venerdì 25 febbraio 2011

Scoperte onde magnetiche vicino ai pori solari

Il Sole è intessuto da una complessa rete di linee di campo magnetico che sono responsabili di una grande varietà di affascinanti caratteristiche, alcune delle quali osservabili nella sua atmosfera.

Grandi regioni scure, chiamate "pore", che sembrano fori sulla superficie del Sole, contrassegnano le aree dove il campo magnetico va più nel profondo, facendo emergere materiale ancora più bollente che sale poi nell'atmosfera ad una temperaturadi un milione di gradi. Le più grandi di queste regioni scure sono chiamate "macchie solari" (solar spot) e sono note e studiate già a partire dal 364 a.C. 
Guidato dal professor Robertus von Fay-Siebenburgen, Responsabile della fisica solare e Space Plasma Research Centre (SP2RC) presso l'Università di Sheffield, Il team ha studiato una regione magnetica molto più piccola di una macchia solare, la cui dimensione comunque superava di gran lunga quella del del Regno Unito.

La loro ricerca, pubblicata sull'Astrophysical Journal, ha dimostrato che il pore osservato,  è in grado di incanalare l'energia generata in profondità all'interno del Sole, lungo il campo magnetico superiore dell'atmosfera.

Il campo magnetico emergente attraverso il poro è superiore di 1.000 volte il campo magnetico dell'energia Terrestre. L'energia  trasportata è in  una forma molto particolare di onde, nota come "onde a salsiccia"', che gli scienziati sono stati in grado di osservare con l'osservatorio solare ROSA (Rapid Oscillation and Solar Atmospheric), che fu progettato dalla Queen's University di Belfast ed è in funzione presso il Dunn Solar Telescope, di  Sacramento Peak negli USA.

Questa è la prima osservazione diretta delle "onde a salsiccia" sulla superficie solare.
Il buco magnetico è noto per far aumentare e diminuire in misura periodica le caratteristiche di tali onde a salsiccia.
Il team di esperti, tra cui il dottor Richard Morton presso l'Università di Sheffield, così come il professor Mihalis Mathioudakis e il dottor David Jess dalla Queen's University di Belfast, nutrono la speranza che questi giganteschi buchi magnetici avranno un ruolo importante nello svelare i segreti insoluti circa il riscaldamento coronale del Sole.

Questo perché la superficie solare ha una temperatura di qualche migliaio di gradi, ma la corona solare, più esterna, misteriosamente, è riscaldata a temperature che sono spesso mille volte più calde della superficie.
Il fenomeno dell'aumento di  temperatura del Sole nell'atmosfera man mano che ci si sposta più lontano dal centro di produzione di energia, che si trova sotto la superficie, è un grande mistero dell'astrofisica. I risultati, che dimostrano il trasferimento di energia su vasta scala, offrono una nuova spiegazione per questo rebus.

Il team ora spera di utilizzare le immagini solari fornite dal ROSA per comprendere la sottostruttura di questi enormi buchi magnetici e vedere cosa c'è dentro di essi.
Il professore Robertus von Fay-Siebenburgen, ha dichiarato che: "Questa è una scoperta nuova ed affascinante, in linea con una serie di scoperte fatte negli ultimi anni dal team. E' la prima volta che  "le onde a  salsiccia" sono state rilevate con un dettaglio del genere. Analizzando queste onde, ci avviciniamo sempre più alla comprensione dei meccanismi fisici dell'atmosfera stellare".

Foto in alto: In questa immagine ultravioletta, il gas a livello della fotosfera è scuro, indicando una temperatura di migliaia di gradi. Mentre scorre al di sopra della fotosfera, lungo le linee del campo magnetico, il gas viene riscaldato (in qualche modo) a temperature di oltre un milione di gradi. Emette radiazioni ultraviolette e raggi X. 

Arthur McPaul

Fonte

giovedì 24 febbraio 2011

Osservati dischi di formazione planetaria in due stelle

I pianeti si formano in dischi di gas e polveri che circondano le giovani stelle. Gli astronomi sono stati in grado di ottenere, per la prima volta, immagini dettagliate di tali dischi protoplanetari attorno a due stelle, grazie al telescopio Subaru delle Hawaii. Le immagini rivelano con chiarezza caratteristiche come gli anelli e le lacune presenti che sono associate con la formazione di pianeti giganti.


Le osservazioni fanno parte di una indagine sistematica per la ricerca di pianeti attorno a stelle con dischi di formazione planetaria, condotta grazie ad una telecamera ad elevato contrasto progettata specificamente per questo scopo.
I sistemi planetari come il nostro si formano grazie alla forza di gravità che raccoglie il materiale composto da gas e polvere avanzati dalla formazione stellare, in un denso, disco appiattito di materia in orbita intorno alla stella. La stessa forza di gravità addensa il materiare attorno a nuclei più pesanti fino a formare per compressione dei corpi densi, chiamati appunto pianeti. Gli ultimi anni hanno visto progressi sostanziali sia nelle osservazioni (per lo più indirette) che nella elaborazione di modelli teorici sui dischi "protoplanetari". Le due nuove osservazioni hanno aggiunto nuovi intriganti dettagli, rivelando alcune strutture che non erano mai state viste direttamente.

La prima delle due stelle osservate è LkCa 15, che si trova a circa 450 anni luce dalla Terra nella costellazione del Toro. Con una età di pochi milioni di anni, LkCa 15 è una stella giovane rispetto al Sole che è mille volte più vecchio. Dalle precedenti osservazioni del suo spettro infrarosso e dall'analisi delle sue emissioni, gli scienziati hanno dedotto la presenza di un ampio divario nel centro del suo disco protoplanetario. Le nuove immagini mostrano la luce delle stelle lucenti fuori dalla superficie del disco, che delineano chiaramente per la prima volta il bordo tagliente. Ancora più interessante è la forma ellittica del divario che  non è centrata sulla stella, ma appare sbilenca.

"La spiegazione più probabile per il divario del disco di LkCa 15 e in particolare per la sua asimmetria, è che uno o più pianeti, appena nati dal materiale del disco, hanno travolto il gas e la polvere lungo le loro orbite", afferma Christian Thalmann, che ha guidato la di studio, presso il Max Planck Institute for Astronomy (MPIA). Curiosamente, il divario nel disco è sufficientemente grande per accogliere le orbite di tutti i pianeti del nostro Sistema Solare. Si ipotizza quindi che LkCa 15 potrebbe essere in procinto di formare un intero sistema planetario simile al nostro. "Non abbiamo rilevato ancora lo stesso tipo di pianeti", ha aggiunto Thalmann, "ma la situazione potrebbe cambiare presto".
 
La seconda osservazione stellare, guidata da Jun Hashimoto (National Observatory of Japan), si è incentrata su AB Aur nella costellazione dell'Auriga, ad una distanza di 470 anni luce dalla Terra. Questa stella è ancora più giovane, con un'età di soli un milione di anni. Già le prime osservazioni mostrarono scale di lunghezza paragonabile alle dimensioni del nostro Sistema Solare, con un anello di materiale inclinato rispetto al piano equatoriale del disco, curiosamente, non distribuito simmetricamente attorno alla stella, con lineamenti irregolari che indicano la presenza di almeno un pianeta molto massiccio.
Le osservazioni fatte con cui lo strumento HiCIAO installato sul Subaru Telescope di 8,2 metri correggono l'effetto distorsione dell'atmosfera terrestre e fisicamente bloccano la maggior parte della luce della stella, permettendo di vedere quallo che esiste attorno ad essa.
Le osservazioni sono parte del progetto SEEDS, acronimo di Strategic Explorations of Exoplanets and Disks with Subaru.

Foto in alto:  L' immagine in alto, ripresa con la fotocamera HiCIAO installata sul Subaru Telescope mostra un arco luminoso di luce diffusa (bianca) dal disco protoplanetario attorno alla giovane stella LkCa 15 (al centro, mascherato con un cerchio scuro). E' un arco tagliente interno al margine della sagoma con un ampio divario nel disco. Il divario è decisamente sbilanciato ed è nettamente più ampio sul lato sinistro, ed è stato molto probabilmente scavato da uno o più pianeti neonati che orbitano intorno alla stella. (Credit: MPIA Copyright (Christian Thalmann) & NAOJ).

Traduzione a cura di Arthur McPaul

martedì 22 febbraio 2011

L'acqua lunare contiene sodio

Il ghiaccio d'acqua recentemente scoperto sul fondo di un cratere vicino al Polo Sud della Luna è accompagnato da elementi metallici come il mercurio, il magnesio, il calcio e anche tracce d'argento. Ora è possibile aggiungere alla miscela anche il sodio, secondo il dottor Rosemary Killen del NASA Goddard Space Flight Center.

Le recenti scoperte di significativi depositi di acqua sulla Luna sono state a dir poco sorprendenti vista la sua travagliata storia geologica. Intensi bombardamenti da parte di asteroidi nella prima fase della sua vita e a causa della sua debole gravità e della potente radiazione solare, è stata privata quasi del tutto della sua atmosfera.

Questo ha reso la superficie lunare arida e secca.
Tuttavia, a causa dell'orientamento della Luna rispetto al Sole, gli scienziati hanno teorizzato che i profondi crateri dei poli sarebbero perennemente in ombra e quindi estremamente freddi, tanto da trattenere sostanze volatili come l'acqua proveniente da impatti cometari o da reazioni chimiche con l'idrogeno, uno dei principali componenti del vento solare.

Il 9 ottobre del 2009 l'impatto del NASA Lunar Crater Observation and Sensing Satellite (LCROSS) nella regione permanentemente in ombra del cratere Cabeus ha confermato che un numero sorprendentemente alto di ghiaccio d'acqua è presente assieme a piccole quantità di molti altri elementi, compresi quelli metallici.

