venerdì 21 novembre 2014

Tracce Organiche su Marte: non c'è contaminazione!



La materia organica di recente rilevata dal rover Curiosity della NASA, non sarebbe stata contaminata dalla Terra.

Un team di scienziati tedeschi e britannici ha suggerito che il composto gassoso provenga dal suolo di Marte e che il carbonio e l'idrogeno, probabilmente derivino da meteoriti che caddero sulla superficie del pianeta. Questa ipotesi è supportata da misurazioni isotopiche effettuate dagli scienziati in cui sarebbero stati replicati alcuni degli esperimenti del lander su Marte.

La questione se vi sia sostanza organica su Marte, un requisito essenziale per la vita, è stato dibattuto dalla comunità scientifica per un lungo periodo. Per risolvere questo problema, il rover della NASA Curiosity, che è atterrato su Marte nel mese di agosto del 2012, ha condotto numerose indagini sul suolo. A seguito del riscaldamento di alcuni campioni di terreno, furono ritrovate delle semplici molecole organiche. Una delle sostanze rilevate fu il clorometano, contenente atomi di carbonio, idrogeno e cloro. Secondo gli esperti della NASA, tuttavia, questo composto potrebbe essersi formato durante gli esperimenti di riscaldamento del suolo ovvero da una reazione tra perclorati nel suolo marziano e una sostanza chimica a bordo. Così, anche se il cloro nel diclorometano provenisse da Marte, il carbonio e l'idrogeno furono considerati riportati dal rover Curiosity.

È interessante notare che questo tipo di materiale organico era stato anche individuato in precedenti esperimenti durante la missione di Viking nel 1976, ma fu considerato una contaminazione terrestre.
Il team tedesco-britannico di scienziati guidati dal Prof. Keppler ha studiato se ci possa essere un'altra spiegazione per le osservazioni di clorometano su Marte. Ha ipotizzato che il composto organico di clorurato gassoso sia derivato dal suolo marziano mentre il carbonio e l'idrogeno siamo giunti da meteoriti. Per sostenere la loro ipotesi, i ricercatori hanno esaminato campioni provenienti da un meteorite di un 4,6 miliardi di anni che cadde sulla terra nel 1969 nei pressi della città australiana di Murchison. Secondo il Prof. Keppler questo materiale meteoritico contiene il due per cento di carbonio. Esperti spaziali presuppongono che una quantità relativamente grande di micrometeoriti con una composizione simile a quella di Murchison cade sulla superficie di Marte ogni anno.

Quando Frank Keppler ed i suoi colleghi hanno riscaldato il materiale meteoritico di Murchison in presenza di cloro hanno osservato la formazione di diclorometano. "Il rapporto pesante tra gli atomi di carbonio pesante e di idrogeno leggeri, noti come l'impronta digitale isotopica di un gas, mostrano chiaramente che il materiale organico ha un'origine extraterrestre" dice il Prof. Keppler. Gli scienziati hanno trasferito i loro risultati alle condizioni della superficie di Marte che ricevono meteoriti di composizione analoga. "Quindi il clorometano che è stato trovato da due distinte missioni su Marte potrebbe essersi formato sul suolo marziano, mentre il carbonio e l'idrogeno avrebbero avuto origine dalle micrometeoriti che piovono su Marte", ha spiegato il Prof. Keppler.

"Tuttavia, non si può escludere che gli ipotetici microrganismi vissuti sul pianeta, possano aver fornito una frazione della sostanza organica". Lo scienziato Heidelberg presuppone che in future missioni su Marte l'impronta isotopica del diclorometano potrebbe determinare se la sua origine è proveniente da materiale organico di natura marziana o se sia stato depositato da meteoriti o contaminato dai lander inviati dalla Terra.

Frank Keppler guida il gruppo di lavoro di biogeochimica presso l'Istituto di Heidelberg Università degli Studi di Scienze della Terra. Oltre agli scienziati di Heidelberg hanno contribuito a questa ricerca anche gli esperti del Max Planck Institute di Chimica a Magonza e alla Scuola di Scienze Biologiche presso Queen University di Belfast.

Traduzione a cura di Vito Di Paola

Fonte
http://www.sciencedaily.com/releases/2014/11/141113110018.htm







sabato 15 novembre 2014

Il Magnetismo del Sistema Solare




Per quanto ne sappiamo, un sistema planetario alle sue origini non è altro che un vortice di gas e polveri. Vero è anche che nel corso di pochi milioni di anni questi gas vengono risucchiati al centro del vortice e danno vita una stella, mentre le polveri restanti si addensano in grumi più o meno grandi, come mattoncini buoni per la formazione dei pianeti.

Il tutto avviene piuttosto rapidamente. Gli astronomi osservano da tempo i fenomeni di evoluzione dei dischi protoplanetari in tutta la Galassia (anche il nostro Sistema Solare ha vissuto una storia analoga), la ragione per cui i dischi planetari evolvano in maniera così rapida è però rimasto un mistero.

A uscire dalla mera speculazione ecco però i ricercatori del Massachusetts Institute of Technology: dal loro lavoro di ricerca emerge una prima evidenza sperimentale, cioè che il disco protoplanetario da cui ha avuto origine il Sistema Solare è stato plasmato da un potente campo magnetico, quello stesso che ha spinto massicciamente i gas nel Sole in pochi milioni di anni. Lo stesso campo magnetico, poi, potrebbe aver spinto l’uno contro l’altro gli ammassi di polveri andando a formare i ‘semi’ iniziali da cui sono fioriti i pianeti del sistema. L’ipotesi appare sul numero corrente di Science.

I ragazzi del MIT hanno concentrato la loro attenzione sul meteorite Semarkon, una roccia spaziale caduta sul cielo dell’India settentrionale nel lontano 1940 e considerata una delle reliquie cosmiche meglio conservate – e incontaminate – del Sistema Solare. Nel corso degli esperimenti sono stati estratti una serie di campioni dal meteorite. Di ogni frammento è stato accuratamente misurato il campo magnetico per stabilirne le variazioni fin dai tempi della costituzione del disco galattico. Cosa che non è avvenuta: siamo di fronte a un meteorite conservatosi inalterato.

Quanto all’intensità di questo campo magnetico, ecco il dato strabiliante: oscilla fra i 5 e i 54 microtesla. Vale a dire fino a 100.000 volte più potente di quello rilevabile oggi nello spazio interstellare. Un super campo magnetico capace di dare forma all’ammasso di gas e accelerare i processi di formazione stellare. Due teorie ipotizzabili sulla formazione del disco planetario: l’instabilità magnetorotazionale, cioé una forte turbolenza del campo magnetico che ha spinto il gas verso il sole, o che questo si sia concentrato sul sole attraverso un processo più ordinato, come il percorso del campo magnetico a forma di clessidra.

«Dare conto dei tempi rapidi in cui sistema planetario si evolve è sempre stato impossibile», spiega Roger Fu del MIT Department of Earth, Atmospheric and Planetary Sciences. «Ora grazie ai risultati ottenuti possiamo attribuire questa veloce formazione del disco a un campo magnetico tanto potente da giustificare una coercizione dei gas su larga scala».

Una bella fortuna trovare un meteorite perfettamente conservato e che si comporta come un sofisticato archivio di registrazioni magnetiche. «Incontaminato, costituito del corretto cocktail di metalli e con perfette proprietà di registrazione magnetica. Semarkon è un device ad alta fedeltà», chiosa ironicamente Ben Weiss, professore di scienze planetarie al MIT.

Certo un campo magnetico di tali dimensioni, non poteva che lasciare il segno.


Fonte1:
L’articolo su Science: http://www.sciencemag.org/lookup/doi/10.1126/science.1258022

Fonte2:
http://www.media.inaf.it/2014/11/13/il-magnetismo-del-sistema-solare/

Marte: Non Guardate il Meteo







Qualche anno fa non ci si faceva poi molto affidamento. Si dava un occhio alle previsioni del tempo, dopo il telegiornale regionale, o sul giornale, poi si partiva lo stesso. Fiduciosi. Sperando in una bella giornata di sole, al mare. Ma oggi no: il meteo c’azzecca, non si scampa.

Se però proprio non volete rovinarvi la sorpresa, e amate il brivido dell’incerto, potreste sempre trasferirvi su Marte. Tempo meteorologico ballerino, che cambia giorno per giorno a causa di costanti fluttuazioni nell’atmosfera. Clima instabile – nella prospettiva dei tempi lunghi – con significative variazioni nel succedersi dei decenni.

Secondo i ricercatori della McGill University e della London’s Global University (University College London) per lo studio del pianeta rosso è possibile servirsi delle stesse categorie di riferimento che adottiamo sulla Terra: tempo meteorologico, clima, e quello che gli inglesi definiscono macroweather – l’orizzonte lungo cui può arrivare una previsione meteorologica certa.

Nei risultati dello studio, appena pubblicati su Geophysical Research Letters, un ruolo importante nel determinare questo orizzonte delle proiezioni meteo è giocato direttamente dalla nostra stella: il Sole. Tenendo conto del fatto che su Marte la radiazione solare non si concentra solo sulla superficie del pianeta ma riguarda anche l’atmosfera in tutto lo spessore, gli scienziati ipotizzano che la temperatura dovrebbe oscillare in modo simile a quanto possiamo vedere sulla Terra (fatte le dovute differenze).

«L’analisi dati conferma questa ipotesi. Esiste una forte analogia fra meteo (e clima) marziano e terrestre», spiega Shan Lovejoy, docente di fisica della McGill a Montreal e primo autore dello studio. «Fatto che si aggiunge alle evidenze raccolte su atmosfera e oceani a Terra, dove la nostra stella ha un ruolo di primordine per ciò che riguarda le fluttuazione del macroweather».

L’orizzonte a cui arriva una proiezione meteorologica affidabile è però appena di 1,8 giorni marziani (circa due giorni terrestri). Tempo tiranno e imprevedibile. Qui da noi l’orizzonte in cui vale un bollettino meteo oscilla fra una settimana e dieci giorni: 5 volte di più.

«Non siamo in grado di anticipare la situazione meteorologica con certezza, è un momento difficile. Se non riusciamo ad andare oltre il limite dei due giorni, anche i rover potrebbero avere qualche disagio», ammette Jan-Peter Muller, professore dello UCL Mullard Space Science Laboratory e co-autore del paper.

