lunedì 14 luglio 2014

Fascia di abitabilità anche per i sistemi binari

Esopianeti, rendering artistico. Crediti: NASA.

Si chiama OGLE-2013-BLG-0341LBb, si trova a 3.000 anni luce da qui ed è freddissimo. Ma è anche il primo esopianeta potenzialmente abitabile a viaggiare sull'orbita di un sistema binario: una scoperta che ampia gli orizzonti di ricerca per pianeti di tipo terrestre al di fuori del Sistema Solare.

Non sappiamo se il gruppo di ricerca internazionale guidato dal professor Andrew Gould della Ohio State University abbia aspettato di proposito il 4 luglio per pubblicare la sua ricerca sulle colonne di Science, ma sembra meritarsi, almeno a una prima occhiata, tutti i fuochi d’artificio per la Giornata dell’Indipendenza.

OGLE-2013-BLG-0341LBb, un pianeta individuato nell'aprile 2013 e appartenente a un sistema stellare binario a 3.000 anni luce dalla Terra, risponderebbe ai requisiti di abitabilità: una scoperta che allarga la ricerca di esopianeti a sistemi stellari cui appartengono almeno la metà dei ‘soli’ che illuminano la Galassia.

Il pianeta si è rivelato agli occhi attenti dell’Optical Gravitational Lensing Experiment (OGLE), il progetto astronomico polacco con base all'Università di Varsavia e che si occupa principalmente di materia oscura usando la tecnica delle micro-lenti gravitazionali.

“Prima dell’oscuramento dovuto al passaggio del pianeta di fronte alla stella attorno cui orbita,pensavamo a un semplice fenomeno di microlensing dovuto a una seconda stella a circa 20.000 anni luce da Terra, nella costellazione del Sagittario”, spiega Gould.

Invece si tratta di un pianeta che ha due volte la massa della Terra e orbita attorno a una delle stelle che appartengono al sistema binario, quasi alla stessa distanza che separa il Sole dal pianeta che abitiamo. Tuttavia, dal momento che la stella ospite è di gran lunga più debole del Sole, il pianeta ‘gode’ di un clima decisamente più rigido di quello terrestre e che tutt'al più ricorda le lune ghiacciate di Giove.

Lo studio fornisce di fatto le prime evidenze scientifiche dell’esistenza di esopianeti con orbite simili a quella della Terra, anche in sistemi binari dove le stelle non distano molto l’una dall'altra. E anche se OGLE-2013-BLG-0341LBb è troppo freddo per poter ospitare la vita, non è sbagliato dire che si trovi esattamente nella fascia di abitabilità del sistema stellare.

“Questa scoperta amplia notevolmente il nostro orizzonte di ricerca in fatto di esopianeti abitabili in un prossimo futuro”, sostiene Scott Gaudi, docente della Ohio State University. “Metà delle stelle nella nostra galassia appartengono a sistemi binari. Non avevamo idea che pianeti simili al nostro potessero originarsi anche in queste condizioni e all'interno della fascia di abitabilità”.

Certo andare a caccia di esopianeti all'interno di sistemi binari non è quello che si dice un gioco da ragazzi: la luce della seconda stella rende difficoltosa l’interpretazione dei dati. “Con le micro-lenti gravitazionali però – spiega Gould – ci è possibile concentrare l’attenzione su come la gravità del sistema stella-pianeta vada a influire sulla stella più lontana”.

Uno strumento in più nella ricerca di pianeti in sistemi binari: “Ora sappiamo che con le microlenti gravitazionali possiamo scoprire esistenza, massa e distanza di pianeti lontani senza doverci per forza affidare al transito di fronte alla stella”, taglia corto Gaudi.

OGLE-2013-BLG-0341LBb percorre un’orbita distante circa 90 milioni di chilometri dalla stella di riferimento. Stella che è 400 volte meno luminosa del nostro Sole. La temperatura media sul pianeta è di -213° Celsius. La seconda stella del sistema binario dista dalla prima una lunghezza pari a quella che c’è fra Saturno e il Sole, ed è piuttosto debole.

sabato 12 luglio 2014

E’ il serpentino che scurisce Vesta?

dawn at vesta

Secondo un'indagine guidata da scienziati del Max Planck Institute for Solar System Research, sarebbero stati gli impatti con piccoli asteroidi ricchi di carbonio a creare le zone di materiale scuro sulla superficie dell'asteroide Vesta individuati dalla sonda DAWN