LCROSS venne lanciato il 18 giugno 2009 come missione compagna del NASA Lunar Reconnaissance Orbiter, o LRO, dal NASA Kennedy Space Center in Florida. Dopo la separazione da LRO, la sonda LCROSS è entrata in una serie di orbite attorno alla Terra.
Dopo aver percorso per circa 113 giorni quasi 5.600 mila miglia (9 milioni di km), il missile Centaur e LCROSS si sono separati per l'impatto sulla Luna e mentre raggiungeva il suolo deflagrando, LCROSS e la sonda LRO osservavano con i loro strumenti di bordo. Sono stati raccolti circa quattro minuti di dati da LCROSS prima dell'impatto con la superficie lunare.
Killen e il suo team hanno osservato l'impatto di LCROSS con il Solar Telescope presso il McMath-Pierce National Solar Observatory presso Tucson, in Arizona.
Essi sono stati l'unica squadra in grado di vedere i risultati degli impatti da terra.

Gli impatti hanno vaporizzato il materiale dal fondo del cratere Cabeus, compresa l'acqua e il sodio. Dopo che  il pennacchio di vapore è aumentato fino a circa 800 metri (circa 2.600 metri), abbastanza alto per cancellare l'ombra dal bordo del cratere, la luce del Sole ha stimolato gli atomi di sodio, causando loro l'emissione di un bagliore giallo-arancione. Uno spettrometro ad alta risoluzione, Echelle, collegato al telescopio ha rilevato quest'unico bagliore. Lo strumento separa la luce nei suoi colori e premette individuare i materiali dai colori emessi quando vengono eccitati dalle radiazioni o da altri eventi nello spazio.

Lo spettrometro osserva il cielo attraverso una stretta fessura per separare i colori, ma il team ha dovuto poi ipotizzare la forma e la temperatura del pennacchio e ha stimato la quantità totale di sodio liberata dall'impatto. Utilizzando un modello al computer e altri dati degli strumenti su LCROSS e su  LRO, il team ha calcolato che sono stati rilasciati  da uno a due chilogrammi (circa 2,2-4,4 libbre) di sodio.
"Questo è l'1-2 per cento della quantità di acqua rilasciata dagli impatti", ha detto Killen. "I nostri oceani hanno una quantità di sodio paragonabile al rapporto dell'acqua, Circa l'uno per cento" (La quantità di sodio derivato dalle osservazioni dipende dalla temperatura assunta del vapore).
La presenza di queste quantità elevate di sodio solleva la questione se possa essere giunto sulla superficie lunare da impatti cometari e successivamente intrappolato nelle regioni permanentemente in ombra, dove sarebbe stato quindi congelato.

Il vento solare trasporta piccole quantità di sodio, che potrebbero essere diventate parte integrante della superficie lunare e potrebbero essere state liberate dalle rocce lunari, che possiedono circa lo 0,4 per cento di sodio. Il sodio può anche essere stato liberato dalle rocce lunari da impatti di meteoroidi. (Gli impatti LCROSS non hanno abbastanza energia per vaporizzare la roccia, quindi è improbabile che il pennacchio di vapore di sodio si semplicemente venuto dalle rocce nel sito di impatto, secondo Killen).

"Il due per cento di sodio all'acqua è coerente con la quantità di sodio nelle comete, così forse la maggior parte del sodio e dell'acqua proveniente dagli impatti cometari", ha detto Killen. Pur essendo solo un 'ipotesi,  è possibile che provenga da una fonte diversa o addirittura da una varietà di fonti, tra cui i composti volatili lunari intrappolati nel freddo dai processi chimici con l'interazione del vento solare con la superficie. "La miglior prova per una origine cometaria potrebbe giungere solo da un'analisi degli isotopi di idrogeno dell'acqua lunare, conclude Killen.

Gli isotopi sono versioni di un elemento con pesi diversi, o masse. Ad esempio, un atomo di deuterio è una versione più pesante di un atomo di idrogeno comune, perché ha una particella extra,  un neutrone, nel suo nucleo centrale. Il deuterio può essere sostituito con l'idrogeno in una molecola d'acqua, ma è molto meno comune e la sua concentrazione varia  nel Sistema Solare. Se il deuterio è nello stesso rapporto con l'idrogeno presente nel ghiaccio delle comete, è possibile l'acqua provenga da impatti cometari.
Dal momento che le comete sono come "palle di neve sporca", vorrebbe dire che gran parte del sodio e di altri composti volatili provengono proprio dalle comete.

Il team prevede di far luce sull'origine delle acque lunari e degli altri composti volatili utilizzando i dati della prossima missione Lunar Atmosphere and Dust Environment Explorer (LADEE)  che dovrebbe essere lanciata nel maggio 2013.

La missione entrerà in orbita lunare per osservare la sua tenue atmosfera (tecnicamente chiamata esosfera, perché è così sottile, che gli atomi di rado si scontrano con l'altra sopra la superficie).

La ricerca è stata finanziata dalla NASA Dynamic Response dell'Ambiente Al (sogno) del progetto Moon.

Il telescopio McMath-Pierce è gestito dal National Solar Observatory, che è finanziato dalla National Science Foundation e gestito dalla Associazione delle Università per la Ricerca in Astronomia. Il rapporto scientifico su questa ricerca è stato pubblicato sul Geophysical Research Letters nel dicembre 2010.



Foto: La camera di LCROSS mostra il pennacchio emesso circa 20 secondi dopo l'impatto del missile Centaur (Credit: NASA)

Video: Video che racconta la Missione LCROSS con le foto ufficiali della NASA 




lunedì 21 febbraio 2011

Dalla NASA, ancora ipotesi su Tyche, il pianeta X

Nel novembre 2010, la rivista scientifica Icarus ha pubblicato un documento degli astrofisici J. J. Matese e Daniel Whitmire, in cui hanno proposto l'esistenza di una compagna binaria al nostro Sole, più grande di Giove, nei pressi della "Nube di Oort", un lontano deposito di piccoli corpi ghiacciati ai margini del nostro Sistema Solare.

I ricercatori hanno chiamato questo corpo ipotetico "Tyche". Secondo la loro teoria, le prove della scoperta, giugeranno grazie all'analisi dei dati che ha rilasciato il Wide-field Infrared Survey Explorer (WISE) della NASA.
 
WISE è un telescopio ad infrarossi della NASA, lanciato nel dicembre 2009, che ha scansionato l'intero cielo in quattro lunghezze d'onda infrarosse, circa 1,5 volte. Nella sua indagine ha già catturato oltre 2,7 milioni di immagini di oggetti nello spazio, che vanno dalle lontane galassie agli asteroidi e comete relativamente vicine alla Terra.  
Recentemente, WISE ha completato una seconda missione estensione extra, scansionanado la Fascia degli asteroidi, l'Universo lontano in due bande infrarosse. Tra le scoperte già confermate figurano al momento una nana bruna, 20 comete, 134 oggetti vicini alla Terra (NEO), e più di 33.000 asteroidi della fascia principale tra Marte e Giove.
 
In seguito alla conclusione della sua indagine, WISE è stato ibernato in orbita, nel febbraio 2011. Ma l'analisi dei dati da parte tegli scienziati continua. Una prima pubblicazione di tali dati è prevista per aprile del 2011, ma la versione finale del sondaggio completo sarà rilasciata solo nel marzo 2012.
 
In questi giorni è tornata all'onore delle cronache la possibilità che presto possa essere confermata la presenza del "Planet X", ragion per cui è sorto questo sito, unico al mondo. Fà grande sensazione che sia la stessa NASA a parlarne ormai apertamente. Fino a qualche anno fa, il celeberrimo "Planet X" era poco più che mera fantascienza e parlarne voleva dire fare eresia. In Italia, esistono ancora molti scienziati ottusi o astrofili con i paraocchi, che credono che parlare di Planet X sia perdita di tempo, ma probabilmente presto potranno definitivamente ricredersi e in ogni caso, se a parlarne è la NASA,  non è mai perdita di tempo.

La stessa NASA ha rilasciato una intervista per togliere dubbi, incertezze e curiosità in merito a Tyche.

D: Quando potrebbero confermare la presenza del pianeta Tyche, i dati in analisi di WISE?
A: E' troppo presto per sapere se i dati WISE confermano o escludono un grande oggetto nella nube di Oort. Le analisi nei prossimi due anni saranno indispensabili per determinare se WISE ha effettivamente rilevato tale mondo. Le prime 14 settimane di raccolta dei dati, saranno rilasciate nel mese di aprile del 2011, ma non saranno probabilmente sufficienti. L'indagine completa, prevista nel marzo 2012, dovrebbe fornire una maggiore comprensione. Una volta che i dati WISE saranno completamente trasformati, rilasciati e analizzati, le ipotesi sull'esistenza di Tyche di Matese e Whitmire saranno effettivamente testate.
D: E' certo che WISE avrebbe osservato un pianeta?
A: E' probabile ma non scontato che WISE possa confermare o meno l'esistenza di Tyche. Dall'analisi delle immagini ottenute 1,5 volte del cielo da WISE a distanza di 6 mesi, gli scienziati dovrebbero vedere un cambiamento della posizione apparente di un corpo grande nella nube di Oort. Le due bande utilizzate nella copertura del cielo secondo sono state progettate per identificare le nane brune o grandi pianeti gassosi come Tyche.
 
D: Se Tyche fosse davvero scoperto, perché ci sarebbe voluto così tanto tempo per trovare un altro pianeta del nostro Sistema Solare?
A: Tyche sarebbe troppo freddo e debole per essere osservato da un telescopio a luce visibile. I telescopi a raggi infrarossi potrebbero riprendere il fievole bagliore di un tale oggetto, guardando nella direzione giusta. WISE è un telescopio a raggi infrarossi che ha guardato in tutte le direzioni.
 