La ricerca di Lovejoy, Muller e colleghi promette però novità su quella che è la nostra attuale comprensione delle dinamiche atmosferiche. E non solo sul nostro pianeta. Gli obiettivi sono puntati su Venere, la luna di Saturno Titano, i giganti gassosi Giove, Urano, Nettuno e Saturno.

La scelta in questo caso è ricaduta su Marte per l’evidente abbondanza di dati disponibili e raccolti dalle missioni Viking fra gli anni Settanta e Ottanta, fino ai dati recenti degli orbiter che più recentemente sono andati ad affollare il cielo marziano (vedi MediaINAF).


Fontehttp://www.media.inaf.it/2014/11/14/marte-non-guardate-il-meteo/


giovedì 13 novembre 2014

Neanderthal e Sapiens si incrociarono 50-60 mila anni fa




In europei e asiatici c’è meno patrimonio genetico neandertaliano di quanto finora ritenuto. Il «mescolamento» avvenne probabilmente in Medio oriente. La scoperta è avvenuta grazie allo studio su un femore di uomo ritrovato nel 2008 in Siberia.


In noi c’è meno Neanderthal di quanto finora ritenuto e l’incrocio genetico (inbreeding) tra i nostri progenitori e i «cugini» estinti avvenne tra 50 mila e 60 mila anni fa.

Sono i risultati della mappatura del più antico Dna di uomo moderno eseguita sul genoma di un Homo sapiens vissuto in Siberia 45 mila anni fa.

Lo studio è stato pubblicato, condotto dall’équipe di Svante Pääbo, direttore del dipartimento di antropologia genetica dell’Istituto Max Planck di Lipsia, è stato pubblicato sulla rivista Nature.

Nel 2008 Nikolai Peristov, un cacciatore di fossili dilettante, mentre cercava zanne di mammut rinvenne casualmente un femore sulle rive del fiume Irtysh, presso la città di Ust-Ishim in Siberia occidentale.

Con la datazione al carbonio-14 risultò appartenere a un individuo di sesso maschile (aveva il cromosoma Y) di Homo sapiens vissuto 45 mila anni fa. Non è il Dna «umano» più antico sequenziato, questo risale a 400 mila anni fa, ma è il più antico sicuramente appartenente a un Sapiens (cioè noi) trovato al di fuori dell’Africa e del Medio oriente.

L’équipe di Paabo ha scoperto che il Dna dell’antico uomo siberiano conteneva in media segmenti di Dna neanderthaliano tre volte più lunghi rispetto a quelli degli uomini contemporanei.

Oggi il nostro Dna contiene patrimonio genetico neanderthaliano pari a 1,6-1,8% se siamo europei, e 1,7-2,1% se siamo dell’Asia orientale (zero se siamo africani).

Nell’uomo di Ust-Ishim il Dna «alieno» era invece circa il 2,3%. «Un aspetto importante che emerge», ha spiegato Alfredo Coppa, paleoantropologo dell’Università La Sapienza di Roma, «è che il rimescolamento genetico tra i due gruppi è stato marginale e il contributo dei Neanderthal non si è andato diluendo nel tempo come si era ipotizzato finora».

Da questi dati gli scienziati sono riusciti a ricostruire che l’incrocio genetico Sapiens-Neanderthal avvenne tra 232 e 430 generazioni prima della nascita dell’uomo di Ust-Ishim: cioè tra 50 mila e 60 anni fa. In pratica si è stati in grado di restringere di molto il periodo del mescolamento, che finora si riteneva avvenuto in una data compresa tra 37 mila e 86 mila anni fa.

Il nuovo periodo del mescolamento coincide quindi al tempo in cui i Sapiens – usciti dall’Africa da dove si erano (ci siamo) evoluti 200 mila anni fa – si trovavano più o meno in Medio oriente.

Ma l’uomo di Usst-Ishim apparteneva a un gruppo di Sapiens che ancora non si era diviso in due rami: uno diretto verso l’Europa e l’altro verso l’Asia centrale e l’Estremo oriente. La nuova scoperta pone interrogativi sugli altri ritrovamenti di fossili di Sapiens in India e in Medio oriente risalenti a 100 mila anni fa.

Ora gli studiosi pensano che dall’Africa sia usciti più «ondate» di Sapiens, ma i primi individui che si diressero a est si estinsero senza lasciare tracce genetiche. Mentre tutti noi deriviamo dagli ultimi gruppi fuoriusciti dal continente africano circa 60 mila anni fa.

Fonte: http://www.ilnavigatorecurioso.it/2014/11/07/neanderthal-sapiens-lincrocio-di-dna-avvenne-50-60-mila-anni-fa/




mercoledì 12 novembre 2014

Nuove Anomalie Ai Confini del Sistema Solare





Lontano lontano, oltre Plutone, al limite estremo del nostro Sistema Solare, dove i telescopi non riescono a vederlo, potrebbe esserci un pianeta mai scoperto prima. A sostenerlo è Rodney Gomez dell'Osservatorio nazionale del Brasile, che ha rilevato anomalie nelle orbite dei cosiddetti oggetti della fascia di Kuiper, la zona del Sistema Solare che si estende al di là dell'orbita di Nettuno.

Negli ultimi anni sono stati scoperti numerosi oggetti della fascia di Kuiper: alcune decine hanno un diametro di qualche centinaio di chilometri, altri sono considerati pianeti nani, come lo stesso Plutone, che con i suoi 2.300 km è stato di recente "declassato" dopo essere stato considerato un pianeta a tutti gli effetti.

Secondo i calcoli di Gomes, l'orbita di alcuni di questi oggetti - compreso Sedna, il più grande tra i pianeti nani - non corrisponde a quella prevista dagli attuali modelli. Le spiegazioni possibili sono diverse, ma Gomes ritiene che la più semplice sia "la presenza di una massa planetaria": un pianeta che orbiti a grande distanza dal Sole ma abbia una massa sufficiente ad avere effetti gravitazionali sugli oggetti della Fascia di Kuiper.

Vagabondo cosmico?

Nella sua ricerca, Gomes ha analizzato l'orbita di 92 oggetti della Fascia di Kuiper, e ha poi paragonato i risultati a modelli computerizzati che simulavano la distribuzione di quegli oggetti sia in caso di presenza sia in quello di assenza del pianeta in più.

Senza il pianeta fantasma, sostiene Gomes, l'orbita allungata di sei degli oggetti della Fascia non coincide con quella prevista dal computer. Non è chiaro quanto dovrebbe essere grande questo pianeta per spiegare le osser, prosegue lo studioso: ci sono diverse possibilità. Potrebbe essere un pianeta grande più o meno come Nettuno (cioè il quadruplo della Terra) che orbitasse a 225 miliardi di chilometri dal Sole (cioè a una distanza 1.500 volte maggiore di quella della Terra); ma anche un oggetto grande come Marte (circa metà della Terra) con un'orbita molto allungata, che di tanto in tanto si avvicinasse a circa otto miliardi di chilometri dal Sole.

Gomez ritiene che l'oggetto misterioso potrebbe essere un pianeta "nomade", espulso dal proprio sistema solare e in seguito catturato dall'orbita del nostro Sole. O al contrario, il presunto pianeta potrebbe essersi formato vicino alla nostra stella, e poi essersi spostato verso orbite più lontane in seguito a incontri gravitazionali con gli altri pianeti.

In ogni caso un pianeta del genere sarebbe molto difficile da osservare direttamente. In primo luogo rifletterebbe pochissimo la luce; inoltre, le simulazioni di Gomes non danno alcuna indicazione su dove gli astronomi dovrebbero puntare i telescopi per vederlo: "Può essere dappertutto", dice lo studioso.

Insufficienza di prove

Altri astronomi sono incuriositi dai calcoli di Gomes ma aspettano prove più consistenti prima di riportare a nove il numero ufficiale dei pianeti del Sistema Solare. "Si tratterebbe di un fatto rilevante", sostiene ad esempio Rory Barnes della University of Washington. "Ma non mi sembra ci siano prove sufficienti. Gomes però ha indicato la strada per capire come un pianeta del genere modificherebbe una parte del nostro Sistema Solare. Quindi, anche se non ha trovato prove della sua esistenza, il fatto più importante è che ci ha mostrato come eventualmente trovare quelle prove.

Anche Douglas Hamilton, astronomo della University of Maryland, ritiene che le nuove osservazioni siano tutt'altro che definitive. "Dopo le osservazioni di Gomes l'esistenza del pianeta è solo un po' più probabile di prima. Non c'è la 'pistola fumante'". Hal Levison, del Southwest Research Institute di Boulder, in Colorado, è ancora più scettico: "Mi sembra improbabile che un pianeta piccolo come Nettuno abbia gli effetti osservati", commenta.


Fonte: http://www.nationalgeographic.it/scienza/spazio/2012/05/14/news/un_nuovo_pianeta_nel_sistema_solare_-1022139/

domenica 19 ottobre 2014

Scoperta la Materia Oscura?





Il documento del professor George Fraser (tragicamente scomparso nel marzo di quest'anno) e i colleghi presso l'Università di Leicester, hanno offerto una prima potenziale indicazione di rilevazione diretta della Materia Oscura, un mistero che in fisica dura da oltre 30 anni.