La presenza di materiale scuro su alcune zone della superficie dell’asteroide Vesta, scoperta grazie alla sonda DAWN della NASA nel 2011, ha da subito catturato l’attenzione degli scienziati, che hanno sollevato varie ipotesi sulla sua natura. Una delle più accreditate è quella di detriti di impatti con piccoli asteroidi caduti nel passato sul corpo celeste. Un nuovo studio pubblicato sulla rivista Icarus indica la possibilità che si sia verificato questo scenario. Andreas Nathues del Max Planck Institute for Solar System Research e i colleghi del suo team sembrerebbero aver individuato, tra gli elementi che compongono questa sostanza scura, anche il serpentino. Questo minerale si decompone a temperature superiori a 400 gradi celsius e quindi la sua presenza sulla superficie di Vesta, secondo i ricercatori, non potrebbe essere attribuibile a fenomeni vulcanici nel passato geologico dell’asteroide. L’alternativa proposta è che il serpentino sia stato rilasciato a seguito di impatti con asteroidi più piccoli e ricchi di carbonio. Ma i ricercatori sottolineano anche che questi impatti devono essere avvenuti con velocità relativamente basse, altrimenti l’energia rilasciata negli scontri avrebbe prodotto temperature sufficientemente elevate da trasformare il serpentino presente nei meteoriti caduti su Vesta.

“Si tratta senza dubbio di un lavoro interessante, di cui si dovrà tenere conto negli studi a venire sui materiali scuri di Vesta” commenta Andrea Longobardo, dell’INAF-IAPS di Roma. “I risultati delle analisi morfologiche e spettrali del gruppo di Nathues tendono a favore dell’ipotesi che il materiale scuro è sostanzialmente esogeno e portato su Vesta attraverso impatti con meteoriti composte da condriti carbonacee di tipo CM, simili a quella del famoso meteorite Murchison caduto in Australia nel 1969. Questo conferma le deduzioni emerse dai diversi lavori del nostro gruppo, basati su simulazioni e confronti con spettri di laboratorio.

La rivelazione della banda del serpentino, silicato presente nelle CM, sarebbe il colpo di grazia finale per le altre ipotesi. E’ tuttavia lecito attendersi ulteriori conferme della presenza di questo silicato, magari basate su analisi ad una risoluzione spettrale migliore di quella permessa dalla Framing Camera”. E’ cauta anche Maria Cristina De Sanctis, team leader dello spettrometro VIR a bordo di DAWN: “quella proposta dai ricercatori è una possibile interpretazione, ma non l’unica né quella definitiva. C’è ancora da indagare per scoprire con certezza la natura e l’origine di questo materiale scuro”.

di Marco Galliani

venerdì 11 luglio 2014

Un'idea per rimuovere la spazzatura galattica


Dal 1957, anno di lancio dello Sputnik 1, lo spazio ha cominciato a riempirsi di migliaia di satelliti dagli usi più svariati—dalle telecomunicazioni ai fini militari.  E mentre le modalità di lancio venivano studiate nei minimi dettagli, nessuno si è mai posto il problema di quale sarebbe stato il destino dei satelliti guasti o che semplicemente avevano finito la propria missione. La risposta, nella maggior parte dei casi, è che i satelliti rimangono lassù fino a quando l’attrazione terrestre non li farà schiantare sul pianeta. 

I rischi di avere migliaia di satelliti inattivi in orbita—che spesso si sfaldano trasformandosi in piccole tempeste di rottami alla deriva—sono considerevoli. L’impatto con uno di essi può essere devastante per i satelliti attivi, o per veicoli spaziali di grandi dimensioni come la Stazione Spaziale Internazionale, che ha dovuto attivare un sistema di elusione per non farsi distruggere dalla spazzatura galattica. Accanto ai costi economici, ci sono quelli ambientali e di sicurezza: i satelliti "defunti" che tornano a Terra possono fare danni o contaminare l’ambiente con il loro propellente. 

Per questo un’impresa italiana, la D-Orbit , ha creato un dispositivo per evitare che il problema si perpetui in futuro. Il funzionamento di D-Orbit è semplice: “Si tratta, in sostanza, di un petardo di cinquanta centimetri”, mi ha spiegato al telefono uno dei fondatori dell’azienda, Renato Panesi. “Un motore a razzo alimentato da propellente solido, dotato di un’unità di controllo per manovrarlo, e di un apparato di comunicazione con la Terra”.   