D: Come mai questo oggetto è stato chiamato "Tyche", (un nome greco), quando i nomi degli altri pianeti derivano dalla mitologia romana?
R: Negli anni '80 si ipotizzava la presenza di "Nemesis", (nome derivante dalla dea greca della discordia) una ipotetica stella nana rossa (Muller) o nana bruna, proposta per spiegare le estinzioni di massa periodiche verificatesi in passato sulla Terra. Nemesis avrebbe seguito un'orbita molto ellittica, capace di disturbare e deviare verso il Sistema Solare interno le comete della nube di Oort, circa ogni 26 milioni di anni.
Alcune di queste comete avrebbero provocato conseguenze catastrofiche per la vita sulla Terra. Recenti analisi scientifiche non supportano più l'idea che le estinzioni sulla Terra avvengono ad intervalli regolari e ripetute. Così, l'ipotesi Nemesis non è più seguita. Tuttavia, è ancora possibile che il Sole abbia un compagno lontano in un orbita più circolare con un periodo di qualche milione di anni. Per distinguere l'oggetto dalla malevola "Nemesis", gli astronomi Matese e Whitmire, hanno scelto il nome della sorella benevola Nemesis nella mitologia greca, "Tyche".

Da alcune indiscrezioni e dal grande interesse che questo argomento sta suscitando nella stampa, è ipotizzabile che Tyche esista realmente e la NASA dovrebbe rilasciare i dati della scoperta nel 2012. 
Alcune interessanti congetture sono ipotizzabili al riguardo.

Tyche potrebbe avere fino ad un centinaio di lune, alcune abbastanza grandi da essere corpi come Plutone, Eris, MakeMake o Sedna.
Questo corpo potrebbe essere in parte il responsabile della "doccia" di asteroidi e comete che giungono su Giove e talvolta sulla Terra, causando estinzioni di massa.
Nella foto in basso osserviamo la prima ed unica nana bruna fino ad ora scoperta tramite i dati di WISE:


La nana bruna, (oggetto verde smeraldo che vedete in alto) contrassegnata dal cerchietto, è stata chiamata WISEPC J045853.90+643451.9 e potrebbe essere molto simile ad un oggetto presente ai confini del Sistema Solare come lo stesso Tyche. 
La nana bruna WISEPC J045853.90+643451.9 è al momento l'unica confermata dai dati preliminari di WISE ed essendo distante soltato tra i 18-30 anni luce dalla Terra, è di fatto al momento, la nana bruna più vicina mai scoperta.


Fonte
 

sabato 19 febbraio 2011

Il Sole si sveglia: esplosione di classe X. Colpita la Terra.




"Un potente flare solare di classe X, il 15 febbraio ha espulso miliardi di tonnellate di particelle cariche verso la Terra, in quelle che vengono chiamate espulsioni di massa coronale (CME), dando vita ad una tempesta geomagnetica nel campo magnetico della Terra" ha detto Baker, direttore del Laboratorio di CU-Boulder's for Atmospheric e Fisica dello Spazio. 

In astrofisica, un "brillamento solare" o anche eruzione solare, è una violenta eruzione di materia che esplode dalla fotosfera del Sole, con un'energia equivalente a varie decine di milioni di bombe atomiche. Tali potenti espulsioni possono causare problemi di sicurezza che vanno dalla rottura dei sistemi di navigazione aerea e o alle reti elettriche o posson mettere a rischio la sicurezza degli equipaggi delle compagnie aeree e gli astronauti nello spazio.
I brillamenti sono spesso associati alle macchie solari e sono probabilmente causati dal rilascio di energia in occasione del fenomeno di riconnessione delle linee di campo magnetico. 
Le onde d'urto risultanti viaggiano lateralmente attraverso la fotosfera e verso l'alto attraverso la cromosfera e la corona, a velocità dell'ordine di 5.000.000 di chilometri all'ora (ovvero 1.389 km/s, contro i 300.000 chilometri al secondo della velocità della luce).

I brillamenti sono classificati in: 
A
B
C
a seconda della loro luminosità nei raggi X vicino alla Terra, misurata in Watt/m². 

Ogni classe è dieci volte più potente di quella precedente, con X (la più grande) pari a 1012 W/m², ed inoltre è divisa linearmente da 1 a 9, quindi un brillamento X2 è quattro volte più potente di uno M5. 
L'attività solare si trova normalmente compresa tra le classi A e C. 
I brillamenti C hanno pochi effetti sulla Terra, mentre i più potenti M e X possono causare danni. 
A volte superano il valore massimo (X9): il 16 agosto 1999 e il 2 aprile 2001 vennero misurati dei brillamenti X20, ma essi furono superati da quello del 4 novembre 2003, che fu stimato a X45 ed è il più potente mai registrato. La regione di macchie solari 486 era la più turbolenta mai osservata.



"Il Sole sta tornando in vita", ha detto Baker, nel suo rapporto intitolato "Severe Space Weather Events . Comprensione della società e impatti economici". Il Sole stava attraversando una lunga fase di quiete, la più ampia dall'inizio dal XX secolo. Dal punto di vista scientifico, un flare di classe X, è il più potente tipo di flare solare. Per Baker al riguardo: "...non possiamo permetterci di abbassare la guardia quando si opera in ambienti spaziale vicino alla Terra".
Secondo la National Oceanic and Atmospheric Administration, diverse espulsioni di massa coronale potranno raggiungere l'atmosfera terrestre nei prossimi giorni.
"La dipendenza dell'uomo sulla tecnologia rende la società più sensibile agli effetti della meteorologia spaziale», ha detto Baker. "Ma gli scienziati e gli ingegneri hanno fatto grandi passi avanti negli ultimi decenni per quanto riguarda questo fenomeno. Sappiamo molto di più su ciò che sta accadendo e possiamo costruire sistemi più solidi per resistere agli effetti", ha detto Baker. "Sarà interessante vedere come i nostri sistemi tecnologici saranno in grado di resistere ai rigori della meteorologia spaziale, mentre il Sole torna a maggiori livelli di attività".

Eruzioni così violente possono rilasciare nello spazio miliardi di particelle alla volta. Nelle prossime ore questo sciame che sta viaggiando verso di noi investirà la Terra. Con quali conseguenze? C’è da temere per la salute? Rischiamo black-out? Facciamo il punto con Alessandro Bemporad, fisico solare dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Torino.

Bemporad, che succede sulla nostra stella?
Questo brillamento è il primo di una serie di eruzioni a cui assisteremo prossimamente. Segna il risveglio del Sole, l’entrata cioè in una nuova fase di attività, dopo il periodo di minimo. Il picco di attività è previsto tra il 2012 e il 2013. Un’eruzione solare si genera a causa dell’emissione di intensi campi magnetici sulla fotosfera, la superficie esterna del Sole, visibili come macchie solari. Questo determina improvvisi rilasci di energia e l’espulsione di particelle di plasma altamente ionizzato ad alta velocità nello spazio interplanetario. La tempesta solare è costituita da tre componenti: radiazione ultravioletta e raggi X, che raggiunge la Terra in 8 minuti; una seconda componente di particelle relativistiche, che arrivano in qualche ora; infine, una bolla di plasma di enormi dimensioni che può investire la Terra nei giorni successivi al brillamento.

Quali sono le conseguenze di una tempesta solare?
Le particelle ad alta energia, iniettate lungo le linee del campo magnetico terrestre, possono danneggiare i satelliti, fino a provocarne la caduta, disturbare i sistemi di telecomunicazione satellitare e le trasmissioni radio. In questi giorni è possibile lamentare malfunzionamenti di cellulari e navigatori GPS.

Rischio di black-out?
Può capitare. Le correnti geomagnetiche, se incanalate negli elettrodotti, possono far saltare i trasformatori delle centrali elettriche. Negli anni Ottanta è successo in Quebec.

C’è qualche pericolo per gli astronauti sulla Stazione Spaziale Internazionale?
Per gli astronauti il peggio è già passato, il pericolo maggiore è il bombardamento di radiazioni X e di particelle ad altissima energia. Si è stimato che il brillamento solare più intenso avvenuto tra le missioni Apollo 16 e Apollo 17 avrebbe potuto uccidere un astronauta se fosse stato colto durante un’attività extraveicolare fuori dalla navicella.

Chi sta con i piedi per Terra non ha nulla da temere per la propria salute?
No, per fortuna siamo protetti dalla magnetosfera. L’unico problema può riguardare passeggeri, e in particolare il personale di bordo, sulle rotte aeree in vicinanza dei poli, dove le linee di campo magnetico convogliano le particelle di alta energia provenienti dal Sole.

Le eruzioni del Sole determinano anche uno dei fenomeni più spettacolari della natura: le aurore boreali. Come si verificano?
Il fenomeno dipende dall’eccitazione degli atomi nell’alta atmosfera che vengono colpiti dagli elettroni ad alta energia provenienti dal Sole. Così cielo si tinge di luci colorate, di grande effetto visivo.

È il momento giusto per prenotare una vacanza ai poli?
Sì, la frequenza delle eruzioni solari e la loro intensità aumenterà, e di conseguenza le aurore boreali. Questa recente tempesta solare è stata la più intensa degli ultimi quattro anni, ma ce ne saranno altre maggiori. Ne vedremo delle belle. Come d’altra parte avviene ciclicamente ogni 11 anni.

Da numerosi fonti riusulterebbe che ad essere colpita dal flare si classe X sia stata la regione asiatica della Cina. Qualche danno ai sistemi di navigazione ma nulla di preoccupante. 