Gli scienziati dell'Università di Leicester hanno rilevato un curioso segnale nel cielo a raggi X, che fornisce una visione allettante sulla natura della misteriosa materia oscura.
Il team ha trovato quello che sembra essere una firma di "assioni" previsto dalla fisica teorica come indicatore di presenza di materia oscura.
In una pubblicazione tra le , gli scienziati descrivono la scoperta di un segnale che non ha nessuna spiegazione convenzionale.
Il professor George Fraser, che purtroppo è morto nel marzo di quest'anno, ha scritto: "La rivelazione diretta della materia oscura è cercata dalla fisica da oltre trenta anni".
La materia oscura, una sorta di massa invisibile di origine sconosciuta, non può essere osservata direttamente con i telescopi, ma è dedotta dai suoi effetti gravitazionali sulla materia ordinaria e sulla luce. Si ritiene che occupi l'85% della materia totale dell'Universo.
Il dottor Andy Read, anch'egli presso l'Università di Leicester al Dipartimento di Fisica e Astronomia ha detto in merito: "Tuttavia, abbiamo scoperto un segnale nei raggi X, che non ha spiegazione convenzionale, ma è coerente con la scoperta degli assioni"
Questo risultato è stato trovato attraverso un ampio studio di quasi tutto l'intero archivio dei dati provenienti dall'osservatorio a raggi X dell'Agenzia spaziale europea, XMM-Newton, che celebrerà il suo 15° anno in orbita, il prossimo dicembre. Le ricerche precedenti degli assioni, in particolare al CERN e con altri veicoli spaziali in orbita attorno alla Terra, non hanno finora avuto buon esito.
Come spiega il professor Fraser nel documento: "Sembra plausibile che gli assioni, le particelle candidate per la materia oscura, sono infatti prodotte nel nucleo del Sole e effettivamente si convertono ai raggi X nel campo magnetico della Terra".
Si prevede che il segnale dei raggi X a causa degli assioni sarà più grande quando lo si cercherà attraverso il campo magnetico del Sole perché è più forte.
Il Dr. Read conclude: "Queste entusiasmanti scoperte potrebbero essere veramente innovative dando vita ad nuova fisica e potrebbero avere enormi implicazioni, non solo per la nostra comprensione del vero cielo a raggi X, ma anche per identificare la Materia Oscura che domina lamassa del cosmo".
Il Presidente della Royal Astronomical Society professor Martin Barstow, che è Pro-Vice-Cancelliere, capo del College of Science & Engineering e professore di Astrofisica e Scienze Spaziali presso l'Università di Leicester ha detto: "Questo è un risultato sorprendente se confermato, ovvero la prima rilevazione diretta e l'identificazione delle sfuggenti particelle della materia oscura e avrà un impatto fondamentale sulle nostre teorie dell'Universo".
L'osservatorio XMM-Newton, con le sue operazioni e archiviazione dei dati, costituisce una importante collaborazione internazionale nell'ambito dell'Agenzia Spaziale Europea (ESA), gli Stati membri e oltre. Il lavoro di un certo numero di autori sulla taratura di XMM-Newton è stato sostenuto dalla Agenzia Spaziale UK (UKSA).
Traduzione a cura di VitoDP

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2014/10/141016085410.htm

MAVEN analizza l'alta atmosfera di Marte





La navicella spaziale della NASA Mars Atmosphere and Volatile Evolution (MAVEN) ha fornito agli scienziati per la prima volta le immagini di una tempesta di particelle solari energetiche ultravioletti nell'ossigeno, nell'idrogeno e nel carbonio che circondano il Pianeta Rosso, e ha prodotto una mappa globale dell'ozono altamente variabile nell'atmosfera alla base delle corone.

Il veicolo spaziale, è entrato nell'orbita di Marte il 21 settembre e sta riducendo la sua orbita per testarne gli suoi strumenti.
è stato lanciato su Marte nel mese di novembre del 2013, per aiutare a risolvere il mistero di come il pianeta abbia potuto perdere la maggior parte della sua atmosfera.

"Tutti gli strumenti mostrano che la qualità dei dati è migliore di quanto previsto in questa fase iniziale della missione", ha detto Bruce Jakosky, principale ricercatore di MAVEN presso l'Università del Colorado, Boulder.
Le particelle energetiche solari (SEP) sono flussi ad alta velocità espulse dal Sole durante i brillamenti o le espulsioni di massa coronale (CME). Su Marte, si ritiene che possano essere implicate nei meccanismi che hanno permesso la perdita della sua atmosfera.
Un flare solare del 26 settembre ha prodotto un CME che è stato osservato dai satelliti della NASA.

I modelli al computer sulla propagazione delle CME hanno previsto che il disturbo e la SEP avrebberó raggiunto Marte il 29 settembre, infatti Maven è stato in grado di osservare il fenomeno.
"Dopo aver viaggiato attraverso lo spazio interplanetario, queste particelle energetiche per lo più protoni, depositano la loro energia nell'atmosfera superiore di Marte", ha detto Davin Larson del Laboratorio di Scienze Spaziali presso l'Università della California, a Berkeley. E ha aggiunto: "Un evento di settembre come questo si verifica in genere ogni paio di settimane. Una volta che tutti gli strumenti sono accesi, ci aspettiamo anche di monitorare la risposta dell'atmosfera superiore".
Le corone di Idrogeno e Ossigeno marziano sono ai margini estremi della tenue atmosfera superiore, dove il bordo dell'atmosfera incontra lo spazio.
In questa regione, gli atomi che una volta erano una parte di anidride carbonica o acqua molecolare vicino alla sua superficie, possono sfuggire nello spazio. Queste molecole controllano il clima, permettendo di comprendere la storia di Marte negli ultimi 4 miliardi anni e di tracciare il passaggio da un clima caldo e umido a quello freddo e secco attuale.

MAVEN ha osservato i bordi dell'atmosfera marziana tramite l'Imaging Spectrograph ultravioletta (IUVS), che è sensibile alla luce solare riflessa da questi atomi.
"Con queste osservazioni, IUVS Maven ha ottenuto il quadro più completo dell'alta atmosfera marziana mai fatto", ha detto Mike Chaffin della University of Colorado a Boulder. "Misurando l'atmosfera superiore estesa del pianeta, MAVEN sonda direttamente come questi atomi sfuggono allo spazio.
Le osservazioni supportano la nostra comprensione attuale che l'atmosfera superiore di Marte, rispetto a Venere e la Terra, è solo debolmente vincolato dalla debolezza della sua gravità".

IUVS anche creato una mappa dell'Ozono atmosferico su Marte rilevando l'assorbimento di luce ultravioletta dalla molecola.
"Con queste mappe abbiamo il tipo di copertura completa e simultanea di Marte che di solito è possibile solo per la Terra", ha detto il membro del team di telerilevamento Justin Deighan della University of Colorado a Boulder. "Sulla Terra, la distruzione dell'ozono da CFC dei frigoriferi è la causa del buco dell'ozono polare. Su Marte, l'ozono è altrettanto facilmente distrutto dai sottoprodotti della ripartizione del vapore acqueo sottoposti alla luce solare ultravioletta. Il monitoraggio dell'ozono ci permette di tracciare i processi fotochimici che si svolgono nell'atmosfera marziana". La missione ha lo scopo di avviare la raccolta completa di dati nella prima metà di novembre.

Il team di ricerca principale di Maven ha sede presso l'Università del Laboratorio di Colorado for Atmospheric and Space Physics. L'università ha fornito due strumenti scientifici e conduce operazioni scientifiche, così come l'istruzione e la sensibilizzazione del pubblico, per la missione. L'Università della California a Space Sciences Laboratory di Berkeley ha anche fornito quattro strumenti scientifici per la missione. Della NASA Goddard Space Flight Center di Greenbelt, nel Maryland, gestisce il progetto MAVEN e ha fornito due strumenti scientifici per la missione. Lockheed Martin ha costruito il veicolo spaziale ed è responsabile per le operazioni di missione. Il Jet Propulsion Laboratory della NASA a Pasadena, in California, offre la navigazione e il supporto Deep Space Network, così come l'hardware Electra relè di telecomunicazioni e le operazioni.

Traduzione a cura di VitoDP

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2014/10/141014150302.htm


lunedì 14 luglio 2014

Fascia di abitabilità anche per i sistemi binari

Esopianeti, rendering artistico. Crediti: NASA.

Si chiama OGLE-2013-BLG-0341LBb, si trova a 3.000 anni luce da qui ed è freddissimo. Ma è anche il primo esopianeta potenzialmente abitabile a viaggiare sull'orbita di un sistema binario: una scoperta che ampia gli orizzonti di ricerca per pianeti di tipo terrestre al di fuori del Sistema Solare.

Non sappiamo se il gruppo di ricerca internazionale guidato dal professor Andrew Gould della Ohio State University abbia aspettato di proposito il 4 luglio per pubblicare la sua ricerca sulle colonne di Science, ma sembra meritarsi, almeno a una prima occhiata, tutti i fuochi d’artificio per la Giornata dell’Indipendenza.

OGLE-2013-BLG-0341LBb, un pianeta individuato nell'aprile 2013 e appartenente a un sistema stellare binario a 3.000 anni luce dalla Terra, risponderebbe ai requisiti di abitabilità: una scoperta che allarga la ricerca di esopianeti a sistemi stellari cui appartengono almeno la metà dei ‘soli’ che illuminano la Galassia.

Il pianeta si è rivelato agli occhi attenti dell’Optical Gravitational Lensing Experiment (OGLE), il progetto astronomico polacco con base all'Università di Varsavia e che si occupa principalmente di materia oscura usando la tecnica delle micro-lenti gravitazionali.

“Prima dell’oscuramento dovuto al passaggio del pianeta di fronte alla stella attorno cui orbita,pensavamo a un semplice fenomeno di microlensing dovuto a una seconda stella a circa 20.000 anni luce da Terra, nella costellazione del Sagittario”, spiega Gould.

Invece si tratta di un pianeta che ha due volte la massa della Terra e orbita attorno a una delle stelle che appartengono al sistema binario, quasi alla stessa distanza che separa il Sole dal pianeta che abitiamo. Tuttavia, dal momento che la stella ospite è di gran lunga più debole del Sole, il pianeta ‘gode’ di un clima decisamente più rigido di quello terrestre e che tutt'al più ricorda le lune ghiacciate di Giove.

Lo studio fornisce di fatto le prime evidenze scientifiche dell’esistenza di esopianeti con orbite simili a quella della Terra, anche in sistemi binari dove le stelle non distano molto l’una dall'altra. E anche se OGLE-2013-BLG-0341LBb è troppo freddo per poter ospitare la vita, non è sbagliato dire che si trovi esattamente nella fascia di abitabilità del sistema stellare.

“Questa scoperta amplia notevolmente il nostro orizzonte di ricerca in fatto di esopianeti abitabili in un prossimo futuro”, sostiene Scott Gaudi, docente della Ohio State University. “Metà delle stelle nella nostra galassia appartengono a sistemi binari. Non avevamo idea che pianeti simili al nostro potessero originarsi anche in queste condizioni e all'interno della fascia di abitabilità”.

Certo andare a caccia di esopianeti all'interno di sistemi binari non è quello che si dice un gioco da ragazzi: la luce della seconda stella rende difficoltosa l’interpretazione dei dati. “Con le micro-lenti gravitazionali però – spiega Gould – ci è possibile concentrare l’attenzione su come la gravità del sistema stella-pianeta vada a influire sulla stella più lontana”.

Uno strumento in più nella ricerca di pianeti in sistemi binari: “Ora sappiamo che con le microlenti gravitazionali possiamo scoprire esistenza, massa e distanza di pianeti lontani senza doverci per forza affidare al transito di fronte alla stella”, taglia corto Gaudi.