L’idea è che D-Orbit sia montato sul satellite prima del lancio, rimanendo inattivo fino alla fine della missione. A quel punto sarà attivato, i tecnici ne orienteranno la traiettoria per pilotarne la caduta in un luogo sicuro e il razzo si accenderà, riportando il satellite inattivo a Terra.  

In altri casi, quando il satellite è troppo grande e pesante, verrà sparato romanticamente nello spazio profondo, dove vagherà in eterno, inoffensivo. (Off-topic: il pensiero di un enorme cimitero interstellare dei satelliti potrebbe fornire materiale agli scrittori di fantascienza per i prossimi cent’anni). 

Com’è evidente, più che risolvere il problema attuale, D-Orbit mira a scongiurare una crisi futura. “Si calcola che i satelliti spediti in orbita fino a oggi siano 6mila, di cui solo 1100 sono operativi”, ha detto Panesi. “ Se non si agisce ora, la situazione può solo peggiorare, e per ogni nuovo satellite il rischio di collisione aumenterà. Questo comporterà anche costi legali, perché se un satellite alla deriva fa qualche danno, a dover pagare è l’impresa che l’ha lanciato.” 

D-Orbit potrebbe fare il suo debutto già nel 2015, a bordo di un satellite spedito in orbita per fini di ricerca; ma è probabile che in futuro tutti i satelliti ne sfoggeranno uno. 

Il pasticcio dell’affollamento delle orbite, infatti, non è sfuggito alle autorità internazionali. Già alla fine degli anni Novanta, le maggiori agenzie spaziali, riunite nel Comitato Internazionale sui Detriti Spaziali (IADC) avevano stabilito che ogni satellite avrebbe dovuto essere riportato a terra, o comunque “de-orbitato”, dopo 25 anni dal lancio.  Molti degli aderenti al patto se ne sono classicamente infischiati, ma, recentemente, la Francia ha approvato una legge che stabilisce che tutti i satelliti di grandi dimensioni debbano avere un meccanismo di deorbitazione a bordo. Visto il gran numero di satelliti lanciati ogni anno dalla base spaziale della Guyana Francese, questo provvedimento costringerà molte compagnie ad adeguarsi.   

Adesso, la squadra di D-Orbit, capitanata dall’ingegner Luca Rossettini, sta lavorando al passaggio successivo: rimuovere i satelliti che sono già lassù. 

“Siamo in fase di brain-storming per escogitare un sistema di recupero dei satelliti defunti” mi ha detto Panesi. “Per quanto riguarda il recupero delle macerie, invece, è difficile dire se riusciremo a trovare una soluzione in tempi brevi. Sono troppe, troppo piccole, e difficili da localizzare. Alcuni, in passato, avevano pensato di usare delle reti, o delle calamite, ma, al momento, non c’è nessun vero rimedio”.  

Titano nasconde un oceano salatissimo


Con ogni nuova scoperta Titano, il satellite di Saturno, si fa più interessante (e misterioso). Gli ultimi dati inviati dall'orbiter di Cassini, missione spaziale della NASA, hanno confermato che non solo c'è un oceano al di sotto della superficie del satellite, ma è possibile che sia salato quanto il Mar Morto. 

Gli studiosi che si occupano di Titano hanno dedotto che quest'oceano sotterraneo è estremamente salato grazie ai report sulla forza di gravità e sulla topografia del territorio frutto degli ultimi dieci anni di osservazioni. I dati sulla forza di gravità hanno portato a ipotizzare l'alta densità dell'oceano sotterraneo, il che significa che nelle sue acque deve essere presente un certo numero di elementi. 

I candidati più probabili sono il solfuro, il sodio e il potassio, i quali si sciolgono molto facilmente in acqua, e lo fanno a un livello di concentrazione in grado di spiegare i dati gravitazionali. Questi livelli di concentrazione renderebbero l'oceano molto molto salato. 

“Quest'oceano è estremamente salato per gli standard terrestri,” afferma Giuseppe Mitri dell'Università di Nantes, in Francia. “Questa nuova ipotesi potrebbe cambiare il nostro modo di considerarlo come possibile dimora per gli organismi viventi; anche se è probabile che la situazione non sia sempre stata così".