A cura di Arthur McPaul


Fonti:
http://it.wikipedia.org/wiki/Brillamento#Classificazione
http://www.media.inaf.it/2011/02/17/le-conseguenze-delleruzione-solare/
http://www.centroufologicoionico.com/articoli/news/436-la-cina-nel-mirino-dellultima-eruzione-solare 

venerdì 18 febbraio 2011

Gigantesco anello di buchi neri in Arp 147

La nuova immagine composita fornita dalla NASA, mostra nove sorgenti di raggi X sparse intorno all'anello di Arp 147, sono così luminose da essere buchi neri, con masse dalle 10 alle 20 volte quella del Sole. 

Questa immagine composita di Arp 147, mostra una coppia di galassie interagenti, situate a circa 430 milioni di anni luce dalla Terra, mostrate ai raggi X dal Nasa Chandra X-ray Observatory (in rosa) e dati ottici del Telescopio Spaziale Hubble (in rosso, verde, blu) prodotto dalla Space Telescope Science Institute (STScI) a Baltimora, nel Maryland. 
Arp 147 contiene il residuo di una galassia a spirale (a destra) che entrò in collisione con la galassia ellittica a sinistra. Questa collisione ha prodotto una ondata crescente di formazione stellare che si presenta come un anello blu contenente l'abbondanza di giovani stelle massicce. Queste rapida evoluzione stellare, ha portato in pochi milioni di anni, alcune di esse, ad esplodere come supernovae, lasciando dietro di stelle di neutroni e buchi neri.
Una frazione delle stelle di neutroni e buchi neri hanno stelle compagne e possono diventare luminose sorgenti di raggi X, mentre attirano in esse la loro materia. Le nove sorgenti di raggi X sparse intorno all'anello in Arp 147 sono così luminose che devono essere buchi neri, con masse che sono probabilmente dalle 10 alle 20 volte quella del Sole.

Una sorgente di raggi X è stata individuata anche nel nucleo della galassia rossa a sinistra e può essere alimentata da un mal nutrito buco nero supermassiccio. Questa fonte non è evidente nell'immagine composita, ma è chiaramente visibile nelle immagini ai raggi X. Altri oggetti estranei a Arp 147 sono visibili nella foto, come una stella in primo piano in basso a sinistra e un quasar nello sfondo rappresentato in rosa in alto a sinistra della galassia rossa.

Le osservazioni nell'infrarosso con il NASA Spitzer Space Telescope e le osservazioni nell'ultravioletto con NASA Galaxy Evolution Explorer (GALEX) hanno permesso le stime del tasso di formazione stellare nell'anello. Queste stime, combinate con l'uso di modelli per l'evoluzione delle stelle binarie, hanno consentito agli autori di concludere che la formazione stellare più intensa deve essere teminata circa 15 milioni di anni fa.



A cura di Arthur McPaul


Fonte1
Fonte2

giovedì 17 febbraio 2011

I buchi neri contorcono anche la luce

Illustrazione di un buco nero che coinvolge anche la luce nel processo di torsione a chiocciola, assieme alla materia (credit: NASA)

Bo Thidé e i colleghi dell'Istituto Svedese di Fisica dello Spazio di Uppsala hanno pubblicato il 13 febbraio su Nature Physics uno studio che permetterà di rilevare la rotazione irregolare dei buchi neri.
I telescopi esistenti potrebbero infatti  essere dotati di rilevatori speciali per registrare la torsione impressa sulle onde di luce che passano vicino a un buco nero in rapida rotazione.

"L'effetto di recente scoperto è una conseguenza della teoria della relatività di Einstein e si basa sulle simulazioni numeriche effettuate dalla sua squadra" ci dice Thidé.
I ricercatori avevano già predetto e trovato alcune prove che i buchi neri e le stelle di neutroni. ruotando, mescolerebbero il tessuto circostante dello spazio-tempo, in un effetto conosciuto come "Frame dragging" traducibile come "trasporto sequenziale" ( SN: 9/2/00, p. 150 ).

Ma i ricercatori non avevano esplorato in dettaglio la possibilità che i buchi neri rotanti potessero anche coinvolgere nel processo la luce, impartendo un momento angolare alla radiazione. Per Martin Bojowald della Pennsylvania State University: "Il buco nero influisce sullo spazio-tempo in modo tale che la luce è coinvolta con il momento angolare orbitale automaticamente".

Le onde luminose sono costituite da creste e depressioni. Tali onde luminose che viaggiano all'unisono e senza ostacoli nello spazio hanno fronti d'onda (la superficie piana immaginaria su cui le linee di cresta di un onda si scontrano con la cresta di un altro)

Al contrario, quando la luce passa vicino ad un buco nero, ogni fotone acquista una torsione che altera la superficie piana d'onda in specie di scala a chiocciola centrata attorno alla direzione di marcia del fascio di luce.

"Ciò che è nuovo ed emozionante in questo stuio è che l'effetto appare effettivamente misurabile per il buco nero al centro della nostra galassia", dice Saul Teukolsky della Cornell University.

Thidé dice che il suo team esaminerà le osservazioni al radio telescopio del buco nero della Via Lattea per verificare che la luce abbia già subito la torsione. Bojowald dice che: "la tecnica non sarà un immediato strumento per le osservazioni reali dei buchi neri, ma sembra abbastanza promettente per suggerire l'aggiornamento dei telescopi in modo che possano cercarla".

"Nel frattempo" egli dice "la luce distorta ci dà un nuovo mezzo per verificare la relatività generale e lo spazio-tempo".

Tutto questo è per ora il risultato di calcoli ma già adesso gli attuali telescopi, con opportuni strumenti olografici, potrebbero misurare il grado di vorticità di qualsiasi onda elettromagnetica.  Per Fabrizio Tamburini del Dipartimento di Astronomia dell’Università di Padova, uno degli autori dello studio, le applicazioni sono innumerevoli. “Come illustrato nel nostro articolo, abbiamo trovato il legame tra le equazioni della relatività generale di un buco nero rotante e la produzione di vorticità della radiazione elettromagnetica. Si possono così aprire  nuove frontiere nello studio dei nuclei galattici attivi e della rotazione delle galassie”.

La vorticità di un’onda elettromagnetica  ci fornisce in pratica ulteriori informazioni sulla sorgente che l’ha indotta. Ma nello stesso tempo può essere sfruttata come ulteriore canale per trasmettere informazioni, ad esempio nel campo delle telecomunicazioni. “Stiamo costruendo delle antenne particolari che riescono a imprimere vorticità nelle onde radio”, spiega Tamburini, “quello che abbiamo in mente è di ottenere una trasmissione di tali onde su grande distanza nel mondo reale, non più in laboratorio. In questo modo potremo trasmettere più canali sulla stessa frequenza perché sfruttando i diversi gradi di vorticità di un’onda è come se avessimo diversi canali sui quale ricevere e trasmettere informazioni utilizzando solo quell’onda”.

Il lavoro svolto dal gruppo rivela anche un aspetto curioso: “Il nostro non è solo un lavoro teorico ma anche fisico. Ad esempio abbiamo modificato dei paraboloidi in acciaio piegandoli a martellate. Non è un lavoro tipico di un fisico teorico però è divertente avere delle idee, sviluppare equazioni e alla fine vedere i risultati prendere forma in modo concreto nelle proprie mani”.

Traduzione e adattamento a cura di Arthur McPaul (dal Centro Ufologico Ionico)

mercoledì 16 febbraio 2011

La massa minima per fare una galassia

La distribuzione della materia oscura quando l'Universo aveva circa 3 miliardi di anni.

Solo 300 miliardi di masse solari. Questo l’alone di materia oscura sufficiente a innescare il processo di formazione stellare in galassie massiccie. La stima emerge dalla più accurata ricognizione del cielo infrarosso effettuata con SPIRE, strumento realizzato con un importante contributo italiano a bordo del telescopio dell’ESA. La ricerca su Nature.

Per ogni ricetta che si rispetti, non basta sapere gli ingredienti. È importante conoscere anche le dosi. Per esempio gli scienziati sanno che per fare una galassia è necessario “impastare” i gas primordiali, in particolare idrogeno e elio, con una sorta di eccezionale addensante: l’alone di materia oscura, il cui intenso campo gravitazionale fa collassare i gas e dà il via alla sintesi delle stelle, una dopo l’altra, e quindi dell’intera galassia. Ma quanta materia oscura occorre perché il processo vada a buon fine? Ora si sa con precisione: ne basta una quantità pari a 300 miliardi di masse solari . Che sembra una dose esorbitante, ma è molto meno di quanto si stimasse. La scoperta, annunciata su Nature, è stata possibile grazie allo sguardo acuto del telescopio Herschel dell’ESA.

Con il suo specchio primario da 3,5 metri di diametro, questo gigante dello spazio ci ha portando indietro di 10-12 miliardi di anni, mostrandoci un Universo mai visto. Grazie all’estrema sensibilità delle strumentazioni, dalle tenebre sono emerse molte decine di migliaia di galassie, lontanissime nello spazio e nel tempo. Massicce, luminose, giovani. Mentre le osserviamo, sono passati 2-3 miliardi di anni dal Big Bang e siamo testimoni della nascita di centinaia di miliardi di stelle in ciascuna di queste galassie. Sulla base di questo gigantesco censimento cosmico, il gruppo di ricercatori guidato da Alexandre Amblard, della University of California, Irvine ha effettuato un po’ di calcoli.
“Herschel ha focalizzato con un dettaglio senza precedenti le sorgenti di quella diffusa radiazione cosmica nel lontano infrarosso e nel sub millimetrico, individuata alla fine degli anni Novanta dal satellite COBE (COsmic Background Explorer) della NASA”, spiega Alberto Franceschini, professore dell’Università di Padova , tra i firmatari dello studio su Nature. “Ma quello che a COBE appariva come una radiazione diffusa, a Herschel, grazie ad un telescopio 20 volte superiore, si è rivelata una mappa nitida e profonda, punteggiata da una miriade di sorgenti, ciascuno dei quali rappresenta una galassia in piena formazione stellare”. Merito della sensibilità dello strumento SPIRE (Spectral and Photometric Imaging Receiver), la fotocamera montata su Herschel e realizzata con rilevante contributo italiano, sotto la direzione di Paolo Saraceno, dell’INAF-IFSI di Roma.