OGLE-2013-BLG-0341LBb percorre un’orbita distante circa 90 milioni di chilometri dalla stella di riferimento. Stella che è 400 volte meno luminosa del nostro Sole. La temperatura media sul pianeta è di -213° Celsius. La seconda stella del sistema binario dista dalla prima una lunghezza pari a quella che c’è fra Saturno e il Sole, ed è piuttosto debole.

sabato 12 luglio 2014

E’ il serpentino che scurisce Vesta?

dawn at vesta

Secondo un'indagine guidata da scienziati del Max Planck Institute for Solar System Research, sarebbero stati gli impatti con piccoli asteroidi ricchi di carbonio a creare le zone di materiale scuro sulla superficie dell'asteroide Vesta individuati dalla sonda DAWN

La presenza di materiale scuro su alcune zone della superficie dell’asteroide Vesta, scoperta grazie alla sonda DAWN della NASA nel 2011, ha da subito catturato l’attenzione degli scienziati, che hanno sollevato varie ipotesi sulla sua natura. Una delle più accreditate è quella di detriti di impatti con piccoli asteroidi caduti nel passato sul corpo celeste. Un nuovo studio pubblicato sulla rivista Icarus indica la possibilità che si sia verificato questo scenario. Andreas Nathues del Max Planck Institute for Solar System Research e i colleghi del suo team sembrerebbero aver individuato, tra gli elementi che compongono questa sostanza scura, anche il serpentino. Questo minerale si decompone a temperature superiori a 400 gradi celsius e quindi la sua presenza sulla superficie di Vesta, secondo i ricercatori, non potrebbe essere attribuibile a fenomeni vulcanici nel passato geologico dell’asteroide. L’alternativa proposta è che il serpentino sia stato rilasciato a seguito di impatti con asteroidi più piccoli e ricchi di carbonio. Ma i ricercatori sottolineano anche che questi impatti devono essere avvenuti con velocità relativamente basse, altrimenti l’energia rilasciata negli scontri avrebbe prodotto temperature sufficientemente elevate da trasformare il serpentino presente nei meteoriti caduti su Vesta.

“Si tratta senza dubbio di un lavoro interessante, di cui si dovrà tenere conto negli studi a venire sui materiali scuri di Vesta” commenta Andrea Longobardo, dell’INAF-IAPS di Roma. “I risultati delle analisi morfologiche e spettrali del gruppo di Nathues tendono a favore dell’ipotesi che il materiale scuro è sostanzialmente esogeno e portato su Vesta attraverso impatti con meteoriti composte da condriti carbonacee di tipo CM, simili a quella del famoso meteorite Murchison caduto in Australia nel 1969. Questo conferma le deduzioni emerse dai diversi lavori del nostro gruppo, basati su simulazioni e confronti con spettri di laboratorio.

La rivelazione della banda del serpentino, silicato presente nelle CM, sarebbe il colpo di grazia finale per le altre ipotesi. E’ tuttavia lecito attendersi ulteriori conferme della presenza di questo silicato, magari basate su analisi ad una risoluzione spettrale migliore di quella permessa dalla Framing Camera”. E’ cauta anche Maria Cristina De Sanctis, team leader dello spettrometro VIR a bordo di DAWN: “quella proposta dai ricercatori è una possibile interpretazione, ma non l’unica né quella definitiva. C’è ancora da indagare per scoprire con certezza la natura e l’origine di questo materiale scuro”.

di Marco Galliani

venerdì 11 luglio 2014

Un'idea per rimuovere la spazzatura galattica


Dal 1957, anno di lancio dello Sputnik 1, lo spazio ha cominciato a riempirsi di migliaia di satelliti dagli usi più svariati—dalle telecomunicazioni ai fini militari.  E mentre le modalità di lancio venivano studiate nei minimi dettagli, nessuno si è mai posto il problema di quale sarebbe stato il destino dei satelliti guasti o che semplicemente avevano finito la propria missione. La risposta, nella maggior parte dei casi, è che i satelliti rimangono lassù fino a quando l’attrazione terrestre non li farà schiantare sul pianeta. 

I rischi di avere migliaia di satelliti inattivi in orbita—che spesso si sfaldano trasformandosi in piccole tempeste di rottami alla deriva—sono considerevoli. L’impatto con uno di essi può essere devastante per i satelliti attivi, o per veicoli spaziali di grandi dimensioni come la Stazione Spaziale Internazionale, che ha dovuto attivare un sistema di elusione per non farsi distruggere dalla spazzatura galattica. Accanto ai costi economici, ci sono quelli ambientali e di sicurezza: i satelliti "defunti" che tornano a Terra possono fare danni o contaminare l’ambiente con il loro propellente. 

Per questo un’impresa italiana, la D-Orbit , ha creato un dispositivo per evitare che il problema si perpetui in futuro. Il funzionamento di D-Orbit è semplice: “Si tratta, in sostanza, di un petardo di cinquanta centimetri”, mi ha spiegato al telefono uno dei fondatori dell’azienda, Renato Panesi. “Un motore a razzo alimentato da propellente solido, dotato di un’unità di controllo per manovrarlo, e di un apparato di comunicazione con la Terra”.   

L’idea è che D-Orbit sia montato sul satellite prima del lancio, rimanendo inattivo fino alla fine della missione. A quel punto sarà attivato, i tecnici ne orienteranno la traiettoria per pilotarne la caduta in un luogo sicuro e il razzo si accenderà, riportando il satellite inattivo a Terra.  

In altri casi, quando il satellite è troppo grande e pesante, verrà sparato romanticamente nello spazio profondo, dove vagherà in eterno, inoffensivo. (Off-topic: il pensiero di un enorme cimitero interstellare dei satelliti potrebbe fornire materiale agli scrittori di fantascienza per i prossimi cent’anni). 

Com’è evidente, più che risolvere il problema attuale, D-Orbit mira a scongiurare una crisi futura. “Si calcola che i satelliti spediti in orbita fino a oggi siano 6mila, di cui solo 1100 sono operativi”, ha detto Panesi. “ Se non si agisce ora, la situazione può solo peggiorare, e per ogni nuovo satellite il rischio di collisione aumenterà. Questo comporterà anche costi legali, perché se un satellite alla deriva fa qualche danno, a dover pagare è l’impresa che l’ha lanciato.” 

D-Orbit potrebbe fare il suo debutto già nel 2015, a bordo di un satellite spedito in orbita per fini di ricerca; ma è probabile che in futuro tutti i satelliti ne sfoggeranno uno. 

Il pasticcio dell’affollamento delle orbite, infatti, non è sfuggito alle autorità internazionali. Già alla fine degli anni Novanta, le maggiori agenzie spaziali, riunite nel Comitato Internazionale sui Detriti Spaziali (IADC) avevano stabilito che ogni satellite avrebbe dovuto essere riportato a terra, o comunque “de-orbitato”, dopo 25 anni dal lancio.  Molti degli aderenti al patto se ne sono classicamente infischiati, ma, recentemente, la Francia ha approvato una legge che stabilisce che tutti i satelliti di grandi dimensioni debbano avere un meccanismo di deorbitazione a bordo. Visto il gran numero di satelliti lanciati ogni anno dalla base spaziale della Guyana Francese, questo provvedimento costringerà molte compagnie ad adeguarsi.   

Adesso, la squadra di D-Orbit, capitanata dall’ingegner Luca Rossettini, sta lavorando al passaggio successivo: rimuovere i satelliti che sono già lassù. 

“Siamo in fase di brain-storming per escogitare un sistema di recupero dei satelliti defunti” mi ha detto Panesi. “Per quanto riguarda il recupero delle macerie, invece, è difficile dire se riusciremo a trovare una soluzione in tempi brevi. Sono troppe, troppo piccole, e difficili da localizzare. Alcuni, in passato, avevano pensato di usare delle reti, o delle calamite, ma, al momento, non c’è nessun vero rimedio”.  

Titano nasconde un oceano salatissimo


Con ogni nuova scoperta Titano, il satellite di Saturno, si fa più interessante (e misterioso). Gli ultimi dati inviati dall'orbiter di Cassini, missione spaziale della NASA, hanno confermato che non solo c'è un oceano al di sotto della superficie del satellite, ma è possibile che sia salato quanto il Mar Morto. 

Gli studiosi che si occupano di Titano hanno dedotto che quest'oceano sotterraneo è estremamente salato grazie ai report sulla forza di gravità e sulla topografia del territorio frutto degli ultimi dieci anni di osservazioni. I dati sulla forza di gravità hanno portato a ipotizzare l'alta densità dell'oceano sotterraneo, il che significa che nelle sue acque deve essere presente un certo numero di elementi. 

I candidati più probabili sono il solfuro, il sodio e il potassio, i quali si sciolgono molto facilmente in acqua, e lo fanno a un livello di concentrazione in grado di spiegare i dati gravitazionali. Questi livelli di concentrazione renderebbero l'oceano molto molto salato. 

“Quest'oceano è estremamente salato per gli standard terrestri,” afferma Giuseppe Mitri dell'Università di Nantes, in Francia. “Questa nuova ipotesi potrebbe cambiare il nostro modo di considerarlo come possibile dimora per gli organismi viventi; anche se è probabile che la situazione non sia sempre stata così".

Un oceano sotterraneo estremamente salato potrebbe spiegare anche altre caratteristiche osservate di Titano, come lo spessore della crosta del satellite. Gli strati di superficie ghiacciata sembrano avere uno spessore variabile. Se lo strato più esterno risultasse duro, potrebbe essere spiegato come un effetto della lenta glaciazione e cristallizzazione dell'oceano salato sotterraneo, che avrebbe quindi creato uno strato irregolare di ghiaccio formatosi con acqua salata. È la spiegazione più plausibile; se così non fosse, il materiale della superficie si congelerebbe regolarmente, e, nel corso del tempo, la luna di Saturno sarebbe diventata una sfera liscia e regolare. 

E, certamente, un oceano sotterraneo salato quanto il Mar Morto cambierebbe il modo in cui gli scienziati studiano la luna di Saturno. Un lento processo di congelamento di un oceano salato, e anche la salinità stessa dell'oceano, limiterebbe ogni scambio di materiali tra l'oceano e la superficie, e probabilmente avrebbe effetti sugli organismi viventi (se ci sono) che potrebbero aver vissuto sotto lo strato ghiacciato. 