Un oceano sotterraneo estremamente salato potrebbe spiegare anche altre caratteristiche osservate di Titano, come lo spessore della crosta del satellite. Gli strati di superficie ghiacciata sembrano avere uno spessore variabile. Se lo strato più esterno risultasse duro, potrebbe essere spiegato come un effetto della lenta glaciazione e cristallizzazione dell'oceano salato sotterraneo, che avrebbe quindi creato uno strato irregolare di ghiaccio formatosi con acqua salata. È la spiegazione più plausibile; se così non fosse, il materiale della superficie si congelerebbe regolarmente, e, nel corso del tempo, la luna di Saturno sarebbe diventata una sfera liscia e regolare. 

E, certamente, un oceano sotterraneo salato quanto il Mar Morto cambierebbe il modo in cui gli scienziati studiano la luna di Saturno. Un lento processo di congelamento di un oceano salato, e anche la salinità stessa dell'oceano, limiterebbe ogni scambio di materiali tra l'oceano e la superficie, e probabilmente avrebbe effetti sugli organismi viventi (se ci sono) che potrebbero aver vissuto sotto lo strato ghiacciato. 

L'oceano salato sotterraneo è anche implicato in uno dei più grandi misteri che riguardano Titano: la presenza del metano nell'atmosfera del satellite. Gli scienziati sanno da molto tempo che l'atmosfera della luna di Saturno possiede alti livelli di metano, etano e acetilene, e altre combinazioni di idrocarburi. 

A essere sorprendente è l'alto livello di metano, perché la luce solare distrugge in modo irreversibile questo elemento dopo dieci milioni di anni, quindi ci si chiede in che modo si sia formato il metano nei 4,5 miliardi di anni di vita di Titano. I ricercatori stanno ora considerando se il degassamento di metano nell'atmosfera di Titano sia avvenuta in modo irregolare in determinati “punti caldi”, come quello che sulla Terra che ha dato origine alle isole Hawaii, o se invece si tratti di un più lungo processo regolare come la convezione o i movimenti tettonici. 

“Titano continua a confermarsi un mondo infinitamente affascinante,” afferma Linda Spilker, scienziata che si occupa del progetto Cassini al Jet Propulsion Laboratory della NASA. “Con un mezzo spaziale così longevo, Cassini, stiamo scoprendo misteri sempre nuovi mentre ne risolviamo degli altri."

Tra i misteriosi livelli di metano nell'atmosfera e un probabile Mar Morto sotterraneo, abbiamo davvero bisogno di una missione che abbia come meta Titano per capire cosa succeda sopra (e sotto) la sua superficie. 

mercoledì 9 luglio 2014

Il radiotelescopio LWA ascolta le meteore

Tutte le 256 antenne della stazione LWA-1 del Long Wavelength Array, nel New Mexico central. Crediti: LWA Project (UNM)

Cercando il bagliore residuo dei lampi gamma, hanno trovato l’inaspettata emissione radio delle meteore. La scoperta con il nuovo radiotelescopio LWA, Long Wavelength Array, in New Mexico.

A prima vista sembra una coltivazione di alberi di Natale albini nell’arido altopiano centrale del Nuovo Messico, ma le 27 antenne paraboliche del radiotelescopio VLA che si stagliano sullo sfondo richiamano immediatamente alla memoria Jodie Foster in caccia di segnali alieni nel film Contact, l’adattamento cinematografico dell’omonima novella dell’astrofisico Carl Sagan. Anche i candidi arbusti sono dunque antenne, 256 dipoli collegati assieme a formare un unico radiotelescopio che, con la consueta sobrietà, è stato chiamato LWA1, ovvero la stazione numero 1 del progetto LWA, Long Wavelength Array. Completato nel 2012, LWA1 è progettato per l’osservazione delle onde radio con frequenze comprese tra 25 e 75 MHz prodotte da esplosioni di raggi gamma (GRB), uno dei fenomeni più energetici dell’Universo, presumibilmente associati al collasso di stelle in rapida rotazione a formare stelle di neutroni e buchi neri.