L'immagine ottenuta dal telescopio Herschel rivela la distribuzione spaziale delle galassie distanti responsabili della radiazione di fondo infrarossa.


Quest’enorme numero di oggetti, difficili da zoomare singolarmente, ha consentito un’accurata analisi statistica sull’habitat che circonda le galassie primordiali. Spiega Franceschini: “Sono state analizzate nel dettaglio le fluttuazioni dell’intensità della radiazione di fondo infrarosso e la distribuzione di queste fluttuazioni nella mappa: ovvero, lo studio degli addensamenti e delle rarefazioni nella distribuzione della brillanza della radiazione infrarossa. Questi dati sono stati confrontati con la distribuzione prevista per la materia oscura. I risultati mostrano che le galassie si sono formate con efficienza sorprendentemente elevata anche in aloni di materia oscura di massa moderata, di 300 miliardi di masse solari”.
Il dato contrasta con quanto previsto dai modelli teorici, “ossia che galassie così massicce e luminose si fossero formate unicamente entro concentrazioni di materia oscura 10 volte più massive”, specifica il ricercatore. “Si apre un nuovo scenario che ora andrà interpretato”.

A cura di daniela Cipolloni

martedì 15 febbraio 2011

Risolto il mistero dell'"astronauta" nei graffiti sahariani

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Verso la metà degli anni Cinquanta, sulla base delle segnalazioni ricevute dalla guida tuareg Djébrine, Henri Lhote allestì una grande spedizione al massiccio dei Tassili n'Ajjer, nel sud-est algerino, e si fece accompagnare da un gruppo di giovani pittori entusiasti, tra i quali il milanese Gianni Frassati.
In due anni di duro lavoro, da quelle rocce fuori del mondo, sotto un cielo azzurro, sempre rischiarato dal sole bruciante, essi ricopiarono meticolosamente, studiarono e catalogarono una grandissima quantità di graffiti e dipinti rupestri. Ne trovarono migliaia, disseminati nei labirinti di pietra di località dai nomi di Séfar, Awanrhet, Jabbaren. In quest'ultima località, a Jabbaren, la guida Djébrine aveva mostrato per la prima volta i dipinti rupestri a Lhote, nel 1938. Proprio qui si trovano i dipinti più belli: cinquemila immagini di vita di millenni perduti, che rievocano forse la simbiosi di due popoli, gli antenati dei pastori Peulh ed i nobili di Atlantide, antenati dei Berberi d'oggi.
L'attuale deserto era fertile, tra dodicimila e duemila anni fa, sino a che non sopravvenne una stagione d'importanti mutamenti climatici, forse causati da eventi celesti (impatto o passaggio vicino all'orbita terrestre di grandi meteoriti). Quei dipinti rupestri risalgono alla preistoria e raffigurano animali ormai scomparsi nel Sahara, scene di caccia e di sesso, una popolazione di pastori di pelle nera insieme ad un'altra di colorito chiaro, dèi dalla testa d'uccello come quelli egizi, i carri da caccia e da battaglia dei mitici Garamanti: la più ampia, suggestiva e misteriosa galleria d'arte a cielo aperto del mondo.
Nel massiccio dei Tassili, a Séfar e a Jabbaren, si trovano enigmatiche figure che sembrano nuotare o fluttuare nel vuoto ed altre dalle teste tonde, che sembrano indossare caschi e tute da palombari o - come qualcuno è arrivato a supporre - tute spaziali. Sono così fiorite le storie che indicano le origini dell'antica Atlantide nel Sahara, ed altri miti che immaginano una calata d'alieni sulla Terra.
"Nella lingua dei Tuareg - ricorda Henri Lhote (1) - Jabbaren significa 'i giganti', perché lì si trovano dipinti preistorici con immagini umane gigantesche: una è alta più di sei metri. Si tratta senza dubbio di uno dei dipinti preistorici di dimensioni maggiori, tra quelli conosciuti. Bisogna allontanarsi per vedere tutta la figura in un colpo d'occhio, dal contorno semplice, la testa rotonda, con un unico particolare evidente: un doppio ovale al centro della figura, che fa somigliare quel personaggio alla nostra immagine dei Marziani- ma se i Marziani misero mai piede nel Sahara, dovette essere molti secoli fa, perché quei personaggi dalle teste tonde sono, per quanto ne sappiamo, tra i dipinti più antichi dei Tassili".

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Sopra varie vedute del Tassili n'Ajjer (deserti del Sahara)

I dipinti più antichi sono opera d'un popolo che viveva della caccia ad animali di grossa taglia. Quel periodo, il primo dell'arte sahariana, è stato classificato come "bubalico", e le opere d'arte sono esclusivamente graffiti, che rappresentano i grandi animali africani che popolavano allora il Sahara, fertile e ricco di zone umide: elefanti, leoni, ippopotami, rinoceronti, giraffe e l'estinto Bubalus Antiquus, una specie di bufalo dalle corna tanto lunghe da costringerlo a brucare a marcia indietro. Tutti questi animali erano disegnati su grandi rocce piane all'aperto, senza nessun riparo dalle intemperie e senza alcun ordine, mescolando diversi motivi e soggetti sulla stessa superficie. L'estensione geografica di queste espressioni artistiche è enorme e ricopre tutta la fascia dell'Africa settentrionale, segno della grande estensione del Sahara "verde". Il periodo del Bubalus antico si estende dal 10000 al 6000 a.C. e i corpi umani appaiono rappresentati con teste vuote, prive di lineamenti.

Il secondo periodo, detto "delle teste tonde", va dal 6000 al 5000 a.C. In questo periodo le figure sono arricchite con colori ricavati da terre naturali, e talvolta si trovano figure umane rappresentate con maschere animali.

Il terzo periodo è quello detto Bovidiano, dal 5000 al 1800 a.C. Nelle rappresentazioni, piuttosto eleganti, dipinte a vividi colori, appaiono animali, anche domestici, pecore, buoi e scene di vita quotidiana. Fatto eccezionale per la pittura preistorica, le figure sono prima incise nella roccia, con strumenti di selce, e successivamente colorate. Il popolo di pastori di bovini che appare in questi dipinti era, secondo il grande storico africano Hampaté Bâ, gli antenati dei Peulh (Fulani), nomadi pastori che in seguito sciamarono verso Sud, a colonizzare le ampie regioni del Sudan e del Sahel. Gli uomini di colorito bianco o rossiccio, che si vedono spesso in 'simbiosi' con i primi, riccamente vestiti, con usanze molto simili a quelle attuali, sarebbero invece rimasti sul luogo e sarebbero stati gli antenati degli Amazigh (noti col nome di Berberi, dato loro dagli antichi Greci e Romani): il popolo d'Atlantide, sceso verso nord dal massiccio sahariano dell'Ahaggar, come riferisce Erodoto. (2) Egli scrisse testualmente: "Gli Atlanti abitano si una montagna che si chiama Atlante, dalla quale prendono il nome" ed indica questa montagna verso sud, a venti giornate di marcia (circa 800 km) dall'oasi dei Garamanti, l'attuale Djerma, e a dieci giornate di marcia (circa 400 km) dal massiccio dei Tassili, ove abitavano gli Ataranti: non può trattarsi d'altro che del massiccio dell'Ahaggar, montagna sacra della stirpe dei Tuareg. Le catene che oggi noi chiamiamo col nome 'Atlante', disposte da ovest verso est su tre fasce parallele alle coste mediterranee, si chiamano invece 'Deren', secondo il loro nome locale, dato dai Berberi.
Nell'ultima parte del periodo Bovidiano, a partire dal 2000 a.C., la mutazione climatica fece asciugare ampie zone umide. Scomparvero dall'arte rupestre le figure d'ippopotami e d'elefanti e si presume che i pastori di bovini, di colorito scuro, emigrassero verso sud, attraversando il Sahara sino alla valle del fiume Niger, per diffondersi in seguito sino al Golfo di Guinea e alla costa occidentale dell'Africa.
Il quarto è il periodo Cavallino, dal 1800 al 400 a.C. Il nome deriva dalla presenza di carri a due, e talvolta quattro ruote, carri da caccia, da battaglia e da corsa, raffigurati con una vivida espressione che sembrerebbe quasi anticipare il dinamismo del moderno futurismo. Effettivamente i cavalli furono introdotti in quel periodo e il popolo dei Garamanti, che aveva per capitale l'attuale Djerma o Garama, nella Libia occidentale, era celebre per la sua abilità nel condurre i carri. Lo stile è naturalistico e le forme sono più schematiche.
Infine il quinto periodo, quello dello stile Camelino, si estende dal 400 a.C. ad oggi. Lungo quest'arco di tempo, la fauna selvatica africana scompare nella fascia nord-africana e al cavallo subentra il dromedario (originario dell'Oriente), insieme ad altri animali. Strabone, nel sec. I a.C., parla ancora di un'ampia diffusione del cavallo, ma la desertificazione costringeva già le carovane al trasporto di grandi riserve d'acqua. Plinio il Vecchio, nel secolo successivo, riferisce che elefanti, giraffe ed altre fiere "africane" esistevano ancora nel territorio libico, ma che nel Paese dei Garamanti gli wed (corsi d'acqua) erano ormai asciutti per lunghi periodi. Il Sahara andava desertificandosi. In quegli anni il dromedario, che era già allevato e sfruttato nella penisola araba da due millenni, arrivava anche in Africa, da est, con le carovane dei nomadi.