L'oceano salato sotterraneo è anche implicato in uno dei più grandi misteri che riguardano Titano: la presenza del metano nell'atmosfera del satellite. Gli scienziati sanno da molto tempo che l'atmosfera della luna di Saturno possiede alti livelli di metano, etano e acetilene, e altre combinazioni di idrocarburi. 

A essere sorprendente è l'alto livello di metano, perché la luce solare distrugge in modo irreversibile questo elemento dopo dieci milioni di anni, quindi ci si chiede in che modo si sia formato il metano nei 4,5 miliardi di anni di vita di Titano. I ricercatori stanno ora considerando se il degassamento di metano nell'atmosfera di Titano sia avvenuta in modo irregolare in determinati “punti caldi”, come quello che sulla Terra che ha dato origine alle isole Hawaii, o se invece si tratti di un più lungo processo regolare come la convezione o i movimenti tettonici. 

“Titano continua a confermarsi un mondo infinitamente affascinante,” afferma Linda Spilker, scienziata che si occupa del progetto Cassini al Jet Propulsion Laboratory della NASA. “Con un mezzo spaziale così longevo, Cassini, stiamo scoprendo misteri sempre nuovi mentre ne risolviamo degli altri."

Tra i misteriosi livelli di metano nell'atmosfera e un probabile Mar Morto sotterraneo, abbiamo davvero bisogno di una missione che abbia come meta Titano per capire cosa succeda sopra (e sotto) la sua superficie. 

mercoledì 9 luglio 2014

Il radiotelescopio LWA ascolta le meteore

Tutte le 256 antenne della stazione LWA-1 del Long Wavelength Array, nel New Mexico central. Crediti: LWA Project (UNM)

Cercando il bagliore residuo dei lampi gamma, hanno trovato l’inaspettata emissione radio delle meteore. La scoperta con il nuovo radiotelescopio LWA, Long Wavelength Array, in New Mexico.

A prima vista sembra una coltivazione di alberi di Natale albini nell’arido altopiano centrale del Nuovo Messico, ma le 27 antenne paraboliche del radiotelescopio VLA che si stagliano sullo sfondo richiamano immediatamente alla memoria Jodie Foster in caccia di segnali alieni nel film Contact, l’adattamento cinematografico dell’omonima novella dell’astrofisico Carl Sagan. Anche i candidi arbusti sono dunque antenne, 256 dipoli collegati assieme a formare un unico radiotelescopio che, con la consueta sobrietà, è stato chiamato LWA1, ovvero la stazione numero 1 del progetto LWA, Long Wavelength Array. Completato nel 2012, LWA1 è progettato per l’osservazione delle onde radio con frequenze comprese tra 25 e 75 MHz prodotte da esplosioni di raggi gamma (GRB), uno dei fenomeni più energetici dell’Universo, presumibilmente associati al collasso di stelle in rapida rotazione a formare stelle di neutroni e buchi neri.

I lampi gamma sono solitamente seguiti da un bagliore (afterglow) a lunghezze d’onda più lunghe, dai raggi X fino alle onde radio. Proprio la componente radio è quella meno osservata, quindi è comprensibile una certa aspettativa per i dati di LWA, che produce immagini dell’intero cielo radio. I ricercatori dell’Università del New Mexico (UNM), guidati da Greg Taylor, responsabile di LWA, spulciando pazientemente le prime 11.000 ore di osservazioni fatte con LWA1, si sono trovati di fronte qualcosa d’inatteso. Hanno infatti trovato ben 49 “transienti lunghi” – dei fenomeni occasionali che hanno dato origine a segnali radio durati non meno di una trentina di secondi – che non corrispondevano con i lampi gamma osservati nello stesso periodo. Se non erano l’eco di un fenomeno violento e lontano, cosa produceva allora quelle tracce radio?

Immagine radio (ripulita dalle sorgenti costanti per chiarezza) ottenuta da LWA1 a 38 MHz il 21 gennaio 2014 di una rara meteora che ha lasciato una scia brillante durata oltre un minuto. Crediti: LWA
Immagine radio (ripulita dalle sorgenti costanti per chiarezza) ottenuta da LWA1 a 38 MHz il 21 gennaio 2014 di una rara meteora che ha lasciato una scia brillante durata oltre un minuto. Crediti: LWA


Ken Obenberger, lo studente UNM incaricato dell’analisi dati e primo autore dello studio pubblicato su The Astrophysical Journal Letters, ha intuito che si trattava di qualcosa di ben più domestico. Convinzione che si è consolidata il 21 gennaio 2014, quando sugli schermi di LWA1 si è disegnata una traccia che, in meno di 10 secondi, ha coperto più di 90° di cielo, prima di affievolirsi gradualmente in una novantina di secondi. “La sola sorgente conosciuta che possa coprire una tale distanza in cielo in meno di 10 secondi lasciando una traccia persistente è una meteora”, racconta Obenberger.

Ma come fare a provare l’idea che fossero proprio delle meteore a lasciare quelle tracce radio, una cosa che nessuno aveva mai osservato prima? Il gruppo di ricerca ha comparato la posizione dei segnali transienti con i dati provenienti dal All Sky Fireball Network, un sistema di sorveglianza della NASA composto da 12 telecamere che registrano la posizione, velocità, luminosità e massa dei bolidi che solcano il cielo. Due delle telecamere sono collocate proprio in New Mexico e quindi sorvegliano la stessa parte di cielo vista da LWA1. Dall'analisi è risultato che 39 dei 49 oggetti transienti rilevati da LWA1 non sono stati visti dalla rete NASA, perché erano fuori campo o perché gli eventi si sono verificati di giorno. Fra i rimanenti, 5 corrispondo abbastanza bene con bolidi relativamente luminosi rilevati dalla All Sky Fireball Network. Dai conti di Obenberger e colleghi risulta che questa non può essere una mera coincidenza: sono proprio le “stelle cadenti” a “trasmettere” in onde radio.

Crediti: Jackie Monkiewicz
Crediti: Jackie Monkiewicz


E’ una scoperta affascinante, che innesca immediatamente una serie di domande, di cui la principale è ovviamente quale tipo di meccanismo fisico faccia produrre ai bolidi onde radio in bassa frequenza. Una possibilità è che si tratti semplicemente di riverberi, cioè che la scia lasciata dalle meteore rifletta delle onde radio prodotte al suolo, un fenomeno ben conosciuto e utilizzato in passato per la loro localizzazione. Ma Obenberger e colleghi la pensano diversamente. Le trasmissione umane sono usualmente polarizzate, come dovrebbe esserlo il relativo segnale riflesso, ed hanno spettri facilmente identificabili, ma il gruppo di ricerca non ne ha trovato traccia. “La nostra conclusione è dunque che le scie delle meteore producono radiazioni di bassa frequenza”, affermano i ricercatori in coro, mentre cercano di offrire qualche spiegazione a questo fenomeno sconosciuto. Hanno calcolato che l’energia radio totale emessa è una minuscola frazione dell’energia cinetica di una meteora tipica, quindi l’energia non pone grossi problemi teorici. Inoltre, anche se è vero che le meteore producono una scia di plasma, il team ha calcolato che il plasma sarebbe troppo freddo per generare onde radio a queste frequenze solo dall'emissione termica. Quindi, ci deve essere qualcos'altro che fa emettere le scie. Un “qualcosa” che al momento rimane un mistero della fisica.


Riferimento: Detection of Radio Emission from Fireballs, arxiv.org/abs/1405.6772

A cura di Stefano Parisini

domenica 22 giugno 2014

Brasile, Frana Favela di Mae Luisa








Una voragine enorme si è aperta in una favela a pochi chilometri dallo stadio di Natal in cui giocheranno l'Italia e l'Uruguay, per la terza sfida del girone a punti del mondiale di calcio.

Trapelano alcune indiscrezioni di preoccupazione per il regolare svolgimento della gara, ma non ci sono comunicati ufficiali che ne smentiscono il rinvio.








La zona a ridosso dei quartieri benestanti è stata evacuata poiché la voragine ha inghiottito case e automobili.
La terra è stata letteralmente risucchiata su se stessa nella favela di Mae Luisa dopo le forti piogge dei giorni scorsi, ma il cratere profondo una quindicina di metri si è andato allargando.

Forse un segno del destino che accende i riflettori su una delle grandi vergogne del Brasile, in cui milioni di persone vivono in baracche senza alcun servizio di prima necessità, proprio a ridosso di lussuosi grattacieli di altri cittadini benestanti.

Il Brasile ha di fatto investito miliardi di dollari per le partite, soldi con i quali poteva per sempre risolvere il problema della disperazione di questi diseredati che affollano le periferie delle grandi metropoli carioca.

Attenti italiani, questo ci aspetta se andremo avanti di questo passo.


sabato 21 giugno 2014

Arriva La Mini Turbina Eolica Domestica



Si chiama Liam F1 la miniturbina eolica domestica. Ideata dalla the Archimedes, società con sede a Rotterdam, pensata per dare la possibilità di generare energia eolica privatamente in abitazioni e palazzi.
La turbina ha una capacità di conversione all'80%, mentre la media di conversione delle turbine tradizionali va dal 25 al 50%. Fatttore, questo, che sarebbe dovuto alla particolare forma che si basa sulla conchiglia nautilus, così da avere la minima resistenza meccanica e girare molto liberamente e silenziosamente.

Ha dimensioni contenute (con un diametro di circa 1,5 m.) e può garantire una produzione media di energia tra i 300 e i 2.500 KW l'anno, che varia a seconda della velocità del vento e dell'altezza del tetto.
Liam F1 può essere installata da sola (una o più turbine) o abbinata ad un impianto solare, per differenziare i sistemi di produzione.
La turbina è in vendita ad un prezzo di 3.999 euro, e presto sarà disponibile anche una versione ridotta.


Fonte



martedì 17 giugno 2014

Fusione nucleare low-cost





Un progetto privato di fusione nucleare a basso costo cerca nuovi investitori. Sul piatto, un sistema di confinamento del plasma ad alta pressione che sembra funzionare, secondo una ricerca a cui ha partecipato anche l’italiano Giovanni Lapenta, professore all’Università Cattolica di Leuven, in Belgio.

Molti ritengono che riuscendo a controllare la fusione termonucleare, lo stesso matrimonio atomico che fa ardere il sole e l’altre stelle, si risolverebbero la maggior parte dei problemi energetici dell’umanità, senza sporcare ulteriormente il pianeta. Tuttavia la strada per arrivare a tale risultato sembra ancora lunghissima e costosa. Per esempio, il grande reattore sperimentale del progetto internazionale ITER costerà non meno di 15 miliardi di euro e sarà pienamente operativo attorno al 2030.

