione di ricevere questo importante riconoscimento che fa onore a me e a tutta la squadra che con me ha lavorato con passione e intensità”, commenta Remo Mandolesi, direttore dell’INAF-IASF Bologna e responsabile di LFI, lo strumento di Planck per le basse frequenze (30, 44 e 70 GHz). “Tutto iniziò da una mia idea, in risposta a un bando per nuove missioni scientifiche emesso dall’ESA. Da lì fu sviluppato il progetto di questa missione per fotografare l’alba dell’Universo. 

E finalmente nel maggio del 2009 Planck ha spiccato il volo e da allora ci ricompensando alla grande di tutti gli sforzi. I risultati sono strabilianti, e siamo solo all’inizio”.
Ad aprire la tre giorni di confronto, il presidente dell’INAF Tommaso Maccacaro e Piero Benvenuti in rappresentanza dell’ASI. Dibattiti, interviste, incontri con gli scienziati dell’INAF e proiezioni di documentari scientifici accompagnati dal giornalista scientifico Fabio Pagan, animeranno la la manifestazione che si chiuderà con la cerimonia di conferimento della cittadinanza onoraria di Padova a Simon White, scienziato di fama internazionale e direttore dell’Istituto di Astrofisica Max Planck  di Monaco di Baviera.

Per ulteriori informazioni: http://padovacultura.padovanet.it/