L'arte di questo periodo è schematica e rozza. Il periodo della grande arte sahariana è definitivamente tramontato e rimane soltanto l'espressione occasionale dei pastori nomadi delle zone desertiche.
L'inizio del periodo artistico "delle teste tonde" si colloca quindi intorno a 6000 anni prima della nostra era. Il nome attribuito al periodo deriva dal modo caratteristico di rappresentare le figure umane, con la testa costituita da un tondo vuoto. In questo periodo sono sempre raffigurati gli animali che oggi sono tipici dell'Africa Nera, ma con dimensioni ridotte, e compaiono figure umane, singole o in gruppo, in diversi atteggiamenti, nonché mostri e giganti. La composizione diviene sempre più complessa ed esprime sicuramente intenti magici e religiosi. In questo periodo la produzione artistica si esprime sia con graffiti sia con opere dipinte, ed è geograficamente limitata al Tassili n'Ajjer (Algeria) e all'Akakus (Libia).
Secondo i fautori delle teorie delle influenze aliene, il periodo delle teste tonde sarebbe l'epoca degli sbarchi di visitatori da altri mondi e le teste tonde sarebbero primitive rappresentazioni di caschi spaziali.
Come abbiamo detto, a Séfar e a Jabbaren, sui monti Tassili, alcune figure in particolare, datate dagli esperti intorno all'anno 5000 a.C., sembrano indossare un casco globulare, simile a quello dei palombari, tanto che lo stesso scopritore dei dipinti, l'archeologo francese Henri Lhote, battezzò la più grande "il gran dio marziano" o "l'astronauta". Ma perché mai un astronauta dovrebbe indossare un elaborato casco e per il resto essere completamente nudo? È assai più verosimile - sosteneva Lhote - che si tratti d'indigeni con maschere rituali. Altri commentatori invece, sempre attratti dalle curiosità di difficile spiegazione, perpetuano la favola dell'extraterrestre. I fautori della presenza aliena rilevano anche diverse figure che sembrano fluttuare nel vuoto, come in assenza di gravità. Figure che gli studiosi di cultura sciamanica tendono ad attribuire all'estasi derivata dall'uso di sostanze allucinogene e che facilmente, da un punto di vista puramente artistico, potremmo assimilare alle "danzatrici" di Matisse o ad un quadro di Chagall.

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Potrebbe bastare, in questo come in altri casi, un piccolo sforzo di documentazione per risolvere la questione in modo corretto e fondato. Nell'interessantissima raccolta fotografica intitolata "1900. L'Afrique découvre l'Europe", Eric Baschet riporta la sequenza d'un funerale, fotografata nella regione del lago Ciad, negli anni intorno al 1920 (p. 64-65). La didascalia è la seguente:
"Un uomo è morto. Il cadavere è avvolto con fasce di cotone, legato con strisce di cuoio bovino, rivestito d'una tunica. Poi viene fatto scivolare in una stretta tomba e viene poi sepolto in posizione seduta, con la testa coperta da una grande giara di terracotta".

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Osserviamo le prime foto della sequenza e non possiamo fare a meno di constatare che il trattamento rituale (vedi due immagini sopra), riservato a quel morto dagli eredi degli antichi abitanti di Jabbaren, emigrati alcune migliaia di chilometri più a sud, addobba il morto esattamente come l'immagine che ottomila anni fa era stata dipinta sulle montagne sahariane, sino a dargli l'apparenza di uno "scafandro spaziale", con il casco rotondo sulla testa. Si tratta della preparazione non per un viaggio spaziale, ma per un viaggio in un mondo molto più remoto, quell'aldilà che tanto ha affascinato e tuttora affascina l'ansia di mistero dell'uomo antico e moderno, da ben prima dell'antico Egitto sino ai giorni nostri. Le protezioni occorrenti a quell'antenato devono perciò essere molto più robuste e sostanziali di quelle d'un uomo che si appresti a volare nello spazio.
Nella regione dei monti Tassili, ad ovest dell'antico mare sahariano d'acqua dolce, un tempo popolato da ippopotami e coccodrilli, gli Antichi (Egizi e Greci) situavano l'estremo occidente, il giardino delle Esperidi e il mondo dell'Oltretomba, dal quale un comune mortale non poteva fare ritorno. Solo alcuni eroi, come Erakles, Giasone e gli Argonauti, potevano riuscire nell'impresa.
Perché mai dovremmo stupirci che su quelle montagne, insieme alle scene di caccia, di vita quotidiana, alle danze e alle scene di riproduzione rituale, siano raffigurate scene di sepoltura rituale, come essa era praticata da popolazioni che poi migrarono verso sud, verso il cuore dell'Africa umida?
Le loro orme, secondo Henri Lhote, furono seguite anche da una legione romana, quella del legato Cornelio Balbo, che nel 19 a.C. si spinse nel profondo Sud del Sahara, poi riuscì a ritornare a Roma ed ottenne il trionfo. Secondo Plinio, la III Legio Augusta, al comando di Cornelio Balbo, scese verso sud, passando per Alasi e Balsa, sino a toccare diversi fiumi, tra i quali il Dasibari. Secondo Lhote, il legato romano avrebbe potuto percorrere l'antica "strada dei carri", l'antica carovaniera che correva lungo la sponda orientale del Bahr Attla, il "Mare di Atlantide", citato anche in un libro della Bibbia. Lungo quella strada sono frequenti le raffigurazioni dei carri dei Garamanti. Alasi sarebbe la cittadina sahariana che oggi porta il nome d'Ilezy e Balsa potrebbe essere Abalessa, la mitica roccaforte dei Tuareg ai piedi dell'Ahaggar. Dasibari potrebbe essere uno dei nomi con cui le popolazioni locali chiamano il gran fiume Niger: Isa-Bari, in lingua Sonrhai, significa proprio 'grande fiume' e designa ancor oggi il Niger, e 'Da' è il nome che quelle popolazioni danno ai leggendari antichi 'Signori dell'acqua', per cui il Niger poteva in antico essere chiamato proprio 'Da-Isa-Bari', con un termine molto simile a quello tramandato da Plinio.


NOTE
1. H. Lhote, A la découverte des fresques du Tassili, Ed. Arthaud, Paris, 1973.
2. A. Arecchi, Atlantide. Un mondo scomparso, un'ipotesi per ritrovarlo, Ed. Liutprand-Mimesis, Pavia-Milano, 2001.

Fonte1

Fonte2

Un disco spesso scoperto in Andromeda


Un team di astronomi provenienti dal Regno Unito, Stati Uniti ed Europa hanno individuato per la prima volta un disco stellare denso nella vicina galassia di Andromeda. La scoperta e la proprietà del disco saranno rilevanti per comprendere i processi fisici coinvolti nella formazione e nell'evoluzione delle galassie a spirale di grandi dimensioni come la nostra Via Lattea.

Analizzando le velocità delle singole stelle luminose all'interno della galassia di Andromeda con il telescopio Keck nelle Hawaii, il team è riuscito a separare le stelle che tracciano un disco spesso da quelle che costituiscono il disco sottile, valutando quali sono le differenze di altezza, larghezza e la loro chimica.
I loro risultati sono stati pubblicati nel Bollettino mensile degli Avvisi della rivista della Royal Astronomical Society.

La struttura a spirale domina l'aspetto delle grandi galassie, al momento attuale, con circa il 70% di tutte le stelle contenute in un disco sul piatto stellare. La struttura del disco contiene i bracci di spirale tracciati da parte delle regioni di formazione stellare attiva e circonda un rigonfiamento centrale di vecchie stelle al centro della galassia.
"Dalle osservazioni della nostra Via Lattea e di altre galassie a spirale vicine, sappiamo che queste galassie in genere sono in possesso di due dischi stellari, uno sottile e uno più spesso", spiega il responsabile dello studio, Michelle Collins, uno studente di dottorato presso l'Istituto di astronomia di Cambridge.
Il disco spesso è costituito da stelle più vecchie le cui orbite sono stanziate lungo un percorso che si estende sia sopra che sotto il disco regolare più sottile.
"Il classico disco stellare sottile che tipicamente si vede nelle immagini di  Hubble è dato dall'accrescimento di gas verso la fine della formazione di una galassia," dice Collins, "mentre i dischi di spessore sono prodotti in una fase precedente alla vita della galassia, che li rende ideali testimoni dei processi coinvolti nell'evoluzione galattica".

Attualmente, il processo di formazione del disco spesso non è ben compreso. In precedenza, la migliore speranza per comprendere questa struttura è stato studiando il disco spesso della nostra Galassia, ma esso è in gran parte oscurato dalla nostra vista. La scoperta di un disco spesso anche in Andromeda ci offre una visione molto più pulita della struttura a spirale. Andromeda è il nostro vicino prossimo più grande tanto da poter essere visibile a occhio nudo nella sua interezza dalla Via Lattea.
Gli astronomi saranno in grado di determinare le proprietà del disco in tutta la galassia e potranno cercare le tracce degli eventi legati alla sua formazione. I modelli teorici proposti prevedono che l'accrescimento delle galassie mediante l'assorbimento di galassie satelliti più piccole o più sottili con un continuo riscaldamento delle stelle poste nei bracci della spirale.

"Il nostro studio suggerisce che il più vecchio disco è quello sottile, con una composizione chimica diversa", ha commentato Mike Rich, astronomo UCLA, " e le future osservazioni sempre più dettagliate ci consentiranno di svelare la formazione del sistema discoidale di Andromeda , con la possibilità di applicare questo modello alla formazione delle galassie a spirale in tutto l'Universo".