La fusione nucleare richiede temperature elevatissime (milioni di gradi) del plasma, che deve essere perciò “confinato”. Per ITER il confinamento del plasma sarà ottenuto in un campo magnetico all'interno di una macchina denominata Tokamak, ma sono possibili ed esistono altri metodi. Uno di cui si sa abbastanza poco è la fusione Polywell, un nome che deriva dall'unione delle parole “poliedro” e “buca di potenziale” (potential well). La tecnologia, molto più economica delle altre, è stata sviluppata dalla EMC2 Fusion Development Corp, una ditta statunitense finora piuttosto defilata dai riflettori a causa di clausole di segretezza imposte dal suo principale finanziatore, la Marina militare americana, che ha investito nel progetto una dozzina di milioni di dollari. Ora però il flusso di denaro si è interrotto e l’azienda scopre le sue carte in cerca di nuovi investitori, proponendo un programma di ricerca triennale da 30 milioni di dollari per verificare se la tecnologia Polywell sia, o meno, la strada più rapida per ottenere a prezzo conveniente energia da fusione nucleare.

“L’obbiettivo è quello di ottenere un insieme di dati concreti che ci permettano di decidere se, quando e come potremo costruire un dispositivo a fusione”, ha dichiarato in proposito alla NBC News, Jaeyoung Park, il presidente e capo della ricerca della EMC2 Fusion. Park e soci non hanno mai ottenuto energia da fusione nucleare Polywell, ma ritengono di essere sulla buona strada. Con il loro dispositivo sperimentale WB-8 sono infatti riusciti a validare l’effetto di confinamento Wiffle-Ball, così chiamato perché la forma che assume il campo magnetico prodotto dal reattore assomiglia a una palla di plastica perforata, usata negli USA per l’omonimo sport.

Questo è uno degli aspetti meno “ortodossi” della tecnologia e dei fattori chiave per il suo eventuale successo. I dispositivi Wiffle-Ball possono spingere il confinamento fino a valori di pressioni irraggiungibili da apparecchi come ITER, permettendo in teoria di progettare reattori molto compatti e meglio controllabili. Proprio l’effetto di confinamento ad alta pressione è descritto nell'articolo scientifico pubblicato in anteprima su ArXiv con primo firmatario Park. Alla ricerca ha partecipato anche un italiano, Giovanni Lapenta, professore di Space Weather all'Università Cattolica di Leuven, in Belgio.

“Il mio coinvolgimento”, ha spiegato Lapenta a Media INAF, “è stato quello di fornire parte del contributo teorico sulla fisica dell’esperimento e la gran parte del supporto di simulazione su super-computer. Abbiamo infatti sviluppato un metodo e condotto svariate simulazioni dei processi poi confermati nell'esperimento. In particolare, abbiamo sviluppato la prima simulazione mai prodotta dell’effetto che conduce a quella che viene chiamata Wiffle-Ball, che poi l’esperimento ha realmente osservato. Il lavoro procede ancora e speriamo presto di pubblicare un articolo specifico sulla parte teorica.”

Non è possibile sapere a questo punto se un reattore Polywell funzionante sarà mai costruito, però è interessante appuntarsi, a futura memoria, un paio di dati propagandati della EMC2 Fusion. Un generatore da 100 Mega Watt risulterebbe delle dimensioni di un cubo di 3 metri di lato e un primo prototipo costerebbe “soltanto” 350 milioni di dollari, che scenderebbero a 200 milioni con la produzione in serie. Non male per un’energia pulita.




Fiutando metano su altri mondi

L'atmosfera di un esopianeta illuminata dalla stella del sistema di appartenenza nel rendering di un illustratore. Crediti: ESA.

I ricercatori dello University College di Londra hanno sviluppato un nuovo spettro di assorbimento del metano, 2.000 volte più completo e in grado di rilevare la molecola a temperature altissime: potrebbe essere lo strumento giusto per trovare la vita su altri mondi.

C’è odore di gas. Diciamo allarmati quando il nostro naso intercetta il caratteristico odore agliaceo di metano nella nostra cucina. Controlliamo le manopole dei fornelli. Apriamo le finestre. Forse non tutti sanno però che la ‘puzza’ che sentiamo in questi frangenti non ha niente a che fare con la molecola CH4. Quello che annusiamo è l’odorizzante, un profumo chimico che dal 1971 viene aggiunto per legge a sostanze inodori come il metano per renderle immediatamente riconoscibili e, soprattutto, individuabili. Non si scherza col fuoco.

Ma che dire se il metano è anche la molecola organica, considerata uno dei mattoni della vita, che potrebbe essere risolutiva per trovare la vita oltre la Terra, nell'Universo che ci circonda? Bisogna avere naso. E naso fino per riconoscere il profumo di vita su altri mondi.

Gli astronomi hanno però un nuovo e potente strumento per fiutare metano su questi pianetialieni. Utilizzando alcuni dei super-computer più avanzati nel Regno Unito, forniti dal progetto Distributed Research Utilizing Advanced Computing (DiRAC) della Cambridge University, un team di scienziati ha sviluppato un nuovo spettro di assorbimento del metano: 2.000 volte più completo rispetto ai modelli precedenti e in grado di rilevare la molecola a temperature altissime, fino a 1.220 gradi Celsius.

“Stavamo aspettando questo studio da dieci o vent'anni”, ha commentato a caldo Sara Seager del Massachusetts Institute of Technology e astrofisica esperta in esopianeti. “Ogni molecola assorbe la luce in maniera diversa. È così che gli astronomi, osservando come l’atmosfera di un pianeta extrasolare assorbe la luce della sua stella, possono identificare di quali molecole siano composte le atmosfere di questi mondi alieni. Prima di oggi, però, nessuno si era preso la briga di calcolare nel dettaglio come le molecole di metano assorbano la luce a temperature così elevate”.

I nuovi calcoli – pubblicati dal team di ricerca guidato da Sergei Yurchenko, ricercatore in fisica e astronomia dello University College di Londra, negli Atti della National Academy of Sciences – hanno portato in elenco quasi 10 miliardi di linee spettroscopiche, ognuna delle quali rappresenta un colore diverso in cui il metano è in grado di assorbire la luce.

È convinzione dei ricercatori che il nuovo modello potrebbe dare agli astronomi un quadro più completo dell’abbondanza di metano su nane brune e pianeti extrasolari. Yurchenko e colleghi hanno scoperto, per esempio, che un esopianeta a 63 anni luce di distanza dalla Terra e già oggetto di molti studi – la sua sigla è HD 189733b – potrebbe avere anche venti volte più metano di quanto si credesse. Certo il metano è solo uno degli elementi che compongono l’atmosfera infernale di questo lontano pianeta dove la temperatura sale tranquillamente sopra i 900 gradi durante il giorno e la pioggia scende in forma di vetro fuso, ma quel che conta è disporre di un dato più preciso, che prima era ignorato.

Il metano può essere risultato di fonti geologiche, ma non è escluso che possa anche essere un segno di attività biologica. Trovare metano nell'atmosfera di un pianeta può quindi essere un segnale potenziale di vita.

“Non credo che gli astronomi troveranno mai la vita su un pianeta ostile come HD 189733b, vero è che con le tecnologie attuali gli scienziati sono spesso bloccati riguardo i mondi caldi”, spiega Yurchenko. I pianeti gioviani caldi sono relativamente facili da individuare, perché sono giganti dall'orbita stretta e bloccano gran parte della luce passando davanti alla stella madre. “Se fin da ora impariamo qualcosa su questi oggetti che possiamo osservare facilmente, allora forse possiamo farci un’idea migliore degli oggetti che ancora si nascondo ai nostri occhi”, conclude Yurchenko.

L’Exoplanet Characterization Observatory di ESA e il James Webb Space Telescope NASA potranno certo dirci qualcosa di più su questi mondi lontani. Nell’attesa vale la pena di restare a fiutare l’aria come la Cleopatra di Pascal: se il suo naso fosse stato più corto, tutta la faccia della terra sarebbe cambiata.
di Davide Coero Borga

lunedì 16 giugno 2014

Oceani d’acqua nelle viscere della Terra


A 600 km sotto la superficie terrestre, là al confine fra il mantello superiore e quello inferiore, sembra esserci una quantità d’acqua pari a tre volte quella contenuta in tutti gli oceani. Sarebbe racchiusa nella ringwoodite, un minerale blu scoperto in un meteorite. Lo studio su Science.

Quando leggiamo di oceani d’acqua sotterranei nel Sistema Solare, dopo la scoperta di quelli d’Europa e di Encelado il pensiero corre subito alle lune di remoti giganti gassosi. E invece, questa volta, la riserva d’acqua potrebbe trovarsi sorprendentemente vicino a noi: proprio qui sulla Terra, a circa 600 km di profondità nel sottosuolo degli Stati Uniti. Praticamente sotto ai nostri piedi. E che riserva: secondo le stime dei ricercatori, l’equivalente di tre volte la quantità d’acqua presente in tutti gli oceani del nostro pianeta, litro più litro meno.

A dire il vero, il litro non è l’unità di misura più adeguata per quantificare la nuova scoperta, pubblicata oggi su Science da un team di scienziati della Northwestern University e della University of New Mexico. E non tanto perché di litri ce ne vorrebbero troppi, quanto per l’anomalo stato di quest’acqua sotterranea: non è vapore, non è ghiaccio e non è nemmeno liquida.

Dunque che aspetto e consistenza dovrebbe avere? Per comprenderlo, conviene partire dal passato recente, e per l’esattezza dal 1879, quando un asteroide precipita sul Queensland occidentale, in Australia. I frammenti che ne risultano, noti come meteoriti di Tenham (dal nome della località colpita), mostrano deformazioni che lasciano intuire l’azione di pressioni straordinarie. Una caratteristica che li rende da subito preziosi per i geologi, ai cui occhi quei frammenti appaiono, più che messaggeri dallo spazio, una testimonianza indiretta di quanto potrebbe celarsi nelle viscere impenetrabili del nostro pianeta.