I lampi gamma sono solitamente seguiti da un bagliore (afterglow) a lunghezze d’onda più lunghe, dai raggi X fino alle onde radio. Proprio la componente radio è quella meno osservata, quindi è comprensibile una certa aspettativa per i dati di LWA, che produce immagini dell’intero cielo radio. I ricercatori dell’Università del New Mexico (UNM), guidati da Greg Taylor, responsabile di LWA, spulciando pazientemente le prime 11.000 ore di osservazioni fatte con LWA1, si sono trovati di fronte qualcosa d’inatteso. Hanno infatti trovato ben 49 “transienti lunghi” – dei fenomeni occasionali che hanno dato origine a segnali radio durati non meno di una trentina di secondi – che non corrispondevano con i lampi gamma osservati nello stesso periodo. Se non erano l’eco di un fenomeno violento e lontano, cosa produceva allora quelle tracce radio?

Immagine radio (ripulita dalle sorgenti costanti per chiarezza) ottenuta da LWA1 a 38 MHz il 21 gennaio 2014 di una rara meteora che ha lasciato una scia brillante durata oltre un minuto. Crediti: LWA
Immagine radio (ripulita dalle sorgenti costanti per chiarezza) ottenuta da LWA1 a 38 MHz il 21 gennaio 2014 di una rara meteora che ha lasciato una scia brillante durata oltre un minuto. Crediti: LWA


Ken Obenberger, lo studente UNM incaricato dell’analisi dati e primo autore dello studio pubblicato su The Astrophysical Journal Letters, ha intuito che si trattava di qualcosa di ben più domestico. Convinzione che si è consolidata il 21 gennaio 2014, quando sugli schermi di LWA1 si è disegnata una traccia che, in meno di 10 secondi, ha coperto più di 90° di cielo, prima di affievolirsi gradualmente in una novantina di secondi. “La sola sorgente conosciuta che possa coprire una tale distanza in cielo in meno di 10 secondi lasciando una traccia persistente è una meteora”, racconta Obenberger.

Ma come fare a provare l’idea che fossero proprio delle meteore a lasciare quelle tracce radio, una cosa che nessuno aveva mai osservato prima? Il gruppo di ricerca ha comparato la posizione dei segnali transienti con i dati provenienti dal All Sky Fireball Network, un sistema di sorveglianza della NASA composto da 12 telecamere che registrano la posizione, velocità, luminosità e massa dei bolidi che solcano il cielo. Due delle telecamere sono collocate proprio in New Mexico e quindi sorvegliano la stessa parte di cielo vista da LWA1. Dall'analisi è risultato che 39 dei 49 oggetti transienti rilevati da LWA1 non sono stati visti dalla rete NASA, perché erano fuori campo o perché gli eventi si sono verificati di giorno. Fra i rimanenti, 5 corrispondo abbastanza bene con bolidi relativamente luminosi rilevati dalla All Sky Fireball Network. Dai conti di Obenberger e colleghi risulta che questa non può essere una mera coincidenza: sono proprio le “stelle cadenti” a “trasmettere” in onde radio.

Crediti: Jackie Monkiewicz
Crediti: Jackie Monkiewicz


E’ una scoperta affascinante, che innesca immediatamente una serie di domande, di cui la principale è ovviamente quale tipo di meccanismo fisico faccia produrre ai bolidi onde radio in bassa frequenza. Una possibilità è che si tratti semplicemente di riverberi, cioè che la scia lasciata dalle meteore rifletta delle onde radio prodotte al suolo, un fenomeno ben conosciuto e utilizzato in passato per la loro localizzazione. Ma Obenberger e colleghi la pensano diversamente. Le trasmissione umane sono usualmente polarizzate, come dovrebbe esserlo il relativo segnale riflesso, ed hanno spettri facilmente identificabili, ma il gruppo di ricerca non ne ha trovato traccia. “La nostra conclusione è dunque che le scie delle meteore producono radiazioni di bassa frequenza”, affermano i ricercatori in coro, mentre cercano di offrire qualche spiegazione a questo fenomeno sconosciuto. Hanno calcolato che l’energia radio totale emessa è una minuscola frazione dell’energia cinetica di una meteora tipica, quindi l’energia non pone grossi problemi teorici. Inoltre, anche se è vero che le meteore producono una scia di plasma, il team ha calcolato che il plasma sarebbe troppo freddo per generare onde radio a queste frequenze solo dall'emissione termica. Quindi, ci deve essere qualcos'altro che fa emettere le scie. Un “qualcosa” che al momento rimane un mistero della fisica.


Riferimento: Detection of Radio Emission from Fireballs, arxiv.org/abs/1405.6772

A cura di Stefano Parisini