"Questo risultato è uno dei più emozionanti che emerge dal sondaggio dei movimenti e dalla chimica delle stelle nella periferia di Andromeda", ha detto il dottor Scott Chapman, anch'egli presso l'Istituto di Astronomia. "La scoperta di questo disco spesso ci ha offerto una vista unica e spettacolare della formazione del sistema di Andromeda e sarà certamente di aiuto nella comprensione di questo complesso processo".

Foto di apertura: Rappresentazione schematica di una struttura del disco di spessore. Il disco di spessore è formato da stelle che sono in genere molto più vecchie di quelle del disco sottile, il che le rende testimoni ideale dell'evoluzione galattica. (Credit: Amanda Smith, responsabile grafico della IOA)

Traduzione a cura di Arthur McPaul (dal Centro Ufologico Ionico)

Fonte

lunedì 14 febbraio 2011

Le sonde STEREO riprendono il Sole in 3D

La NASA ha rilasciato la prima visione completa di tutta la superficie del Sole e della sua atmosfera in tre dimensioni grazie alle immagini pervenute dai satelliti spereocoppia "STEREO".

Poter osservare contemporaneamente il fronte e il retro del Sole consentirà d'ora in poi ai ricercatori, di ottenere significativi progressi nelle previsioni meteo del Sistema Solare e permetterà anche di migliorare la pianificazione delle future missioni spaziali.

I satelliti in sterecoppia della NASA, i Solar TErrestrial Relations Observatory (STEREO),  sono posti su lati diametralmente opposti del Sole, a 180 gradi. Uno è davanti alla Terra nella sua orbita, l'altro è dietro.
Lanciati nell'ottobre 2006, seguono le tracce del flusso di energia e materia che il Sole diffonde sulla Terra. Essi forniscono inoltre una vista unica e rivoluzionaria del sistema Sole-Terra. La missione ha osservato il sole in 3D per la prima volta nel 2007.
Nel 2009, le navicelle gemelle hanno rivelato la struttura 3D delle espulsioni di massa coronale (CME),  che sono violente eruzioni di materia che possono interrompere le comunicazioni e la navigazione dei satelliti  e bruciare le reti elettriche sulla Terra.



Traduzione a cura di Arthur McPaul




La Sfinge avrebbe la stessa età di Gobekli Tepe?

La datazione al carbonio 14 dell'antico tempio di Gobelki Tepe ha riacceso il dibattito sulla vera età della Sfinge. Nuove prove suggeriscono possa essere 8000 anni più antica di quanto precedentemente pensato.
 
Eresia: Gobelki Tepe potrebbe essere più vecchia di quanto si pensasse! Quando un po’ di anni fa Robert Bauval, Graham Hancock, John Anthony e altri, sfidarono la datazione della Sfinge comunemente accettata, gli accademici risposero gridando “eresia!” Successivamente, Robert Schoch, professore di geologia dell’Università di Boston, ha datato il monumento di Giza intorno al 7000 a.C., due volte la data accettata, invocando un’analoga retrodatazione.

“Non ci sono proprio prove che possa essere vero” disse l’egittologa Carol Redmount dell’Università della California di Berkeley (Los Angeles Time, 23 ottobre 1991). “La popolazione di quella regione non avrebbe avuto la tecnologia, le istituzioni di governo, o anche la volontà di costruire tali strutture migliaia di anni prima del regno di Chefren.” E questa, in poche parole, era la visione condivisa da simili scienziati ed egittologi.
La Sfinge è dello stesso periodo di Gobekli Tepe? Potevano uomini delle caverne aver costruito la Sfinge? Gli accademici avevano di fronte un problema di fattibilità. Come potevano gli uomini delle caverne del neolitico avere costruito un tale impressionante esemplare come la Sfinge migliaia di anni prima della data di costruzione accettata per, diciamo, Stonehenge e le piramidi? In un’epoca antecedente al 3000 a.C., gli accademici velocemente mettevano in evidenza, i soli manufatti conosciuti erano punte di lancia di selce e tende per nascondersi dagli animali. In nessun modo le popolazioni del primo neolitico potevano aver costruito qualcosa di così elaborato come le piramidi giganti o la Sfinge.  

Una dichiarazione, paradossalmente, con cui gli eretici erano assolutamente d’accordo! Infatti, gli “eretici” credevano che la Sfinge e gli altri antichi monumenti fossero stati costruiti da una “perduta civilizzazione”, che era stata cancellata alla fine dell’ultima era glaciale, e diffondevano prove convincenti di questa fine. Ma anche quest’idea era scansata dagli accademici, i quali rimanevano risoluti nelle loro dogmatiche asserzioni secondo cui le date dovevano essere sbagliate. Poi venne la scoperta di Gobekli Tepe.
Ciò che gli scienziati accademici non si aspettavano fu la scoperta nel 1994 di un sito comprendente un massiccio, complesso ed elaborato tempio megalitico sepolto sotto gli altopiani dell’Anatolia, nel sud-est della Turchia, conosciuto come Gobelki Tepe, che significa “collina con l’ombelico”. Inizialmente, si pensava avesse un’età simile agli altri monumenti megalitici. Dai primi scavi al suo disseppellimento, Gobelki Tepe ha riservato molte sorprese. Ma nessuna in grado di “fermare il tempo” come i risultati dei test effettuati per determinare la sua precisa età.

Gobelki Tepe_fantarcheologia_superevaPer la costernazione degli studiosi accademici, la datazione al carbonio di Gobelki Tepe è uno sconcertante 11.000 a.C. , una data troppo remota per rientrare nei modelli accettati dell’evoluzione umana. Diversamente dalle date proposte da Schoch e da altri eretici, la datazione per mezzo del “Carbonio 14″ non poteva essere messa in discussione. Oggi Gobelki Tepe è considerato il più importante sito archeologico nel mondo, e situato com’è tra i fiumi Eufrate e Tigri, è considerato da qualche eminente archeologo, essere il sito del favoloso “Giardino dell’Eden”, anche solo in un contesto allegorico.
Riferimenti biblici a parte, la questione resta in piedi: chi ha costruito questo impressionante anacronismo? Uomini delle grotte? Alieni? …o una perduta civilizzazione dell’antichità? Per il momento, gli studiosi accademici si erano dati alla fuga.

Delle costruzioni vecchie di 13.000 anni così complesse ed elaborate come Gobekli Tepe, semplicemente non dovrebbero esistere per l’attuale modo di considerare la preistoria. Il fatto che esistano ha forzato l’archeologia ufficiale a ripensare le sue teorie del mondo antico e, cosa più importante, le persone che popolavano quel mondo. Nessuno, nell’ambito della scienza ufficale, è naturalmente ancora preparato a considerare seriamente la possibilità che il complesso di Gobekli Tepe possa essere stato costruito da una perduta civilizzazione che una volta popolava la Terra, e forse era più avanzata tecnologicamente di quanto si possa comunemente pensare, e che è stata spazzata via contemporaneamente allo scioglimento dei ghiacci durante la fine dell’ultima era glaciale.

Sebbene tale scenario potrebbe venire associato al “mito di Noè” - l’estinzione di un intero popolo in una grande alluvione, o qualche altra catastrofe globale intorno a 12.000 anni fa - il mondo accademico resta fermamente convinto che tale civilizzazione non esistesse. Ma dunque chi edificò Gobekli Tepe?
gobelki tepe_fantarcheologia_superevaIncredibilmente, la visione accettata dall’archeologia ufficiale, è che i nostri antenati cacciatori-raccoglitori sarebbero stati in grado di “disegnare linee dritte” dopo tutto…
Quando solo una manciata di anni prima, gli accademici non retrocedevano dal dire che gli “uomini delle caverne” i quali popolavano la regione, non potevano in alcun modo aver costruito qualcosa di sofisticato come la Sfinge, tanto meno il
sito del tempio altamente complesso di Gobekli Tepe, adesso sono costretti a rimescolare le carte e ad ammettere che si erano sbagliati. Adesso sostengono che i cacciatori-raccoglitori del Neolitico costruirono le antiche strutture, tutto da soli. Sebbene questa notevole inversione di marcia nell’opinione degli accademici, sia stata salutata da qualcuno come una “breccia”, altri restano convinti che queste antiche strutture, come la Sfinge e Gobekli Tepe, siano le tracce di una civilizzazione perduta. Comunque la pensiamo, ciò che può essere definito come certo è che la cifra di 11.000 anni a.C. per Gobelki Tepe, proveniente della datazione al carbonio, significa che possiamo riesamenare le prove riguardanti l’età della Sfinge con rinnovato entusiasmo.

Commentando il lavoro di Robert Schoch sulla nuova datazione della Sfinge, ricordiamo, l’egittologa Carol Redmount dell’Università della California disse: “Non ci sono prove che possa essere vero!” Le sue ragioni per avere questa opinione erano che le tribù di cacciatori-raccoglitori di quel periodo “non avrebbero avuto la tecnologia, le istituzioni governative o anche la volontà di edificare tali strutture migliaia di anni prima del regno di Chefren.” Noi adesso sappiamo che Carol Redmount si sbagliava.

sphinx_fantarcheologia_superevaMa Robert Schoch non era la sola voce nel deserto che proclamava un punto di vista alternativo.
Secondo certi allineamenti astroarcheologici scoperti da Robert Bauval e Graham Hancock, sono state suggerite date di gran lunga più vecchie per le piramidi di Giza e la Sfinge. Queste datazioni sono state, naturalmente, “gettate nella spazzatura” dagli studiosi ufficiali, ma con la scoperta di Gobelki Tepe, una nuova prospettiva è stata lanciata su quando venne costruito il complesso di Giza.
Stando alla cronaca, i lavori combinati di Bauval ed Hancock proposero date stabilite intorno al 10.500 per la costruzione della Sfinge, e suggeriscono come possa essere ancora più antica. In una certa misura, questo punto di vista è condiviso anche da scrittori ed egittologi. John Anthony West, la cui ricerca durante gli anni 70 e 80 gli fece concludere che la Sfinge era di gran lunga più antica di quanto gli archeologi ortodossi erano preparati ad accettare. West inoltre concluse, per di più, come ci fossero buone probabilità che potesse essere stata costruita da una civiltà ora perduta nella notte dei tempi.