Ed è proprio analizzando i resti del meteorite di Tenham che circa un secolo più tardi, nel 1969, viene identificato un minerale fino ad allora sconosciuto: la ringwoodite. D’un blu intenso come zaffiri, i cristalli di ringwoodite potrebbero essere presenti in grandi quantità nel mantello terrestre, ipotizzano da subito gli scienziati. Un sospetto destinato a rimanere tale fino all'aprile scorso, quando un articolo su Nature annuncia il rinvenimento, in Brasile, d’un altro piccolo frammento di ringwoodite. Ma questa volta non arriva dallo spazio: si tratta finalmente di un messaggero proveniente dal cuore del nostro pianeta, giunto in superficie grazie a un’eruzione vulcanica. Il primo, e fino a oggi l’unico, frammento di ringwoodite d’origine terrestre.

Già da quelle prime analisi s’ipotizza la presenza di acqua a grandi profondità. Intrappolate nei cristalli di ringwoodite, infatti, gli scienziati osservano tracce di radicale ossidrile, conseguenza della scissione subita dalle molecole d’acqua a causa della pressione enorme e di temperature attorno ai mille gradi presenti nella “zona di transizione”, la regione di confine fra il mantello superiore e il mantello inferiore, a circa 600 km di profondità.


Incrociando questi dati con, da una parte, quelli ottenuti in laboratorio simulando condizioni ambientali analoghe, e dall’altra analizzando le onde sismiche provenienti dall'interno della Terra, il team guidato dal geofisico Steve Jacobsen e dal sismologo Brandon Schmandt è giunto così a confermare che, nella forma descritta prima, l’acqua può essere presente anche là sotto. E a stimarne la quantità: per l’appunto, circa il triplo di quella di tutti gli oceani in superficie.

di Marco Malaspina
INAF

Teletrasporto? Ci penseranno i quanti


Un gruppo di ricerca olandese ha fatto il primo passo verso il teletrasporto dell’informazione, sfruttando la fisica quantistica. La distanza coperta è di tre metri, e costituisce un record senza precedenti. I risultati su Science

“Energia!” era l’ordine lanciato dai personaggi di Star Trek per dare il via libera al teletrasporto. E così gli ufficiali della nave stellare Enterprise potevano viaggiare agilmente da un punto all'altro del cosmo, smaterializzandosi dopo essere stati investiti in pieno da un fascio di luce, l’energia, appunto.

Quanto c’è di scientifico in questo famoso immaginario? Più di quanto potremmo pensare. Fin dagli anni ’90, il teletrasporto è stato oggetto di riflessione della teoria “assurda” per eccellenza: la fisica quantistica, che mettendo in crisi i pilastri della meccanica classica si è spinta verso scenari prima inconcepibili. Tra cui i viaggi nel tempo e nello spazio.

Oggi potrebbe essere proprio la fisica quantistica a fornire la chiave per passare dalla fantascienza alla realtà. In Olanda un gruppo di ricercatori ha dimostrato che almeno un tipo di teletrasporto è possibile: quello dell’informazione. E non esclude di poterlo estendere anche a oggetti fisici, compreso – perché no – l’uomo.

Lo ha detto Ronald Hanson, professore della Delft University of Technology e co-autore dello studio: “Abbiamo teletrasportato lo stato di una particella. Se pensiamo che noi non siamo altro che un insieme di atomi tenuti insieme in modo particolare, allora in linea di principio dovrebbe essere possibile teletrasportarci da un posto all'altro” ha detto durante un’intervista al Telegraph. “Nella pratica è estremamente improbabile, ma dire che non potrà mai avvenire è pericoloso: non esistono leggi fondamentali della fisica che lo impediscono.”

In base a questa analisi, la vera impresa era quindi iniziare a teletrasportare una singola particella: e i fisici dell’Università di Delft ci sono riusciti.

Per capire come, facciamo un passo indietro. In fisica quantistica esiste un particolare fenomeno chiamato entanglement, che è alla base di uno dei più grandi paradossi del mondo subatomico: il potersi trovare contemporaneamente in due stati diversi, come accade ad esempio al famoso gatto di Schrödinger. 
In pratica le particelle quantistiche, tra loro molto simili, sotto particolari condizioni possono diventare completamente indistinguibili; possono cioè essere “entangled”, letteralmente “aggrovigliate”, occupando allo stesso tempo stati quantistici differenti.

Balza subito all'occhio la somiglianza, almeno teorica, di questo fenomeno con il teletrasporto. E infatti proprio da qui è nato il teletrasporto quantistico, tecnica che coinvolge principalmente l’entanglement e che inizialmente è stata applicata all'informatica. L’idea era sfruttare gli stati sovrapposti delle particelle per far viaggiare l’informazione tra computer in modo infinitamente più rapido e sicuro.

Ora il gruppo di Hanson ha fatto esattamente questo: utilizzando due chip preziosissimi (costituiti da diamanti conservati nell'elio liquido), i ricercatori sono riusciti a teletrasportare informazioni quantistiche su una distanza di tre metri.

I risultati dell’esperimento, pubblicati su Science, potrebbero costituire una svolta per la progettazione dei computer quantistici, macchine per ora ancora solo teoriche che sfrutterebbero la fisica quantistica per comunicare tra loro. Ecco quindi che il teletrasporto passa per l’informazione: prima di viaggiare istantaneamente da un luogo all'altro, dovremo essere in grado di far viaggiare i nostri messaggi.

di Giulia Bonelli
INAF


venerdì 13 giugno 2014

Scoperto nuovo tipo di stella





Gli scienziati hanno individuato il primo esempio di una classe di stelle proposta nel 1975 dal fisico Kip Thorne e dall'astronoma Anna Żytkow.

Gli oggetti stellari detti di Thorne-Żytkow (TŻOs) sono ibridi tra stelle rosse supergiganti e stelle di neutroni che superficialmente assomigliano alle supergiganti rosse normali, come Betelguese nella costellazione di Orione. Differiscono, invece, nelle loro differenti firme chimiche che derivano da un'attività unica nel loro interni stellari.

Gli TŻOs sono pensati per essersi formati dall'interazione di due stelle massicce, una supergigante rossa e una stella di neutroni formatasi durante un'esplosione di supernova in un sistema binario stretto.
Mentre il meccanismo esatto è incerto, la teoria più diffusa suggerisce che, durante l'interazione evolutiva delle due stelle, la stella massiccia supergigante abbia inghiottito essenzialmente la stella di neutroni, che si muove a spirale nel nucleo della supergigante rossa.
Mentre le normali supergiganti rosse traggono la loro energia dalla fusione nucleare nei loro nuclei, le TŻOs sono alimentate dalla insolita attività delle stelle di neutroni assorbite nei loro nuclei.
La scoperta di questo TZO fornisce quindi la prova di un modello stellare non rilevato in precedenza dagli astronomi.

Il Project leader Emily Levesque della University of Colorado Boulder, che all'inizio di quest'anno è stato assegnato a Annie Vai Cannon Award dell'American Astronomical Society, ha dichiarato: "Studiare questi oggetti è emozionante perché rappresenta un modello completamente nuovo di come gli interni stellari possano lavorare. In queste interni abbiamo anche un nuovo modo di produrre elementi pesanti nel nostro Universo".

Lo studio, accettato per la pubblicazione nel Notices della Royal Astronomical Society, ha come co-autore Philip Massey, del Lowell Observatory di Flagstaff, in Arizona; Anna Żytkow dell'Università di Cambridge nel Regno Unito; Nidia Morrell degli Osservatori Carnegie a La Serena, Chile.

Gli astronomi hanno fatto la loro scoperta grazie al telescopio di 6,5 metri Magellan Argilla di Las Campanas, in Cile.
Hanno esaminato lo spettro della luce emessa dalle apparenti supergiganti rosse, che ha indicato loro gli elementi presenti.
Quando hanno visualizzato lo spettro di una particolare stella chiamata HV 2112, presente nella Piccola Nube di Magellano, gli osservatori erano piuttosto sorpresi da alcune delle caratteristiche insolite.

Morrell ha spiegato: "Non so di cosa si trattasse, ma so che mi piaceva!"
Quando Levesque ed i suoi colleghi hanno osservato da vicino le linee sottili nello spettro, hanno scoperto che conteneva l'eccesso di rubidio, litio e molibdeno.
Precedenti ricerche hanno dimostrato che i normali processi stellari possono creare ciascuno di questi elementi.
Ma l'alta abbondanza di tutti e tre questi elementi alle temperature tipiche delle supergiganti rosse è una firma unica di una TŻOs.

"Sono estremamente felice che la conferma osservativa della nostra previsione teorica abbia cominciato ad emergere", ha detto Żytkow.

Il team è attento a sottolineare che HV 2112 mostra alcune caratteristiche chimiche che non corrispondono pienamente ai modelli teorici. Massey sottolinea: "Potremmo, ovviamente, esserci sbagliati. Ci sono alcune incongruenze minori tra alcuni dei dettagli di quello che abbiamo trovato e ciò che la teoria predice. Ma le previsioni teoriche sono abbastanza datate e ci sono stati molti miglioramenti da allora. Speriamo che la nostra scoperta spingerà un lavoro supplementare sul lato teorico adesso".


Traduzione e adattamento a cura di Arthur McPaul

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2014/06/140609113347.htm

giovedì 12 giugno 2014

Rilevato l'Eco dell'Antica Terra




Un gruppo di scienziati hanno individuato che un rapporto isotopico precedentemente non spiegato dal profondo della Terra, potrebbe essere un residuo del materiale presente prima che si scontrasse con un altro corpo di dimensioni planetarie, portando alla nascita della Luna.

Questa scoperta potrebbe rivelarci gli echi dell'antica Terra, che esisteva prima della collisione presumibilmente avvenuta 4,5 miliardi anni fa.
Questo lavoro è stato presentato alla conferenza Goldschmidt a Sacramento, in California.

La teoria attualmente accettata afferma che la Luna si sia formata 4,5 miliardi anni fa, quando la Terra si scontrò con un corpo soprannominato Theia, delle dimensioni di Marte.
Secondo questa teoria, il calore generato dalla collisione avrebbe causato la fluidificazione dell'intero pianeta e alcuni detriti si sarebbero poi raffreddati in un altro punto di gravità, dando vita alla Luna.