Allo stesso modo di Schoch, West propose che l’erosione del piedistallo della Sfinge, dovuta all’azione delle acque, provava come il monumento in questione fosse molto più antico della data di 2.500 a.C. generalmente attribuitagli. A causa dell’evidenza dell’erosione dovuta alle abbondanti precipitazioni piovane - venne fatto osservare -la Sfinge deve essere stata edificata in un periodo prossimo a 10.000 anni fa, l’ultima volta che la regione fu teatro di precipitazioni tali da causare simili erosioni.
E in un recente studio intitolato Geological aspect of the problem of dating the great egyptian sphinx construction (”Aspetti geologici sui problemi di datazione della grande costruzione egizia - chiamata - Sfinge”) pubblicato nel 2008 e presentato presso la Conferenza Internazionale di Geoarcheologia e Archeomineralogia, sono state presentate prove che dimostrano come la costruzione della Sfinge è infatti retrodatata indietro nel tempo fino all’era pleistocenica, vale a dire 10.000 anni fa.

Dovrebbe essere osservato che il principale argomento a favore della cosiddetta “data ufficiale” di 2.500 a.C. per l’edificazione della Sfinge dipende fortemente dal confronto coi monumenti raffiguranti volti umani come quello del Faraone Chefren (2520-2494 a.C.). L’archeologia ufficiale insiste col dire che la Sfinge è un qualche tipo di monumento dedicato al Grande Faraone perchè vengono percepite somiglianze nel volto scolpito. Ma dovrebbe anche essere osservato che diversi test di tipo forense hanno dimostrato come il volto della Sfinge non è presumibilmente quello di Chefren, e dunque l’assunzione che la Sfinge venne edificata durante il regno di Chefren è lontana dall’essere certificata una volta per tutte.
Infatti, molte delle evidenze tendono adesso a supportare i punti di vista degli eretici, su come la Sfinge possa essere stata edificata all’incirca nel 10.500 a.C., diventando così praticamente contemporanea al complesso di Gobelki Tepe, entrambi con un’età di 12.500 anni.

E’interessante rendersi conto di come un crescente consenso sia pronto anche ad accettare come una “perduta” civiltà, la quale popolava le aree costiere del mondo antico possa avere costruito la Sfinge, così come le piramidi e Gobelki Tepe, prima di essere spazzata via da una grande alluvione causata dallo scioglimento delle calotte di ghiaccioo alla fine dell’ultima era glaciale, verso il 10.000 a.C. Ricerche in questo ambito sono in corso, e i prossimi aggiornamenti potranno riservare sorprese. Queste antiche meraviglie sono state costruite grazie all’aiuto di intelligenze non terrestri da una civilizzazione umana avanzatissima completamente sconosciuta? …o sono state costruite da nostri antenati cacciatori-raccoglitori, “uomini delle caverne” che popolavano la regione nord-mediorientale tra i 12.000 e i 13.000 anni fa?!

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Articolo su Gobelki Tepe

domenica 13 febbraio 2011

Svelata l'età del misterioso "Manoscritto Voynich"

I ricercatori dell'università dell'Arizona hanno incrinato uno degli enigmi che circondano il "Manoscritto Voynich", il libro più misterioso al mondo.

Usando la datazione al radiocarbonio, il team diretto da Greg Hodgins della "UA's Department of Physics" ha scoperto che le pagine di pergamena del manoscritto risalgono agli inizi del secolo quindicesimo, cioè di età superiore a quello che avevano pensato in precedenza altri ricercatori.
Questo volume a prima vista, sembra non essere diverso da qualsiasi altra opera antica di scrittura e di disegno.


Attualmente di proprietà della Beinecke Rare Book e della Biblioteca del Yale, il manoscritto è stato scoperto nella Villa Mondragone nei pressi di Roma nel 1912 dal rivenditore di libri antichi Wilfrid Voynich mentre valutava una cassa di libri offerti in vendita dalla Compagnia di Gesù. Voynich ha dedicato il resto della sua vita a svelare il mistero delle origini del libro e decifrare i suoi significati. Morì 18 anni dopo, senza riuscire a svelare il mistero.
Dando uno sguardo più attento al libro, però, nulla è come sembra. I personaggi alieni, alcune lettere somiglianti al latino, ma usate in modo sconosciuto, sono organizzate in parole e frasi che non assomigliano a niente scritto, o letto, dagli esseri umani.

Hodgins lavora per il Laboratorio delll'Arizona NSF Accelerator Mass Spectrometry, o AMS, che è condiviso tra fisica e scienze geologiche. Il suo team è stato in grado di inchiodare il momento in cui il manoscritto Voynich è stato redatto, ma nulla di più è stato aggiunto alla decifrazione dei suoi enigmatici codici.


Nel 2009 Hodgins e colleghi, hanno effettuato la datazione al radiocarbonio per stabilire l'età precisa del manoscritto.
Il Carbonio-14 è una rara forma di carbonio, un cosiddetto radioisotopo, che si presenta naturalmente nell'ambiente terrestre. In ambiente naturale, vi è un solo atomo di carbonio-14 per ogni trilione non radioattivo o "stabile" di isotopo di carbonio, in gran parte del carbonio-12, ma con piccole quantità di carbonio-13. Il  Carbonio-14 si trova nell'atmosfera all'interno di biossido di carbonio.
Le piante producono i loro tessuti, facendosi carico dell'anidride carbonica dall'atmosfera e così accumulano carbonio-14 durante la vita. Gli animali, a sua volta accumulano carbonio-14 nei loro tessuti, mangiando piante, o mangiando altri organismi che consumano le piante.
Quando una pianta o un animale muore, il livello di carbonio-14 scende ad un ritmo prevedibile e quindi può essere usato per calcolare la quantità di tempo che è passato dalla morte. Le pagine di pergamena del manoscritto di Voynich sono state fatte dalla pelle degli animali, e quindi possono essere analizzate al radiocarbonio.


Per ottenere il campione dal manoscritto, Hodgins ha viaggiato fino alla Yale University, dove i restauratori avevano in precedenza identificato le pagine che non erano state restaurate o riparate e sono state considerate le migliori per l'analisi.
"Mi sono seduto con il manoscritto Voynich su una scrivania davanti a me, e delicatamente ho sezionato un pezzo di pergamena dal bordo di una pagina con un bisturi" ha detto Hodgins.
Ha inciso quattro campioni da quattro pagine, ciascuno da 1 a circa 6 millimetri e li ha portati al laboratorio di Tucson, dove sono stati accuratamente puliti.
"Poiché sono stati prelevati dai margini della pagina, abbiamo trovato un sacco di oli di dito lasciati nel tempo", Hodgins spiega.
Successivamente, il campione è stato combusto, spogliando il materiale di tutti i composti indesiderati e lasciando dietro di sé solo il suo contenuto di carbonio, una piccola spolverata di grafite sul fondo della fiala.

Il team è stato in grado di spingere indietro l'età presunta del Manoscritto Voynich di almeno 100 anni, una scoperta che ha smontato alcune delle ipotesi sulle sue origini e la storia.
Altrove, gli esperti avevano analizzato gli inchiostri e le vernici del manoscritto e delle immagini.
"Sarebbe bello se potessimo direttamente datare al radiocarbonio gli inchiostri, ma in realtà è davvero difficile da fare. In primo luogo, sono presenti sulla una superficie solo in tracce e il contenuto di carbonio è in genere estremamente basso. Inoltre, alcuni inchiostri non sono a base di carbonio, ma sono derivati da minerali di terra. Sono inorganici e quindi non contengono carbonio".


"E' stato scoperto che i colori sono coerenti con le palette del Rinascimento. I colori che erano disponibili al momento, ma in realtà non ci dicono molto e non vi è nulla di sospetto".
Mentre Hodgins si affretta a sottolineare che qualsiasi cosa al di là dell'aspetto della datazione è fuori della sua competenza, egli ammette che è altrettanto affascinato dal libro come tutti gli altri studiosi che hanno cercato di svelare la sua storia e il suo significato.
"Il testo presenta caratteristiche strane come parole ripetitive o una lettera in una sequenza" dice. "Cose alquanto stravaganti che rendono davvero difficile decifrarne il significato".
"Ci sono tipi di cifrari che incorporano all'interno di significato incomprensibile. Quindi è possibile che la maggior parte di essi non significi nulla. Non vi è un metodo di cifratura storico, dove si ha un foglio di carta con i fori in posizione strategica in essa. E quando quei buchi sono stabiliti in cima alla scrittura, si leggono le lettere in quei buchi".


"Chissà che cosa viene scritto su questo manoscritto, ma sembra avere a che fare con una serie di argomenti che possono riguardare l'alchimia. La segretezza è talvolta associata con l'alchimia, e quindi sarebbe coerente con quella tradizione, se la conoscenza contenuta nel libro è stato codificato. Cosa rappresentano i disegni? Sono soggetti di botanica? Sono organismi marini? Sono oggetti astrologici? Nessuno lo sa!".
"Trovo che questo manoscritto sia assolutamente affascinante. Mettere insieme queste cose è stato fantastico. Si tratta di un grande puzzle che nessuno ha ancora svelato" conclude Hodgins.