Ora però, un gruppo di scienziati dell'Università di Harvard ritengono di aver identificato un segno che dimostrerebbe come in realtá solo una parte della Terra si fuse lasciandone intatta l'altra.
Secondo il ricercatore Sujoy Mukhopadhyay (Harvard): "L'energia liberata dall'impatto tra la Terra e Theia sarebbe stato enorme, certamente abbastanza per fondere l'intero pianeta ma riteniamo che l'energia di impatto non si distribuì uniformemente. Ciò significa che una parte importante dell'emisfero impattato sarebbe stato completamente vaporizzato, mentre l'altro solo parzialmente, senza subire una completa fusione".
Il team ha analizzato i rapporti degli isotopi di gas nobili presenti dal profondo mantello terrestre e ha confrontato questi risultati con gli isotopi più vicini alla superficie. I risultati indicano che gli isotopi 3He e 22Ne dal mantello superficiale sono significativamente superiori al rapporto equivalente nel mantello profondo.

Il professor Mukhopadhyay ha commentato: "Questo implica che l'ultimo gigantesco impatto non mescoló completamente il mantello e non ci fu un intero manto oceano di magma".

Ulteriori prove sono pervenute dall'analisi del rapporto tra lo 129-Xenon e lo 130-Xenon. È noto che il materiale portato in superficie dal mantello profondo ha un rapporto inferiore a quello normalmente trovato vicino alla superficie, per esempio nei basalti da dorsali.
Il 129-Xenon è prodotto dal decadimento radioattivo dello iodio-129, questi isotopi allo xeno risalirebbero entro i primi 100 milioni di anni di storia della Terra.

Il professor Mukhopadhyay ha detto: "La geochimica indica che ci sono differenze tra i rapporti isotopici dei gas nobili in diverse parti della Terra, e questi hanno bisogno di essere spiegati. L'idea è che questa immensa collisione non sciolse completamente la Terra e se la teoria si dimostrasse corretta, allora staremmo osservando gli echi dell'antica Terra, prima della collisione".

Traduzione e adattamento a cura di Arthur McPaul

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2014/06/140609113347.htm

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mercoledì 11 giugno 2014

Il Viaggio su Marte Sarà un Reality Show




Sono 705 i candidati che affronteranno le selezioni per diventare, un giorno, i primi astronauti che viaggeranno alla volta di Marte nel 2023 per avviare una colonia permanente. Il biglietto sarà di sola andata e il tutto sarà ripreso dalle telecamere e trasmesso dall'anno prossimo in tutto il mondo.

Mars One verrà trasmesso presto in tv. La no-profit olandese ha dato il via l’anno scorso alle selezioni per i primi quattro astronauti che nel 2023 potranno partire per il Pianeta Rosso per fondare una colonia umana nel 2025. La missione verrà ripresa in televisione, in una sorta di reality show: la società ha, infatti, firmato un accordo con la Darlow Smithson Productions (una controllata della Endemol) per filmare le selezioni dei primi 40 aspiranti e la fase dell’addestramento. Il programma verrà trasmesso in tutto il mondo a partire dai primi mesi del 2015.

L’obiettivo di Mars One è quello di far sbarcare su Marte nel 2025 i quattro fortunati astronauti (i quali non dovranno essere necessariamente scienziati) per creare una colonia permanente che crescerà col passare del tempo. La missione avrà un costo non indifferente: per ora la stima si aggira attorno ai sei miliardi di dollari per portare su Marte il primo essere umano. I soldi dovrebbero arrivare da una raccolta di fondi iniziata nel 2012, e soprattutto da questo evento mediatico, il Grande Fratello marziano, tramite gli introiti pubblicitari.

Prima del lancio della missione con equipaggio umano, Mars One spedirà su Marte una serie di robot che costruiranno la base operativa e preparare il terreno per l’arrivo degli “inquilini”: il primo lancio dell’orbiter e del lander è previsto per il 2018, nel 2020 partirà un rover che perlustrerà la zona prescelta (si pensa a un sito tra 40 e 45 gradi latitudine Nord del pianeta, dove gli astronauti potranno avere abbastanza risorse in termini di energia solare e acqua – sotto forma di ghiaccio), e nel 2022 verranno inviati su Marte sei cargo con tutto l’occorrente per dare il via all’avventura.

Iain Riddick, a capo della sezione Progetti speciali e Digital media della DSP, ha detto: “Questo sarà il colloquio di lavoro più duro del mondo per quella che è senza dubbio un’opportunità unica. Le storie umane che emergeranno saranno affascinanti e ispireranno le generazioni future”. Sono stati scelti 705 aspiranti marziani, tra gli oltre 200mila candidati, e verranno giudicati da un gruppo di scienziati, esperti e astronauti. Al fine di qualificarsi per la missione, i candidati dovranno dimostrare di aver acquisito conoscenze e competenze richieste, nonché elevati livelli di prestazioni psicologiche e fisiche necessarie per il più lungo viaggio mai intrapreso dagli esseri umani. Ma chissà se sanno cosa li aspetta? Il biglietto di ritorno non è previsto: gli astronauti aspiranti marziani dovranno dire addio, infatti, ad amici e parenti, perché per tornare avrebbero bisogno di un razzo in grado di sfuggire al campo gravitazionale di Marte, dei sistemi di supporto alla vita di bordo in grado di reggere per un viaggio di sette mesi e caratteristiche tecniche molto avanzate. Il tutto non è stato ancora previsto.

A cura di Eleonora Ferroni

Fonte: 

Il neutrino e il suo doppio



Arrivano dall’esperimento EXO-200 i risultati di due anni di raccolta dati alla ricerca dei fermioni di Majorana, la cui antimateria coinciderebbe con la materia. Ancora nessuna traccia statisticamente significativa, scrivono i ricercatori su Nature. Ma nemmeno se ne può escludere l’esistenza.

È il Giano bifronte delle particelle elementari. Materia e antimateria al tempo stesso, l’elusivo neutrino di Majorana – se mai esiste – tiene in scacco generazioni di ricercatori dal lontano 1937. Ovvero, da quando l’altrettanto elusivo genio della fisica che lo concepì, Ettore Majorana, giusto un anno prima di sparire misteriosamente di scena, diede alle stampe il celebre articolo sulla “Teoria simmetrica dell’elettrone e del positrone”. Articolo nel quale, in un italiano asciutto ed elegante, s’ipotizzava l’esistenza di particelle che fossero anche le proprie antiparticelle. Di queste particelle – note come “fermioni di Majorana”, in opposizione ai “fermioni di Dirac” – non s’è mai trovata traccia.

Ma la caccia continua incessante da oltre 70 anni. Proprio sull’ultimo numero di Nature sono usciti i risultati dei primi due anni dell’esperimento EXO-200. E se ancora non c’è segno del fermione di Majorana, quanto meno il cerchio si stringe. Analizzando i dati raccolti grazie ai 110 chili di xenon allo stato liquido – quattro quinti dei quali di isotopo xenon-136, un arricchimento ottenuto tramite centrifughe russe – che costituiscono il cuore dell’esperimento, situato in New Mexico a 650 metri di profondità, i ricercatori sono riusciti ad assegnare con grande precisione una nuova soglia minima al tempo di dimezzamento per il “doppio decadimento beta senza neutrini“: misurato in anni, è almeno 1.1 per 10 elevato alla 25. Tanto per farsi un’idea, si tratta di un’attesa pari a circa un milione di miliardi di anni quella che è l’età dell’universo.

Attesa per cosa? E che c’entra quel che avviene nello xenon con i fermioni di Majorana? Facciamo un passo indietro, anzi due, tornando alle particelle di materia e alla loro controparte: l’antimateria. Di solito, per descrivere le particelle di antimateria, si dice che hanno la stessa massa di quelle di materia ma carica elettrica di segno opposto. Per particelle come il protone o l’elettrone, che hanno carica elettrica non nulla, una tale descrizione è abbastanza intuitiva: il positrone (o antielettrone), per esempio, ha massa e spin identici a quelli dell’elettrone, ma carica elettrica positiva.

E le particelle con carica elettrica nulla, come per esempio il neutrone? Di primo acchito si potrebbe pensare che la corrispondente particella d’antimateria – l’antineutrone – sia da esso indistinguibile. In realtà, andando a scomporlo nei suoi mattoncini fondamentali (un quark up e due quark down), ci si accorge che la differenza è netta, essendo l’antineutrone formato da un antiquark up e due antiquark down.

Ma come la mettiamo con le particelle con carica elettrica nulla e non ulteriormente divisibili, in quanto già particelle elementari? In cosa sarebbero diverse dalle loro antiparticelle? È appunto il caso dei neutrini: se Majorana aveva ragione, fra neutrino e antineutrino non ci dovrebbe essere alcuna differenza. E per i fisici, a parte il fatto che toccherebbe loro aggiornare il modello standard, sarebbe un bel colpaccio: come per incanto tanti tasselli andrebbero al loro posto, a partire dall’enigma circa la scarsità d’antimateria nel nostro universo.

Già, ma come provare che Majorana poteva averci visto giusto? È qui che entra in gioco il “doppio decadimento beta senza neutrini” al quale accennavamo poc’anzi. Il doppio decadimento beta “normale” (2νββ), quello con i neutrini, è un raro processo di decadimento radioattivo caratterizzato dal verificarsi simultaneo di due decadimenti beta ordinari: per esempio, all’interno di un nucleo, due neutroni diventano due protoni, con conseguente emissione di due elettroni e due antineutrini. Ma cosa accadrebbe se, come voleva Majorana, antineutrino e neutrino fossero la stessa particella? Ecco che i due antineutrini si annichilirebbero l’un l’altro, e l’emissione consisterebbe soltanto nei due elettroni: per l’appunto, un doppio decadimento beta senza neutrini(0νββ).

Ebbene, per quanto complicato da descrivere, il doppio decadimento beta senza neutrini ha l’impagabile vantaggio di essere un processo osservabile: se mai avviene, possiamo accorgercene. Come? Per esempio, appunto, analizzando i dati provenienti dagli scintillatori immersi nei 110 chili di xenon liquido dell’esperimento EXO-200. Vabbè, ma in conclusione: si vede o non si vede? Proprio qui sta il punto più ambiguo: gli ultimi risultati dell’esperimento, rispetto a quelli precedenti, che si basavano su circa un quarto dei dati attuali, mostrano qualche evento in più. Dove per ‘evento’ i fisici intendono qualcosa che ancora non si capisce se è dovuto al rumore di fondo o è un vero segnale.

Insomma, quello che al momento si può dire è che l’esperimento EXO-200 pare funzionare a meraviglia, che non ha trovato prove statisticamente significative a favore dei neutrini di Majorana ma nemmeno è in grado di escluderne l’esistenza. E questo significa che la caccia può continuare.

A cura di Marco Malaspina

Fonte: