mercoledì 29 febbraio 2012

La Vita Aliena In 3D


Cosa hanno in comune un film in 3D di ultima generazione e la ricerca della vita nei pianeti extrasolari? Apparentemente niente, ma invece un aspetto in comune ce l’hanno la polimetria, o meglio la luce polarizzata.

L’intuito di usare la luce polarizzata riflessa dai pianeti è alla base di una studio pubblicato sull’edizione di questa settimana della rivista Nature, che vede tra gli autori un italiano, Stefano Bagnulo, già astronomo all’Osservatorio Astronomico di Arcetri dell’INAF e ora cervello all’estero, presso l’Armagh Observatory, nell’Irlanda del Nord, Gran Bretagna.

“Si tratta, dice Stefalo Bagnulo ai microfoni di Media Inaf, di osservare pianeti extrasolari con una tecnica innovativa per il contesto, la polarimetria”. E per fare questo si sono avvalsi di uno dei telescopi più grandi al mondo, il Very Large Telescope che hanno puntato sulla Luna, per studiare, nella sua luce riflessa, la Terra e capire se su essa vi potessero essere forme di vita.




Luce Cinerea: La Luna riflette la luce irradiata dalla Terra. (Credit: ESO)

“Il fatto che sapessimo che vi fossero forme di vita ha condizionato il nostro lavoro, dice Bagnulo coautore dello studio, ma nel senso che se non avessimo avuto riscontro che la Terra può ospitarla avremmo capito subito come il metodo fosse sbagliato. Il nostro scopo è stato quello di studiare la Terra come apparirebbe vista dallo spazio attraverso un telescopio, ed in particolare di verificare la nostra capacità di dimostrare l’esistenza dalla vita sul nostro pianeta utilizzando tecniche astronomiche.

Dal momento che non avevamo la possibilità di portare il VLT nello spazio per puntarlo verso la Terra, abbiamo usato la Luna come gigantesco specchio, e osservato quella frazione di luce solare che viene riflessa dalla Terra verso il nostro satellite naturale, e poi riflessa indietro sulla Terra da quella parte dell’emisfero lunare che non è illuminato direttamente dal Sole. Questa luce è chiamata luce cinerea”.

“La stragrande maggior parte delle osservazioni astronomiche sono basate su misure di intensità. Gli astronomi cioè sono generalmente interessati a ‘quanti’ fotoni vengono emessi da una certa sorgente (o riflessi da una certa superficie). La polarimetria ci dice qualcosa di più, ossia ci dice ‘come’ oscillano i fotoni associati al campo elettro-magnetico della luce che riceviamo da una certa sorgente, per esempio se oscillano lungo una direzione privilegiata. La luce riflessa da certe superfici è polarizzata”.

“Qualora cercassimo di studiare un pianeta extra-solare con tecniche tradizionali (fotometria e spettroscopia), avemmo il grande problema di discriminare la luce riflessa dal pianeta da quella proveniente direttamente dalla stella. Sarebbe un po’ come cercare di studiare un granello di polvere depositato sulla superficie di una lampadina accesa.

Tuttavia, la luce riflessa dal pianeta è fortemente polarizzata, mentre quella stellare non lo è. Quindi le tecniche polarimetriche, almeno in principio, permettono di filtrare la luce stellare, ed evidenziare solo quella riflessa dal pianeta. La polarimetria potrebbe essere usata per fare imaging, cioè per vedere il pianeta, ma anche per analizzare le righe spettrali dell’atmosfera planetaria, e dedurne quindi la sua composizione.

Abbiamo quindi deciso di usare questa tecnica sul nostro stesso pianeta. L’analisi delle nostre misure, ed il loro confronto con modelli teorici già pubblicati in passato, ci ha mostrato che l’atmosfera e la superficie del pianeta Terra possiedono le caratteristiche di un pianeta che ospita la vita così come noi la conosciamo. Per esempio, nei nostri dati spiccano evidenti le caratteristiche polarimetriche di banda molecolari dell’ossigeno, dell’acqua e dell’ozono. Inoltre le nostre osservazioni si sono dimostrate molto sensibili alla percentuale di nubi presenti in atmosfera, e alla frazione di superficie terrestre coperta dagli oceani. In un certo senso, le nostre misure ci hanno permesso di riscoprire la vita sulla Terra.

Ovviamente, la nostra non è una scoperta particolarmente sorprendente. Però il nostro studio ha permesso di sperimentare con successo una tecnica astronomica che in futuro potrebbe essere sfruttata per cercare vita extra-terrestre. Certe missioni spaziali e i grandi telescopi del prossimo futuro avranno come obiettivo la scoperta della vita extra-terrestre, e la spettropolarimetria potrebbe rivelarsi una carta vincente per raggiungere questo scopo, conclude Stefano Bagnulo”.

A Cura Di Francesco Rea

Fonte:
http://www.media.inaf.it/2012/02/29/la-vita-aliena-in-3d/

2040: Possibile Impatto Con Asteroide?




L'Asteroide 2011 AG5 ha ricevuto ultimamente molta attenzione a causa di un improbabile impatto con la Terra tra circa 28 anni.

Attualmente l'asteroide è classificato 1 su 10 nella scala Torino degli impatti.
2011 AG5 è uno degli 8,744 oggetti vicini alla Terra che sono stati scoperti di recente. Il suo diametro è di circa 140 metri e la sua orbita lo porta lontano oltre l'orbita di Marte e vicino al Sole a metà strada tra la Terra e Venere.

E' stato scoperto l'8 gennaio del 2011 dagli astronomi, utilizzando un telescopio riflettore da 60 pollici Cassegrain che si trova in cima al Mount Lemmon nelle montagne Catalina a nord di Tucson in Arizona (USA).

Grazie alla sua posizione attuale nel cielo diurno, le osservazioni di 2011 AG5 non possono essere fatte dai telescopi terrestri, quindi la sua orbita non è ancora stata determinata con un livello in cui gli scienziati possono tranquillamente proiettare per i decenni futuri la sua posizione. Ma quel giorno è in arrivo.

"Nel settembre del 2013, abbiamo l'opportunità di fare ulteriori osservazioni di 2011 AG5 quando sarà a 91 milioni di miglia (147 milioni di chilometri) della Terra", ha detto Don Yeomans, direttore del NASA Near-Earth Object Program Office al Jet Propulsion Laboratory. "Sarà l'occasione per osservare questa roccia spaziale e raffinare la sua orbita. A causa dell'estrema rarità di un impatto con un asteroide vicino alla Terra di queste dimensioni, mi aspetto che saremo in grado di ridurre in modo significativo o escludere del tutto ogni probabilità di impatto per il prossimo futuro".
Osservazioni ancora migliori saranno possibili alla fine del 2015.

2011 AG5 tornerà vicino alla Terra nel febbraio del 2023 quando passerà a non meno di circa 1,2 milioni di miglia 1,9 milioni di chilometri). Nel 2028, l'asteroide sarà di nuovo nella zona, arrivando a non meno di circa 12.800 mila miglia (20,6 milioni di chilometri). Il Near-Earth Program Office Object afferma che l'influenza gravitazionale della Terra sulla roccia spaziale nel corso di questi sorvoli ha il potenziale per posizionare la roccia per un impatto il 5 Febbraio 2040, ma questo evento ha probabilità 1 su 625.

"Ancora una volta, è importante notare che con ulteriori osservazioni il prossimo anno le quote cambieranno e ci aspettiamo in favore della Terra", ha detto Yeomans.

La NASA rileva e segue gli asteroidi e le comete che passano vicino alla Terra utilizzando sia i telescopi di Terra che i telescopi spaziali. Il programma Near-Earth Object, comunemente chiamato "Spaceguard," scopre questi oggetti e determina le loro orbite per determinare se potrebbero essere pericolosi per il nostro pianeta.

Traduzione A Cura Di Arthur McPaul

Fonte:
http://www.jpl.nasa.gov/news/news.cfm?release=2012-051

Alla Ricerca Delle Prime Stelle




Recentemente, gli astronomi hanno scoperto due immense nubi di gas primordiale, a quasi 12 miliardi di anni luce di distanza, per le quali sospettano che siano le progenitrici delle prime stelle.

La Fondazione Kavli ha discusso con tre eminenti ricercatori su questo e altri interessanti oggetti per meglio comprendere come le prime stelle e galassie si sonoformate.
Ciò include la consapevolezza che nei primi tempi le galassie erano più deboli e piccole.

"Se si dovesse prendere una nave spaziale e tornare a quel punto nel tempo cosmico, si vedrebbe che cielo pieno di queste piccole galassie. Questi primi oggetti erano in realtà molto piccoli, circa un decimo del diametro della Via Lattea, ma tuttavia, formavano più stelle della galassia in cui viviamo oggi," ha detto Richard Ellis, Steele professore di astronomia presso l'Istituto di Tecnologia della California.

Scoperte come queste vengono quando gli scienziati si concentrano sullo studio delle "impronte digitali" delle prime galassie lasciate nel loro ambiente - quello che viene chiamato il mezzo intergalattico (IGM).

"Sappiamo, da queste osservazioni che, dopo circa un miliardo di anni, questo gas viene ionizzato, e riteniamo che l'abbiamo fatto le galassie", ha detto George Becker, Fellow, dl'Istituto Kavli per la cosmologia presso l'Università di Cambridge. "La domanda a cui stiamo cercando di rispondere è come e quando questo sia accaduto e come erano composte queste prime galassie".

Detto Avi Loeb, Presidente del Dipartimento di Astronomia e direttore dell'Istituto di Teoria e calcolo, alla Harvard University, ha detto: "Se fossimo in grado di mappare la distribuzione delle galassie e il gas idrogeno tra loro, nel''IGM, potremmo conoscere il rapporto tra la luoghi in cui ci sono le galassie e le regioni ionizzate, avendo così una prova indiretta delle prime galassie.
Questa nuova tecnica ci permetterà di studiare direttamente le galassie di gas ionizzato con l'idrogeno".

E in ultima analisi, i ricercatori cosa sperano di scoprire?
"Ci piacerebbe capire come le galassie che vediamo intorno a noi, compresa la Via Lattea, sono iniziate ad esistere", ha detto Loeb. "Stiamo andando indietro nel tempo fino alle nostre origini, in un certo senso. I testi religiosi cercano di rispondere a queste domande, ma ora siamo in grado di trovare una versione scientifica della storia della Genesi".

Foto In Alto
L'illustrazione artistica ci mostra come potrebbero essere questi oggetti antichi dei primordi dell'Universo. (Credito: NASA/JPL-Caltech/R. Hurt (SSC))

Traduzione A Cura Di Arthur McPaul

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2012/02/120228185830.htm

Gli U.F.O. Aiutano I Buchi Neri Giganti A Dissolvere Le Galassie




Una curiosa correlazione tra la massa del buco nero centrale di una galassia e la velocità delle stelle in una vasta struttura grossolanamente sferica, ha lasciato perplessi gli astronomi per anni. Un team internazionale guidato da Francesco Tombesi del NASA Goddard Space Flight Center di Greenbelt, nel Maryland, ora ha identificato un nuovo tipo di deflussi da buco nero: Ultra Fast Outflows (UFO)..

La maggior parte delle grandi galassie contengono un buco nero centrale che pesa milioni di volte la massa del Sole, ma le galassie che ospitano buchi neri più massicci sono anche in possesso di rigonfiamenti che si muovono più velocemente delle stelle. Questo legame ha suggerito una sorta di meccanismo di feedback tra buco nero di una galassia e le sue stelle in formazione.
Eppure non c'era nessuna spiegazione adeguata per come l'attività di un buco nero, che occupa una regione molto più grande del nostro Sistema Solare, possa influenzare una galassia, che comprende regioni circa un milione di volte più grande.

"Questo è stato un vero e proprio enigma. Tutto stava indicando che i buchi neri supermassicci in qualche modo guidano questa connessione, ma solo ora stiamo cominciando a capire come lo fanno", ha detto Tombesi.
I buchi neri attivi acquistano il loro potere con il graduale accrescimento o "alimentazione" di un disco a milioni di gradi gas circostante. Questo disco bollente si trova all'interno di una corona di particelle energetiche e mentre entrambi sono forti sorgenti di raggi X, questa emissione non puó spiegare la propietá della galassia.

Vicino al bordo interno del disco, una frazione della materia orbitante ad un buco nero, viene spesso reindirizzata in un getto di particelle verso l'esterno. Anche se questi getti possono scagliare la materia a metà della velocità della luce, le simulazioni al computer mostrano che depositano la maggior parte della loro energia ben al di là della regione di formazione stellare.

Gli astronomi hanno sospettato che mancava qualcosa. Nel corso dell'ultimo decennio, sono emerse le prove per un nuovo tipo di buco nero. Al centro di alcune galassie attive, le osservazioni nei raggi X a lunghezze d'onda corrispondenti a quelle del ferro, mostrano che questa radiazione è assorbita. Ciò significa che le nubi di gas fresco devono trovarsi di fronte alla sorgente di raggi X. Inoltre queste linee spettrali assorbite sono spostate dalle loro posizioni normali a lunghezze d'onda blueshifted, indicando che le nubi si stanno muovendo verso di noi.

In due studi pubblicati in precedenza, Tombesi ed i suoi colleghi hanno dimostrato che queste nubi rappresentato un tipo distinto di deflusso.
In questo ultimo studio, che compare nel numero del 27 febbraio della Monthly Notices della Royal Astronomical Society, i ricercatori hanno puntato su 42 galassie vicine, utilizzando l'XMM-Newton dell'ESA perfezionando la loro posizione e le proprietà di questi "deflussi ultra-veloci" - o UFO, in breve.

Le galassie, che sono state selezionate dall'All-Sky Catalog Slew Survey prodotto dal satellite della NASA Rossi X-ray Timing Explorer, erano tutti situate a meno di 1,3 miliardi di anni luce di distanza.

I deflussi si presentano nel 40% dei campioni, il che suggerisce che sono caratteristiche comuni di un buco nero alimentato da galassie. In media, la distanza tra le nuvole ed il foro centrale nero è inferiore a un decimo di un anno luce. La loro velocità media è circa il 14% della velocità della luce, ovvero circa 94 milioni miglia all'ora e il team stima che la quantità di materia necessaria per sostenere il flusso in uscita è vicino a una massa solare all'anno - comparabile al tasso di accrescimento di questi fori neri.

"Anche se più lento dei getti di particelle, gli UFO sono in possesso di una velocità molto più veloce rispetto ad altri tipi di deflussi galattici, il che li rende molto più potenti", ha spiegato Tombesi.

"Hanno le potenzialità per svolgere un ruolo importante nella trasmissione degli effetti di retroazione da un buco nero nella galassia".

Con la rimozione di massa che altrimenti cadrebbe in un buco nero supermassiccio, i deflussi ultra-veloci possono mettere un freno alla sua crescita. Allo stesso tempo, gli UFO possono togliere gas dalle regioni di formazione stellare nel bulge della galassia, rallentare o addirittura arrestare la formazione stellare tanto da spazzare via le nubi di gas che rappresentano la materia prima per nuove stelle.

Un simile scenario potrebbe naturalmente spiegare la connessione osservata tra un buco nero di una galassia attiva e il rigonfiamento delle sue stelle.
Tombesi e il suo team prevedono un significativo miglioramento nella comprensione del ruolo di dei deflussi ultra-veloci con il lancio del telescopio a raggi X Japan-led Astro-H, attualmente previsto per il 2014.

Nel frattempo, ha intenzione di concentrarsi sulla determinazione dei meccanismi dettagliati fisici che danno origine agli UFO, un elemento importante per comprendere il quadro generale di come le galassie attive si formano, sviluppano e crescono.

Traduzione A Cura Di Arthur McPaul

Foto in Alto
I buchi neri supermassicci nelle galassie attive sono in grado di produrre getti di particelle sottili (arancione) e più ampi flussi di gas (blu-grigio) conosciuti come deflussi ultra veloci che sono abbastanza potenti per arrestare sia la formazione di stelle nella galassia che la crescita del buco nero. del buco nero e il suo disco di accrescimento. (Credit: concept di credito Artist: ESA / Medialab AOES)

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2012/02/120227204917.htm

Cataclisma Nel Passato Della Luna




C’è stata un’epoca, agli albori della storia del Sistema solare, nella quale non c’era certo il tempo d’annoiarsi, per chi si fosse trovato a vivere su uno dei pianeti interni. Con lo spazio ancora brulicante di quello space debris naturale che continuava ad accrescere la massa dei pianeti stessi, gli impatti erano un evento erano all’ordine del giorno. Con il progressivo esaurirsi del materiale disperso, la situazione divenne mano a mano più tranquilla. Questo fino a quattro miliardi di anni fa, quando le rocce vaganti di colpo ripresero a picchiare duro. Più duro di prima: la Luna si trovò infatti a essere bersagliata da un’improvvisa gragnuola di proiettili a velocità ben più elevata di quelli che l’avevano sfregiata in passato.

È quanto ha scoperto un team di scienziati guidati dall’italiano Simone Marchi, del Lunar Science Institute della NASA (team del quale fa parte anche un altro italiano, Alessandro Morbidelli, dell’Observatoire de la Côte d’Azur, in Francia), analizzando le mappe digitali della superficie lunare prodotte grazie al Lunar Orbiter Laser Altimeter, uno degli strumenti a bordo del Lunar Reconnaissance Orbiter (LRO) della NASA. Dal loro studio, pubblicato su Earth and Planetary Science Letters, emerge che i proiettili che hanno dato origine ai crateri formatisi nei pressi del bacino da impatto Nectaris – 860 km di diametro, situato vicino alla zona in cui atterrò l’Apollo 16 – dovevano viaggiare a velocità circa doppia rispetto a quelli responsabili dei crateri presenti in terreni più antichi. Anomalia evidenziata da una lieve differenza nelle dimensioni dei crateri più recenti, più grandi in media dal 30 al 40 percento.

Ma perché il debris, quattro miliardi d’anni fa, dovrebbe aver subito questa accelerazione? L’ipotesi dei ricercatori è che all’origine del cambiamento vi sia un riassetto avvenuto in quell’epoca nel Sistema solare. In particolare, il “cataclisma lunare” potrebbe essere stato provocato da un avvicinamento della fascia principale degli asteroidi, sfrattata da quella che era la sua posizione iniziale dalle perturbazioni gravitazionali seguite alla riorganizzazione delle orbite dei pianeti giganti.

A Cura Di Marco Malaspina

Fonte:
http://www.media.inaf.it/2012/02/28/cataclisma-nel-passato-della-luna/

martedì 28 febbraio 2012

Dall'Antartide A Marte


Le fredde McMurdo Dry Valleys in Antartide sono un freddo deserto polare, ma i terreni sabbiosi sono spesso punteggiati da macchie umide in primavera, nonostante la mancanza di scioglimento delle nevi e nessuna possibilità di pioggia.

Un nuovo studio, condotto da un geologo della Oregon State University, ha scoperto che che i suoli salini nella regione, di fatto succhiano l'umidità dall'atmosfera, sollevando la possibilità che tale processo potrebbe avvenire anche su Marte o su altri pianeti.

Lo studio, che è stato sostenuto dal National Science Foundation, è stato pubblicato online questa settimana nelle rivista Geophysical Research Letters e apparirà in una prossima edizione.

Joseph Levy, un ricercatore post-dottorato nel collegio OSU della Terra, Oceano e delle Scienze Atmosferiche, ha detto che ci vuole una combinazione dei giusti tipi di sali e di umidità sufficiente a far funzionare il processo. Ma questi ingredienti sono presenti su Marte e in effetti, in molte aree desertiche della Terra, ha sottolineato.
"I terreni della zona hanno una discreta quantità di sale causati dagli spruzzi del mare degli antichi fiordi", ha detto Levy, che ha guadagnato il suo dottorato presso la Brown University. "I sali portati dai fiocchi di neve si depositano nelle valli e possono formare zone di terreno molto salato. Con i giusti tipi di sali e l'umidità sufficiente, quei suoli salini aspirano l'acqua direttamente dall'aria.

"Se si dispone di cloruro di sodio, (il comune sale da cucina), potrebbe essere necessario un giorno con il 75% di umidità per farlo funzionare", ha aggiunto. "Ma se si dispone di cloruro di calcio, anche in una giornata fredda, necessiterebbe solo un livello di umidità superiore al 35% per innescare la risposta".

"Una volta che si forma la brina, succhia il vapore acqueo dall'aria", ha detto Levy, "la salamoia manterrà il vapore acqueo raccolto fino ad equalizzarsi con l'atmosfera.
"E 'come una sorta di sifone a base di sale".

Levy ei suoi colleghi, della Portland State University e dalla Ohio State University, ha lnno scoperto che i terreni umidi creati da questo fenomeno sono risultati essere 3-5 volte più ricchi d'acqua rispetto alle aree circostanti, ed erano anche pieni di materia organica come i microbi, migliorando la possibilità di vita su Marte. L'elevato contenuto di sale abbassa anche la temperatura di congelamento delle acque sotterranee, che continua ad attirare l'umidità dall'aria, quando le altre zone umide nelle valli cominciano a congelare in inverno.

Sebbene Marte, in generale, ha un livello più basso di umidità della maggior parte dei luoghi sulla Terra, gli studi hanno dimostrato che è sufficiente per raggiungere le soglie che Levy e i suoi colleghi hanno documentato. I terreni salati sono anche presenti sul Pianeta Rosso, il che rende lo sbarco imminente del Mars Science Laboratory questa estate ancora più allettante.

Levy ha detto che il team di scienziati ha scoperto il processo osservando le macchie misteriose di terreno bagnato in Antartide, e poi indagando per scoprirne le loro cause. Attraverso gli scavi del suolo e altri studi, hanno eliminato la possibilità delle acque sotterranee, dello scioglimento della neve, e del deflusso glaciale.

Hanno poi iniziato a studiare le proprietà salate del suolo, e hanno scoperto che le stazioni metereologiche di McMurdo Dry Valleys avevano segnalato alcuni giorni di alta umidità all'inizio della primavera, che ha portato alla scoperta del trasferimento di vapore.

"Sembra un pó strano, ma funziona davvero", ha detto Levy. "Prima di uno dei nostri viaggi, ho messo una ciotola di legumi, del terreno salato e una brocca d'acqua in un contenitore sigillato di Tupperware e l'ho lasciato sul mio scaffale. Quando sono tornato, l'acqua si era trasferita dal vaso per il sale e ha creato la salamoia. Sapevo che avrebbe funzionato", ha aggiunto con una risata, "ma in qualche modo ancora mi ha sorpreso che lo ha fatto".

La prova della natura salata delle valli di McMurdo Dry è ovunque, ha detto Levy. I sali si trovano nei suoli, lungo i torrenti stagionali, e anche sotto i ghiacciai. Don Juan Pond, il più salato specchio d'acqua sulla Terra, si trova nella Wright Valley, la valle adiacente alla zona umida di studio.

"Le condizioni per la creazione di questa nuova fonte di acqua nel permafrost sono perfette", ha detto Levy, "ma questo non è l'unico posto dove questo potrebbe o non accadere. Ci vuole una regione arida per creare i suoli salati e l'umidità sufficiente per far funzionare il transfert, ma il resto è solo fisica e chimica".

Altri autori sullo studio includono Andrew Fountain, Portland State University, e Kathy W. Welch e Berry Lione, Ohio State University.

Traduzione A Cura Di Arthur McPaul

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2012/02/120227204917.htm

domenica 26 febbraio 2012

Dalla Chimica Dei Sistemi Protoplanetari Mondi Terrestri Differenti




Un team internazionale di ricercatori, con la partecipazione degli astronomi della IAC, ha scoperto che la struttura chimica dei pianeti terrestri può essere molto diversa dalla composizione della Terra. Questo potrebbe avere un effetto rilevante sull'esistenza e sulla creazione delle biosfere e della vita in pianeti simili al nostro.

Lo studio delle abbondanze fotosferiche stellari del pianeta ospite, è la chiave per capire come i protopianeti si sono formati, così come le nuvole protoplanetarie si evolvono dando vita ai proto pianeti o no.

Questi studi, che hanno importanti implicazioni per i modelli di formazione ed evoluzione dei pianeti giganti, ci aiutano a studiare la struttura interna, atmosferica e la composizione dei pianeti extrasolari.

Gli studi teorici suggeriscono che gli elementi come la C/O e il Mg/Si, sono i rapporti elementari più importanti nel determinare la mineralogia dei pianeti terrestri, e
che ci possono dare informazioni sulla loro composizione di questi.

Il rapporto C / O controlla la distribuzione di Si tra le specie di ossido di metallo duro, mentre il Mg / Si fornisce informazioni sulla mineralogia del silicato.
Nel 2010 Bond et al. (2010b) ha effettuato le prime simulazioni numeriche di formazione dei pianeti, in cui è stata redatta la composizione chimica della nuovola proto-planetaria come parametro di input.

I pianeti terrestri si sono formati in tutte le simulazioni, con un'ampia varietà di composizioni chimiche, per cui potrebbero essere molto differenti dalla Terra.

Delgado Mena et al. (2010) hanno condotto il primo studio dettagliato e uniforme di C, O, Mg e abbondanze SI per 61 stelle con i pianeti già individuati e 270 stelle senza pianeti individuati dall'omogenea di alta qualità obiettiva del campione HARPS GTO.

Hanno trovato rapporti mineralogici molto diversi da quelli del Sole, dimostrando che esiste una grande varietà di sistemi planetari che differiscono del Sistema Solare.

Molti sistemi planetari ospitati da stelle presentano una Mg / Si di valore inferiore a 1, quindi i pianeti hanno un elevato contenuto di Si per formare specie come il MgSiO3. Questo tipo di composizione può avere importanti implicazioni per i processi planetari come la tettonica a zolle, la composizione atmosferica e il vulcanesimo.

"Ci potrebbero essere miliardi di pianeti simili alla Terra nell'Universo, ma una grande maggioranza di essi potrebbe avere una struttura interna e atmosferica completamente diversa. I pianeti in ambienti chimicamente non-solari (che sono molto comuni nell'Universo) possono portare alla formazione di strani mondi, molto diversi dalla Terra. La quantità di alcuni elementi radioattivi e refrattari (specialmente il Si) potrebbero avere conseguenze drammatiche per i processi planetari come la tettonica delle placche e l'attività vulcanica", conclude Garik.

Le ultime simulazioni numeriche hanno dimostrato che possono esistere una vasta gamma di pianeti extrasolari terrestri con svariate composizioni. I pianeti simulati appartenenti attorno a stelle con Mg / Si hanno un rapporto inferiore a 1 e si trovano ad essere Mg-impoverito (rispetto alla Terra), costituiti da specie di silicati come il pirosseno e vari tipi di feldspati.
Le abbondanze di carbonio planetario variano anche in conformità con il rapporto di C / O delle stelle ospitanti.

Le abbondanze previste sono in linea con le osservazioni delle nane bianche (che dovrebbero aver maturato i pianeti interni durante la precedente fase di gigante rossa).
"Le variazioni osservate nei rapporti chiave C / O e Mg / Si per le stelle con nuovole protoplanetarie implicano che ospitano una grande varietà di composizioni capaci di dar vita ad una svariata serie di pianeti terrestri, che vanno da quelli simili alla Terra a quelli dominati dalla C, come la grafite e le fasi di carburo (per esempio SiC, TiC)", sottolinea Delgado Mena.

I risultati di Delgado Mena et al. (2010) che sono stati utilizzati in questo studio sono i primi per determinare l'abbondanza di tutti gli elementi necessari, utilizzando spettri di alta qualità e un approccio identico per tutte le stelle e gli elementi, per un ampio campione sia di stelle con ospiti planetari e non.

La chimica e le simulazioni dinamiche sono state combinate assumendo che ciascun embrione mantiene la composizione della sua posizione di formazione e la stessa composizione che contribuisce al pianeta terrestre simulato. I pianeti più interni terrestri (situati all'interno di 0,5 ​​UA dalla stella ospite) contengono una quantità significativa degli elementi refrattari di Al e Ca (47% della massa planetaria). I pianeti che si formano oltre 0,5 ​​UA dalla stella ospite contengono sempre meno Al e Ca all'aumentare della distanza.

Un sistema planetario 55 Cnc, ha un rapporto di C / O superiore a 1 (C / O = 1.12). Questo sistema ha prodotto il carbonio arricchito dei pianeti come la Terra.
Tutti i pianeti terrestri considerati in questo lavoro hanno composizioni dominate da O, Fe, Mg e Si, la maggior parte di questi elementi sono forniti in forma di silicati o metalli (nel caso di ferro). Tuttavia, sono state trovate le differenze importanti tra quelle che formano i pianeti in sistemi con C / O <0,8 (HD17051, HD19994) e quelli con C / O> 0,8 (55Cnc).

"Stiamo lavorando duramente per ridurre gli errori di misura e rendere pubblici i risultati di modelli teorici e simulazioni numeriche più affidabili", commenta González Hernández, "C'è molto lavoro da fare".

Traduzione A Cura Di Arthur McPaul

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2012/02/120223132902.htm

sabato 25 febbraio 2012

Mondi Senza Stelle Nella Via Lattea




Le stelle vi sembrano tante? Allora tenetevi stretti: i pianeti potrebbero essere centomila volte di più.

Lo afferma uno studio del KIPAC, il Kavli Institute for Particle Astrophysics and Cosmology – un laboratorio indipendente della Stanford University, ospitato presso lo SLAC National Accelerator Laboratory. Una stima, si badi bene, che non implica improbabili sistemi solari con migliaia e migliaia di mondi in orbita l’uno attorno all’altro, un incubo gravitazionale che solo a immaginarlo darebbe le vertigini. Al contrario, i protagonisti di quest’esplosione demografica non orbitano: piuttosto, vagabondano. Sarebbero infatti pianeti orfani della stella madre, milioni di miliardi di mondi – alcuni più piccoli di Plutone, altri più grandi di Giove – che errano in solitudine nello spazio interstellare.

A rendere ancor più suggestiva l’ipotesi della ricerca, sottoposta per la pubblicazione a Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, la possibilità che alcuni di questi mondi, pur senza una stella che li riscaldi, possano comunque ospitare la vita. «Se ce ne sono di grandi al punto da essere circondati da un’atmosfera abbastanza spessa, potrebbero aver intrappolato calore a sufficienza per consentire l’esistenza di forme di vita batterica», spiega infatti Louis Strigari, primo autore dello studio. Calore generato internamente, per esempio attraverso il decadimento radioattivo e l’attività tettonica.

Ma come si è potuti giungere a una stima così elevata, quando fino a oggi gli scienziati ritenevano che di pianeti nomadi potessero essercene, in media, due soltanto per ogni stella di sequenza principale? Lo abbiamo chiesto al secondo autore dello studio, Matteo Barnabè, astronomo italiano attualmente in forze alla Stanford University.

«La nostra stima del numero dei pianeti nomadi presenti nella nostra galassia è stata calcolata sulla base della recente scoperta, mediante una tecnica chiamata microlensing, di circa 10 di questi oggetti in una piccola regione nel bulge galattico, cioè nei pressi del centro della nostra galassia. Abbiamo tratto le conseguenze di questa scoperta per quanto riguarda la popolazione globale dei pianeti nomadi, mostrando che potrebbero esistere, per ogni normale stella di main sequence, fino a 700 nomadi con la massa della Terra e fino a 100.000 nomadi con la massa di Plutone».

Una cifra da capogiro, almeno per noi profani, pensando ai miliardi di stelle presenti nella Via Lattea. Qual è stata la vostra prima reazione, quando vi siete resi conto dell’enormità della vostra stima?

«Di fronte a questi numeri (che costituiscono un limite superiore) la nostra prima reazione è stata di sorpresa, seguita poi dall’entusiasmo quando abbiamo calcolato che questi numeri “astronomici” sono consistenti con quello che sappiamo sulla nostra galassia, e quindi questi valori sono plausibili. Anche per noi l’idea che ci siano così tanti pianeti che vagabondano negli spazi interstellari – infatti, in inglese, spesso vengono chiamati anche rogue planets, cioè “pianeti vagabondi” – è molto affascinante, e infatti abbiamo dedicato gran parte dell’articolo a spiegare come possiamo individuarli (mediante il microlensing, appunto) e determinare in modo molto più preciso quanti ce ne sono utilizzando strumenti astronomici che saranno disponibili nei prossimi anni, come per esempio GAIA, LSST e WFIRST».

Lasciando ora da parte i pianeti, ma rimanendo pur sempre sul nomadismo, questa volta intellettuale: lei come ci è arrivato, a Stanford?

«Il mio viaggio dall’Italia agli Stati Uniti è iniziato a Bologna. Mi sono laureato in astronomia nel 2004 con il professor Luca Ciotti, poi ho lasciato l’Italia per conseguire il dottorato a Groningen, in Olanda. Dopo il dottorato, nel 2009, ho proseguito il mio lavoro di ricerca come postdoc negli Stati Uniti, in California. Ho lavorato un paio mesi a Santa Barbara, e ora mi sono spostato qui a Stanford, dove ho una fellowship di 3 anni».

Stanford è per noi l’università dove Steve Jobs ha tenuto, nel 2005, il suo discorso leggendario, “stay hungry, stay foolish”. Com’è viverci, lavorarci?

«Fare ricerca a Stanford e vivere qui a Palo Alto, nel cuore della Silicon Valley, è molto stimolante sia dal punto di vista scientifico e accademico, sia per l’ambiente circostante vivace ed estremamente dinamico. In quest’area, tra Palo Alto e Mountain View, l’interesse e l’entusiasmo per la scienza e la tecnologia sono generalizzati, e spesso anche le occasioni più inaspettate possono diventare terreno fertile per nuove idee».

A Cura Di Marco Malaspina

Fonte:
http://www.media.inaf.it/2012/02/24/per-giove-la-terra-esiste/

venerdì 24 febbraio 2012

La Terra Esiste Grazie A Giove




La Terra deve dire grazie a Giove? Non è un richiamo teologico, tantomeno al paganesimo. Può apparire paradossale, ma non sembra così lontano dalla realtà. Il nostro pianeta forse deve la sua esistenza al pianeta gigante del nostro sistema solare.

È quanto appare emergere da uno studio condotto da ricercatori dell’IAPS dell’INAF che sarà pubblicato su APJ (Astrophysical Journal). Secondo Diego Turrini, che ha condotto a termine lo studio avviato con Angioletta Coradini recentemente scomparsa, insieme a Gianfranco Magni, l’idea che la formazione di Giove abbia avuto importanti ripercussioni sulla formazione del nostro sistema solare, trova ulteriore conferma dai dati analizzati simulando la formazione di Giove e la sua successiva migrazione, così da studiarne gli effetti sull’evoluzione della fascia degli asteroidi. I risultati delle simulazioni, inizialmente focalizzate su Vesta e Cerere e successivamente estese alla fascia interna degli asteroidi, hanno mostrato come la nascita del pianeta gigante avrebbe dato inizio alla prima breve ma violenta fase di bombardamento della storia del Sistema Solare, che il team ha battezzato Jovian Early Bombardment o, in breve, JEB.

Insomma la formazione del gigante gassoso avrebbe fatto da contrappeso al Sole, redistribuendo la materia e gli elementi volatili, sia all’esterno che all’interno del sistema solare, modificando le orbite dei pianeti che si stavano formando, da circolari ad ellittiche, e impedendo l’aggregazione della fascia degli asteroidi. “La nebulosa solare, il disco di gas e polveri da cui il Sistema Solare ha avuto origine – dice Diego Turrini – è una delle fasi più importanti e meno comprese della vita del Sistema Solare. Sulla base dell’osservazione dei dischi attorno a stelle giovani, sappiamo che la vita della nebulosa solare deve essere stata dell’ordine di 10 milioni di anni: breve, quindi, rispetto ai 4.5 miliardi di anni di vita del nostro sistema. Eppure, in questo breve lasso di tempo i planetesimi, i primi corpi planetari a essersi formati e simili agli attuali asteroidi, si stavano formando attraverso tutto il Sistema Solare mentre le regioni più esterne vedevano la comparsa dei pianeti giganti.

L’idea che la formazione di Giove – continua Turrini – abbia avuto importanti ripercussioni sull’evoluzione del Sistema Solare risale agli albori dell’era spaziale, quando alla fine degli anni ‘60 lo scienziato sovietico Viktor Safronov propose che la comparsa del pianeta gigante avrebbe causato la dispersione dei planetesimi formatisi vicino alla sua orbita. Come allieva di Safronov, Angioletta Coradini condivideva l’idea e aveva dato l’avvio a questo progetto per cercarne le tracce su Vesta, obiettivo della missione Dawn e uno dei corpi più antichi del Sistema Solare.

I risultati ottenuti hanno però superato le aspettative di allieva e maestro: la formazione di Giove, infatti, causa la comparsa delle risonanze orbitali all’origine delle Kirkwood Gaps nella fascia degli asteroidi e il flusso di materiale dovuto allo svuotamento delle risonanze rende il JEB estremamente più violento di quanto prima ipotizzato”.

Certo c’è ancora molto da studiare per comprendere cosa accadde in quei primi dieci milioni di anni, ma nel nostro sistema solare vi sono strumenti realizzati dall’INAF con ASI a bordo di sonde come Dawn e Juno che potrà aiutarci a capire come l’intensità e gli effetti distruttivi del JEB siano collegabili alle caratteristiche della popolazione iniziale di planetesimi e alla migrazione di Giove.

A Cura Di Francesco Rea

Fonte:
http://www.media.inaf.it/2012/02/24/per-giove-la-terra-esiste/

giovedì 23 febbraio 2012

Le Dune Di Titano


Arrakis, il pianeta deserto del romanzo di Frank Herbert "Dune" del 1965, e il pianeta Tatooine nella trilogia di Star Wars, sono leggendari e aridi mondi coperti da dune di sabbia come mari. A meno di un milione di miglia dal gigante gassoso Saturno, orbita una luna luna delle dimensioni di un vero e proprio pianeta: Titano.

Con una temperatura superficiale di -300 gradi Fahrenheit, è difficile immaginarlo come un deserto illuminato dal Sole.

Le immagini NASA/ESA della missione Cassini rivelano che non c'è nessun altro mondo nel Sistema Solare come Titano, ricoperto da dune di sabbia sulla sua superficie..

Queste dune ricoprono il satellite per migliaia di miglia nelle regioni equatoriali, per una superficie pari agli USA.


La foto in alto mostra un raffronto delle immagini radar delle dune di Titano con quelle del deserto in Namibia nel sud dell'Africa.

Le dune in campo planetario mostrano le variazioni dei processi climatici avvenuti sulla superficie.
Le dune di Marte, sono presenti solo nelle latitudini settentrionali, su Venere sono presenti grazie ai forti venti e alle particelle di sabbia.
Su Titano, la cui gravità è minore della nostra Luna, quando la luce ultravioletta del Sole irrompe nell'atmosfera ad alto contenuto di metano, produce etano e idrogeno. Quando poi queste sostanze chimiche si fondono in particelle, producono la pioggia. Pertanto, il materiale delle dune cade letteralmente dal cielo di Titano come granelli di idrocarburi solidi, delle dimensioni di sabbia grossa.

Non immaginate i vermi giganti nelle dune di sabbia di Dune o gli elefanti, come bantha in Star Wars. La cryo-vita su Titano sarebbe strettamente microbica, e avrebbe un metabolismo a passo di lumaca.

La sabbia di idrocarburi viene soffiata da nord nell'emisfero meridionale più secco dove si accumula formando le dune lungo la fascia equatoriale. L'orbita leggermente ellittica di Saturno comporta che nell'emisfero sud di Titano esistono estati intense ma brevi. Questo rende molto secche le regioni meridionali, adatte alla formazione delle dune.

Dato questo terreno, gli ingegneri immaginano che i futuri esploratori robotici dovranno essere capaci di sondare i grandi campi di dune, i vulcani, i mari e i laghi di metano, viaggiare a latitudini diverse, con un'antenna orientabile per l'inoltro dei dati e analizzare i campioni superficiali grazie ad un un laboratorio di analisi biologica.

Questi ambiziosi obiettivi richiedono la costruzione di un piccolo drone alato molto simile a quei droni militari che volano sopra l'Afghanistan. Tuttavia, questo drone costerebbe 715 milioni dollari e dovrebbe avere una propulsione nucleare.


Chiamato Aviatr, tale drone dovrebbe scattare foto in 3D della superficie di Titano. Al termine della sua missione dovrebbe scendere sulla superficie per tentare un atterraggio sulle dune. I fautori dicono che utilizzare un mezzo più pesante dell'aria è il modo migliore per navigare liberamente su Titan e nella spessa atmosfera di azoto.

Nel lontano futuro la Terra potrebbe avere un mare di dune, come quello che si trova su Titano. Nonostante le nostre preoccupazioni sul riscaldamento globale, l'anidride carbonica diverrà sempre più scarsa nell'atmosfera e sempre più rinchiusa nella crosta. Senza anidride carbonica, la Terra, non sarebbe più in grado di regolare la sua temperatura, e inizierebbe a riscaldarsi man mano che il Sole diventa più luminoso.
Tra oltre un miliardo di anni la temperatura della superficie terrestre raggiungerà circa 120 gradi Fahrenheit, sterilizzando gran parte del nostro pianeta.

Mentre la Terra andrebbe disidratandosi, con l'evaporazione degli oceani, l'atmosfera diverrebbe ricca di vapore. Senza acqua per la lubrificazione, la tettonica a zolle si fermerebbe come una macchina arrugginita.

Come per Titano, gli ultimi laghi di liquido rimarrebbero solo a latitudini polari. Il vento spazzando la polvere dovrebbe costruire immense dune di sabbia lungo il nostro equatore riarso dal Sole.

Per Ironia della sorte, nello stesso periodo, Titano diverrebbe abbastanza caldo per avere mari di acqua allo stato liquido. Nel nostro Sistema Solare inquieto, l'armageddon della Terra sarebbe l'Eden per Titano.

Titano è dunque candidato a diventare in un lontano futuro un mondo pienamente abitabile su cui potrà svilupparsi la vita così come sulla Terra oggi.

Adattamento A Cura Di Arthur McPaul

Fonte:
http://news.discovery.com/space/titans-great-dune-seas-rival-science-fiction-worlds-120220.html

lunedì 20 febbraio 2012

Plutone, Eris E Quello Che Ci Aspetta...


Il 18 febbraio del 1930, l'astronomo americano Clyde Tombaugh scoprì il nono pianeta, Plutone. Mentre si celebra il 82° anniversario della sua scoperta, restano ancora vive le polemiche che circondano la sua retrocessione a corpo minore come "Pianeta Nano".

Alla luce della scoperta di Eris nel 2005, l'anno successivo l'International Astronomical Union (IAU) si riunì e votó per ridefinire Plutone, che era considerato un "pianeta", come pianeta nato, accorpandolo al club di Eris.

Anche se molti hanno visto questo fatto come una retrocessione, in realtà era una indicazione su come potesse essere emozionante e ricco il nostro Sistema Solare. Scoperte di oggetti minori nella fascia di Kuiper (una regione di spazio oltre l'orbita di Nettuno) e oltre sono in aumento e man mano che la nostra tecnologia migliora, più le scoperte sono inevitabili.

Come dice lo scopritore di Eris, Mike Brown, scienziato planetario presso il Caltech, adesso stiamo vedendo solo la punta di un iceberg negli strati più esterni del Sistema Solare.

"Penso che il prossimo grande passo nella ricerca di un gran numero di oggetti della Cintura di Kuiper e oltre avverrà in Cile con il LSST (Large Synoptic Survey Telescope)".

Brown ritiene che un tale sistema, composto da un telescopio di 6 metri, più una macchina fotografica "enorme", svelerà la popolazione di piccoli oggetti della Cintura di Kuiper e ci darà un'idea di quanti mini-mondi orbitano a distanze ancora più estreme.

"Ma stiamo anche aspettando con ansia il rapido avvicinarsi della missione New Horizons della NASA alla Cintura di Kuiper, che sfiorerà Plutone nel 2015".

Il responsabile della missione New Horizons, Alan Stern ha fornito una sua opinione sullo stato reale di Plutone:
"Penso che quando la gente vedrà Plutone (grazie all'incontro della missione New Horizons), capirà quello che molti scienziati planetari hanno già capito, cioè che il Sistema Solare esterno è pieno di piccoli pianeti ..."

Stern è molto critico circa la decisione della IAU di limitare il Sistema Solare a soli otto pianeti (Mercurio, Venere, Terra, Marte, Giove, Saturno, Urano e Nettuno).

"Quando si elencano le caratteristiche dei pianeti nani, hanno superfici solide, atmosfere, stagioni e calotte polari, nuclei e spesso dei sistemi satellitari, vale a dire gli stessi attributi dei pianeti più grandi, anche se in scala più piccola".

Brown, che si autodefinisce a cuor leggero il "Killer di Plutone", (in quanto la sua scoperta di Eris ha spinto a ridefinire i termini di classificazione dei pianeti alla IAU), ha detto in merito:

"Una cosa che sappiamo molto bene è che Eris è il 26 per cento più massiccio di Plutone, un valore non trascurabile di massa anche se hanno lo stesso diametro e vengono chiamati "gemelli", ma Eris è per lo più composto da roccia e un sottile strato di ghiaccio sulla parte esterna, mentre Plutone è molto più ghiacciato sulla parte esterna".

"Ai remoti confini del Sistema Solare esterno stiamo trovando una quantità incredibile di oggetti. Ci sono corpi come Eris o come lo Haumea dalla strana forma, che è principalmente composto di roccia, mentre Quaoar è invece composto per lo più da ghiaccio".

La missione New Horizon nel 2015, amplierà la nostra comprensione di questa regione ancora a 82 anni dalla scoperta di Tombaugh.

Quando vedremo Plutone, New Horizon ci mostrerà quello che sembra un vero e proprio pianeta.

Ma come Stern sottolinea "vedere in faccia Plutone potrebbe essere per l'opinione pubblica il fattore decisivo nel dibattito a prescindere da come la IAU abbia riclassificato i corpi celesti minori".

Adattamento A Cura Di Arthur McPaul

Fonte:
http://news.discovery.com/space/pluto-at-82-a-chihuahua-among-planets-120218.html

APEX Volge Lo Sguardo Alle Nubi Oscure del Toro




Una nuova immagine dal telescopio APEX (Atacama Pathfinder Experiment) in Cile mostrano un filamento sinuoso di polvere cosmica, lungo più di dieci anni luce. Stelle neonate vi si nascondo all'interno e dense nubi di gas sono sull'orlo del collasso, pronte per formare ancora nuove stelle. È una delle regioni di formazione stellare più vicine a noi. I grani di polvere cosmica sono così freddi che osservazioni a lunghezze d'onda del millimetro, come quelle realizzate dalla camera LABOCA sul telescopio APEX sono necessarie per rivelare il loro tenue bagliore.

La Nube Molecolare del Toro, nella costellazione omonima, si trova a circa 450 anni luce dalla Terra. Questa immagine mostra due parti di una lunga struttura filamentosa, note come Barnard 211 e Barnard 213. I loro nomi derivano dall'atlante fotografico dei "segni scuri nel cielo" (On the dark markings of the sky), compilato da Edward Emerson Barnard nel 20esimo secolo. In luce visibile queste regioni appiono come nastri scuri, privi di stelle. Barnard correttamente interpretò questo aspetto come dovuto alla presenza di "materia spaziale che assorbe la luce".

Oggi sappiamo che queste macchie scure sono effettivamente nebi di gas interstellare e grani di polvere. I grani di polvere -- particelle minuscole simili a fuliggine e sabbia finissima -- assorbono la luce visibile, impedendoci di vedere il ricco campo stellato al di là della nube. La Nube Molecolare del Toro è particolarmente scura nella banda visibile, poichè non è illuminata da stelle massicce, come accade in altre regioni di formazione stellare comela Nebulosa di Orione (si veda per esempio eso1103). I grani di polvere stessi emettono debolmente a causa del calore ma, poichè sono molto freddi, circa -260 gradi C, questa emissione può essere vista solo a lunghezze d'onda molto più lunghe di quelle della luce visibile, dell'ordine del millimetro (si veda l'immagine eso1209b e il confronto con eso1209ea, muovendo il mouse sull'immagine, per evidenziare come nella banda millimetrica la regione sia brillante e scura invece in luce visibile).

Queste nubi di gas e polvere non sono solamente un ostacolo per gli astronomi che vogliono osservare le stelle oltre la nube, ma sono esse stesse il luogo di nascita di nuove stelle. Quando le nubi collassano sotto la spinta della propria gravità, si frammentano: all'interno di questi grumi si formano nuclei densi, in cui l'idrogeno gassoso diventa sufficientemente denso e caldo da iniziare le reazioni di fusione, e così è nata una nuova stella. La nascita delle stelle è dunque velata da un bozzolo di polvere densa, che impedisce le osservazioni nella lunghezza d'onda visibile. Questo è il motivo per cui le osservazioni a lunghezze d'onda maggiore, come nella banda millimetrica, sono fondamentali per comprendere i primi stadi della formazione delle stelle.

La porzione in alto a destra del filamento qui mostrato è Barnard 211, mentre la parte in basso a sinistra è Barnard 213. Le osservazioni in banda millimetrica della camera LABOCA sul telescopio APEX mostrano il bagliore dei grani di polvere cosmica in toni aranciati sovrapposti sull'immagine in luce visibile della regione che mostra il ricco sfondo di stelle. La stella brillante sopra il filamento è φ Tauri, mentre quella parzialmente visibile al bordo sinistro dell'immagine è HD 27482. Entrambe le stelle sono più vicine a noi rispetto al filamento e non sono associate ad esso.

Le osservazioni mostrano che Barnard 213 si è già frammentata in nuclei densi -- come dimostrano i grumi di polvere brillanti -- e la formazione stellare si è già realizzata. Invece, Barnard 211 è in una fase precedente dell'evoluzione: il collasso e la frammentazione sono ancora in corso e porteranno in futuro alla formazione di stelle. Questa regione è perciò un sito eccellente per studiare come i "segni scuri nel cielo" di Barnard svolgono un ruolo fondamentale nel ciclo della vita delle stelle.

Le osservazioni sono state realizzate da Alvaro Hacar (Observatorio Astronómico Nacional-IGN, Madrid, Spagna) e collaboratori. La camera LABOCA è montata sul telescopio APEX da 12 metri, sulla piana di Chajnantor nelle Ande cilene, ad un'altitudine di 5000 metri. APEX è un precursore del telescopio submillimetrico di nuova generazione, ALMA (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array) in costruzione nella piana.

Ulteriori Informazioni
APEX è una collaborazione tra il Max-Planck-Institut für Radioastronomie (MPIfR), l'Onsala Space Observatory (OSO), e l'ESO. La gestione del telescopio è affidata all'ESO.

ALMA, l'Atacama Large Millimeter/submillimeter Array, una struttura osservativa astronomica internazionale, è costruita in partnership tra Europa, Nord America e Asia Orientale in cooperazione con la Repubblica del Cile. La costruzione e la gestione di ALMA sono condotte dall'ESO per conto dell'Europa, dall'NRAO (National Radio Astronomy Observatory) per conto del Nord America e dal NAOJ (National Astronomical Observatory of Japan) per conto dell'Asia Orientale. Il JAO (Joint ALMA Observatory) garantisce una guida e gestione unica alla costruzione, alla verifica e alla gestione di ALMA.

Nel 2012 cade il 50o anniversario della fondazione dell'ESO (European Southern Observatory, o Osservatorio Australe Europeo). L'ESO è la principale organizzazione intergovernativa di Astronomia in Europa e l'osservatorio astronomico più produttivo al mondo. È sostenuto da 15 paesi: Austria, Belgio, Brasile, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Olanda, Portogallo, Repubblica Ceca, Spagna, Svezia, e Svizzera. L'ESO svolge un ambizioso programma che si concentra sulla progettazione, costruzione e gestione di potenti strumenti astronomici da terra che consentano agli astronomi di realizzare importanti scoperte scientifiche. L'ESO ha anche un ruolo di punta nel promuovere e organizzare la cooperazione nella ricerca astronomica. L'ESO gestisce tre siti osservativi unici al mondo in Cile: La Silla, Paranal e Chajnantor. Sul Paranal, l'ESO gestisce il Very Large Telescope, osservatorio astronomico d'avanguardia nella banda visibile e due telescopi per survey. VISTA, il più grande telescopio per survey al mondo, lavora nella banda infrarossa mentre il VST (VLT Survey Telescope) è il più grande telescopio progettato appositamente per produrre survey del cielo in luce visibile. L'ESO è il partner europeo di un telescopio astronomico di concetto rivoluzionario, ALMA, il più grande progetto astronomico esistente. L'ESO al momento sta progettando l'European Extremely Large Telescope o E-ELT (significa Telescopio Europeo Estremamente Grande), della classe dei 40 metri, che opera nell'ottico e infrarosso vicino e che diventerà "il più grande occhio del mondo rivolto al cielo".

Fonte:
http://www.eso.org/public/italy/news/eso1209/

Campioni Lunari Ai Raggi X Per Spiegare L.Assenza Di Vulcani Attivi




A differenza della Terra, sulla Luna, non ci sono vulcani attivi e le tracce del suo passato non mostrano una attività vulcanica da miliardi di anni. Questo è sorprendente perché i dati recenti sui terremoti lunari suggeriscono che vi sarebbe abbondanza di magma liquido nel profondo della Luna e una parte delle rocce che vi risiedono si pensa che siano ancora allo stato fuso.

Gli scienziati hanno ora identificato una probabile ragione per questa relativa tranquillità dello strato più superficiale: la roccia fusa negli strati più profondi della Luna potrebbe essere così densa che è semplicemente troppo pesante per salire in superficie come farebbe una bolla nell'acqua.

Per i loro esperimenti, gli scienziati hanno prodotto copie microscopiche di roccia lunare raccolti dalle missioni Apollo e le hanno fuse alle pressioni e temperature estremamente elevate che si trovano all'interno del Luna. Hanno quindi misurato la loro densità con potenti fasci di raggi X.

Il team è stato guidata da Mirjam van Kan Parker e Wim van Westrenen della VU University of Amsterdam ed è composto da scienziati delle Università di Parigi 6/CNRS, Lione 1/CNRS, Edimburgo, e dall'European Synchrotron Radiation Facility (ESRF) a Grenoble.

Cinque decenni dopo le missioni Apollo, la formazione e la storia geologica della Luna continua a nascondere molti segreti. Gli astronauti non solo hanno riportato 380 kg di rocce lunari sulla Terra, ma hanno anche utilizzato molti strumenti scientifici sulla superficie. L'anno scorso, gli scienziati della NASA hanno pubblicato un nuovo modello degli interni della Luna, utilizzando i dati dei "Moonquake" tratti dai sismometri delle missioni Apollo.

Renee Weber e i suoi colleghi sostengono che le parti più profonde del mantello lunare, che si affacciano sul piccolo nucleo metallico, sono parzialmente fuse, almeno fino al 30 per cento. Sulla Terra, tali organismi di magma tendono a muoversi verso la superficie portando ad eruzioni vulcaniche. Se l'interno profondo della Luna contenesse davvero così tanto magma, perché non vediamo spettacolari eruzioni vulcaniche sulla sua superficie?

La forza motrice per il movimento verticale del magma è la differenza di densità tra il magma e il materiale circostante solido, spingendo il magma liquido lentamente verso l'alto come una bolla. Più caldo è il magma liquido, più violento sarà il movimento verso l'alto.

Per determinare la densità del magma lunare, Wim van Westrenen e i suoi colleghi hanno sintetizzato la roccia lunare nel loro laboratorio di Amsterdam, utilizzando per la loro "ricetta" i campioni lunari delle missioni Apollo.
Le pressioni e le temperature vicino al nucleo della Luna sono a più di 45.000 bar e a circa 1500 gradi. È possibile generare queste condizioni estreme con piccoli campioni, riscaldandoli con una corrente elettrica mentre lo schiacciamento avviene in una pressa. Misurando l'attenuazione di un potente fascio di sincrotrone di raggi X all'ESRF che attraversa il campione sia solido che fuso, la densità ad alta pressione ed alta temperatura può essere misurata. "Abbiamo dovuto utilizzare il più brillante fascio di raggi X in tutto il mondo per questo esperimento, perché il campione di magma è così piccolo e confinato in un massiccio contenitore altamente assorbente. Senza un fascio luminoso di raggi X, non si può misurare queste variazioni di densità ", dice Mohamed Mezouar dal ESRF.

Le misurazioni presso l'ESRF sono state combinate con delle simulazioni al computer per calcolare la densità del magma in ogni posizione della Luna.
Quasi tutti i magmi lunari sono risultati meno densi del solido che li circondano, in modo simile alla situazione sulla Terra. C'è una sola eccezione importante: le piccole gocce di titanio ricco di vetro trovate nella missione Apollo 14, producono un magma liquido denso come le rocce che si trovano nelle parti più profonde del mantello lunare oggi. Questo magma non si muove verso la superficie.

Tale titanio ricco di magma può essere formato da rocce ricche di di titanio solido. Gli esperimenti precedenti hanno dimostrato che tali rocce si sono formate subito dopo la formazione della Luna a livelli poco profondi, vicino alla superficie. Come sono arrivati ​​dunque in profondità nel mantello? Gli scienziati concludono che i grandi movimenti verticali devono essersi verificati nella prima parte della storia lunare, durante la quale le rocce ricche di titanio discendevano vicino la superficie fino al nucleo-mantello.

"Dopo la discesa, il magma formato da queste rocce in prossimità della superficie, era molto ricco in titanio e si è accumulato nella parte inferiore del mantello. Un pó come un saliscendi vulcanico.
Oggi, la Luna si sta ancora raffreddando, così mentre si scioglie al suo interno, in un lontano futuro, il dispositivo di raffreddamento e di solidificazione fusione cambierà nella composizione, probabilmente rendendola meno densa di quella odierna Questo magma più leggero potrebbe fare la sua strada di nuovo verso la superficie formando un vulcano attivo sulla Luna. Cosa che sarebbe uno spettacolo, ma per il momento, questa è solo un'ipotesi per stimolare altri esperimenti", conclude Wim van Westrenen.

I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Nature Geoscience il 19 febbraio 2012.

Traduzione A Cura Di Arthur McPaul

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2012/02/120219143323.htm

domenica 19 febbraio 2012

Echi Di Luce Dal Passato Di Eta Carinae




Gli astronomi stanno guardando una trasmissione in differita di una spettacolare esplosione spettacolare del sistema stellare Eta Carinae, un evento inizialmente avvistato già quasi 170 anni fa.

Soprannominata la "grande eruzione", il primo impeto ha catturato l'attenzione degli osservatori del cielo nel 1837 ed è stato osservato nel 1858. Ma gli astronomi non avevano strumenti scientifici sofisticati per registrare accuratamente l'attività del sistema stellare in modo costante.

Fortunatamente per gli astronomi di oggi, una parte della luce dall'eruzione ha preso un percorso indiretto alla Terra ed giunto solo oggi, offrendo l'opportunità di analizzare in dettaglio il fenomeno.

La luce si stava dirigendo in una direzione diversa, lontano dal nostro pianeta, quando è rimbalzata sulle nubi di polvere prolungatesi lontano dalle turbolenti stelle e fu dirottata verso la Terra (un effetto chiamato "echi di luce").

A causa del suo percorso più lungo, la luce ha poi raggiunto la Terra 170 anni dopo che se arrivava direttamente.
Le osservazioni degli echi di luce di Eta Carinae stanno fornendo una nuova visione del comportamento delle potenti stelle massicce sull'orlo della detonazione. Le analisi dell'eruzione della stella vicina rivelano alcuni risultati inattesi, che costringeranno gli astronomi a modificare i modelli fisici di sfogo.
"Quando l'eruzione è stata osservata sulla Terra 170 anni fa, non c'erano telecamere in grado di registrare l'evento", ha spiegato il responsabile dello studio Rest Armin dello Space Telescope Science Institute di Baltimora, nel Maryland. "Tutto quello che gli astronomi hanno saputo fino ad oggi sull'eruzione di Eta Carinae proviene dai racconti di testimoni oculari e da osservazioni moderne con strumenti scientifici che sono stati fatti anni dopo che l'eruzione è realmente accaduta.
E' come se la natura avesse lasciato una registrazione della manifestazione, che stiamo appena cominciando a guardare".

Situato a 7.500 anni luce dalla Terra, Eta Carinae è uno dei sistemi stellari più grandi e più brillanti della nostra galassia chiamata Via Lattea.
Anche se il duo caotico è noto per i suoi sfoghi petulanti, la "grande eruzione" è stata la più grande mai osservata, in cui Eta Carinae ha versato circa 20 masse solari ed è diventata la seconda stella più brillante nel cielo. Parte del deflusso ha formato due lobi giganti nel sistema.

Prima che l'evento accadesse, la coppia stellare era 140 volte più sostanziosa del nostro Sole.
Poiché Eta Carinae è relativamente vicina, gli astronomi hanno utilizzato una varietà di telescopi, compreso il telescopio spaziale Hubble, per documentare le sue eruzioni. Il team di studio ha coinvolto un mix di osservazioni in luce visibile e spettroscopiche da molti telescopi terrestri.

Le osservazioni segnano la prima volta in cui gli astronomi hanno usato la spettroscopia per analizzare gli echi di luce proveniente da una stella in fase di potente eruzione ricorrente, anche se questo fenomeno era già stato osservato attorno ad esplosioni di stelle supernovae.

La spettroscopia cattura le "impronte digitali" di una stella fornendo i dettagli circa il suo comportamento, compresa la temperatura e la velocità del materiale espulso.

Le trasmissione in differita che ci giungono stanno dando agli astronomi uno sguardo unico del fenomeno e sollevano qualche sorpresa. Il turbolento sistema non si comporta come le altre stelle della sua categoria.
Eta Carinae è un membro di una classe stellare chiamata "variabili luminose blu", cioè stelle molto luminose che tendono ad avere esplosioni periodiche. La temperatura del deflusso dalla regione centrale di Eta Carinae, per esempio, è di circa 8.500 gradi Fahrenheit (5.000 Kelvin), che è molto più fresca di quello di altre eruzioni stellari.

"Questa stella sembra davvero essere stravagante", ha detto Rest. "Ora dobbiamo rivedere i modelli e capire cosa cambiare per produrre effettivamente quello che stiamo misurando".

Il team di Rest è stato il primo ad individuare l'eco di luce, mentre il confronto a luce visibile delle osservazioni del duo stellare erano avvenute nel 2010 e nel 2011 con il National Optical Astronomy Observatory di Blanco e il telescopio da 4 metri al Tololo Cerro Inter-American Observatory (CTIO) in Cile. Un altro insieme di osservazioni sono state effettuate con il CTIO nel 2003 dall'astronomo Nathan Smith della University of Arizona a Tucson, che lo aiutò a mettere insieme i 20 anni di esplosione.

Le immagini hanno rivelato la luce che sembrava un dardo luminoso attraverso un canyon di polvere che circonda il sistema della stella. "Sono saltato su e giù quando ho visto l'eco di luce", ha detto Rest, che ha studiato gli echi di luce da potenti esplosioni di supernova. "Non mi aspettavo di vedere gli echi di luce di Eta Carinae, perché l'eruzione era più debole rispetto all'esplosione di una supernova.

Sapevamo che probabilmente non era materiale in movimento attraverso lo spazio. Per vedere qualcosa di questo movimento attraverso lo spazio ci vorranno decenni di osservazioni. Noi, però, abbiamo osservato il movimento di un anno. Ecco perché abbiamo pensato che fossero probabilmente echi di luce".

Anche se la luce nelle immagini sembra muoversi nel tempo, è davvero un'illusione ottica. Ogni lampo di luce raggiunge la Terra in un momento diverso, come la voce di una persona che riecheggia sulle pareti di un canyon.

Il team ha seguito il suo studio con osservazioni spettroscopiche, utilizzando il Carnegie Institution di Washington Magellan e il telescopio du Pont a Las Campanas Observatory in Cile.

Tale studio ha aiutato gli astronomi a decodificare la luce, che rivela la velocità del flusso e la temperatura. Le osservazioni hanno mostrato che il materiale espulso si muoveva a circa 445 mila miglia all'ora (più di 700.000 chilometri orari), che corrisponde alle previsioni.
Il team di Rest monitorizza i cambiamenti d'intensità degli echi di luce con il Las Cumbres Osservatorio Global Telescope Network Faulkes South Telescope in Siding Spring, in Australia.

Il team ha quindi confrontato queste misurazioni degli astronomi del 1843 con la luminosità della luce e la regolazione nel corso dei 20 anni di eruzione. Le nuove misurazioni corrispondono al picco di luminositá del 1843.

Il team continuerà a seguire Eta Carinae, perché la luce dell'esplosione è ancora in diretta verso Terra. "Dovremmo vederla ancora una volta illuminata entro sei mesi con un altro aumento di luce come visto nel 1844". ha detto Rest. "Speriamo di catturare la luce dalla sfuriata da diverse direzioni, in modo da poter avere un quadro completo".

Il documento del team è stato pubblicato il 16 febbraio sulla rivista Nature.

Il resto del team comprende JL Prieto, della Carnegie Observatories, Pasadena, California; NR Walborn e H.E. Bond dello Space Telescope Science Institute, Baltimore e Md, N. Smith dallo Steward Observatory, University of Arizona, Tucson; FB Bianco e d.Ä. Howell, del Las Cumbres Observatory del Global Telescope Network, Goleta, in California, e la University of California, Santa Barbara, R. Chornock, RJ Foley, e W. Fong, Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics, Cambridge, Mass.; DL Welch e B. Sinnott, McMaster University, Hamilton, Ontario, ME Huber, Johns Hopkins University, Baltimora, Maryland; RC Smith, Cerro Tololo Inter-American Observatory, National Optical Astronomy Observatory, La Serena, Cile; I. Toledo, Atacama Large Millimeter Array (ALMA), Cile, D. Minniti, Pontifica Universidad Catolica, Santiago, Cile, e K. Mandel, Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics, Cambridge, Mass., e Imperial College London, UK

Traduzione A Cura Di Arthur McPaul

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2012/02/120215142819.htm

sabato 18 febbraio 2012

Un Fossile Del Sistema Solare




Un fossile del Sistema Solare a lungo conservato nel cuore della Terra.

Per quasi due miliardi di anni, blocchi di materiale formatosi poco dopo la nascita del Sistema Solare, circa 4,5 miliardi di anni fa, si sarebbero conservati nel mantello terrestre primitivo. Lo dimostra uno studio dell’Università del Maryland pubblicato sulla rivista Science.

Studiando alcune rocce vulcaniche, i ricercatori sono riusciti a risalire alla composizione di una Terra giovanissima e del suo mantello in formazione. Secondo quanto indicato nello studio, verrebbe meno la teoria secondo la quale i diversi ingredienti che componevano guscio terrestre primordiale si fossero ben mescolati fra loro già nel corso dell’infanzia del nostro pianeta.

Ma analizzando la composizione chimica di un deposito di tungsteno, gli autori dello studio, hanno rilevato come questo si sarebbe formato nel cuore della Terra nei primi 30 milioni di anni successivi alla nascita del Sistema Solare. Da questo hanno dedotto che diversi elementi, come il tungsteno, non si sarebbero mescolati fra loro quando il Sistema Solare era giovanissimo e mentre la Terra stava ancora organizzando il suo nucleo e il mantello. A seconda della loro affinità con il ferro, infatti, gli elementi primitivi si sarebbero divisi, organizzandosi in blocchi che si sono conservati intatti per quasi 1,7 miliardi di anni.

A Cura Di Media INAF

Fonti:
http://www.media.inaf.it/2012/02/16/un-fossile-del-sistema-solare/

venerdì 17 febbraio 2012

Ammassi Globulari: Sopravvivono Da Oltre 13 Miliardi Di Anni




La Via Lattea è circondata da circa 200 gruppi compatti di stelle, contenenti fino ad un milione di stelle ciascuno. A 13 miliardi di anni di età, questi ammassi globulari sono vecchi quasi come l'Universo stesso e sono nati quando le prime generazioni di stelle e galassie si formarono.

Un team di astronomi provenienti da Germania e Paesi Bassi ha condotto un nuovo tipo di simulazione al computer che ha dimostrato che questi ammassi di stelle giganti sono gli unici superstiti rimasti.

Il nuovo lavoro, guidato dal dottor Diederik Kruijssen del Max Planck Institute for Astrophysics di Garching, in Germania, compare in un documento nelle Comunicazioni rivista mensile della Royal Astronomical Society.

Gli ammassi stellari globulari hanno una caratteristica notevole: il numero tipico di stelle che contengono sembra essere circa lo stesso in tutto l'Universo. Questo numero è in contrasto con gli ammassi stellari più giovani, che possono contenere qualsiasi numero di stelle, da meno di 100 a molte migliaia.

Il team di scienziati propone che questa differenza possa essere spiegata dalle condizioni alle quali gli ammassi globulari si sono formati fin dalle prime fasi l'evoluzione delle loro galassie ospiti.
I ricercatori hanno effettuato delle simulazioni di galassie isolate e in collisione, in cui sono inclusi un modello per la formazione e la distruzione di ammassi stellari.

Quando le galassie si scontrano, spesso generano spettacolari esplosioni di formazione stellare ("starburst") e brillanti ammassi stellari giovani di diverse dimensioni. Come risultato si è sempre pensato che il numero totale degli ammassi aumenta durante gli starburst. Ma il team tedesco-olandese ha trovato un risultato opposto nelle loro simulazioni.

Mentre i cluster molto più brillanti e più grandi erano infatti in grado di sopravvivere alla collisione della galassia a causa della loro attrazione gravitazionale, i grappoli più piccoli sono stati effettivamente distrutti dalle forze gravitazionali in rapida evoluzione che tipicamente si verificano durante gli starbursts dovuti al movimento del gas, della polvere e delle stesse stelle.
L'ondata di starburst si è conclusa dopo circa 2 miliardi di anni e i ricercatori sono stati sorpresi nel vedere che solo i cluster con un alto numero di stelle erano sopravvissuti.

Questi gruppi avevano tutte le caratteristiche che dovrebbero essere previste per una popolazione giovane di ammassi globulari, come sarebbero stati circa 11 miliardi di anni fa.

Dice in merito il dottor Kruijssen: "E' ironico vedere che gli starbursts possano produrre molti giovani ammassi stellari, ma al tempo stesso anche distruggere la maggior parte di essi. Ciò si verifica non solo nelle collisioni di galassie, ma ci si dovrebbero aspettare starbust in qualsiasi ambiente. Nell'Universo primordiale, gli starbursts erano all'ordine del giorno (avrebbe quindi perfettamente senso che tutti gli ammassi globulari hanno approssimativamente lo stesso numero elevato di stelle). I loro fratelli e sorelle più piccoli che non contengono tale numero, erano quindi destinati ad essere distrutti ".

Secondo le simulazioni, la maggior parte degli ammassi stellari sono stati distrutti poco dopo la loro formazione, quando l'ambiente galattico era ancora molto ostile ai giovani ammassi. Dopo che questo episodio terminó, gli ammassi globulari superstiti hanno vissuto tranquillamente fino ai giorni nostri.

I ricercatori hanno ulteriori suggerimenti per testare le loro idee. Il Dr Kruijssen continua: "Nel vicino Universo, ci sono diversi esempi di galassie che sono state recentemente sottopostie a grandi esplosioni di formazione stellare. Dovrebbe pertanto essere possibile vedere la rapida distruzione di piccoli ammassi stellari in azione. Se questa idea venisse infatti confermata da nuove osservazioni, la nostra teoria sarebbe adatta a spiegare l'origine degli ammassi globulari".

Le simulazioni suggeriscono che la maggior parte dei tratti di un ammasso globulare sono stati stabiliti quando si sono formati. Il fatto che gli ammassi globulari sono paragonabili ovunque indicherebbe che gli ambienti in cui si formavano erano molto simili, a prescindere della galassia in cui attualmente risiedono. In questo caso, il dottor Kruijssen crede, che possano essere utilizzati come fossili per far luce sulla condizioni in cui sono nate le prime stelle e galassie.

Traduzione A Cura Di Arthur McPaul

Foto In Alto
Ammasso Globulare M80 (credit: HST/NASA/ESA)

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2012/02/120214100815.htm

martedì 14 febbraio 2012

Nuove Scoperte Da Planck Sulla Via Lattea




Mano a mano che la missione dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) Planck procede nella sua esplorazione verso gli albori dell’Universo, analizzando i dati in arrivo gli scienziati continuano a imbattersi in aspetti sconosciuti della nostra Galassia.

Due le principali caratteristiche inedite emerse di recente, protagoniste di un convegno internazionale che si tiene questa settimana a Bologna: enormi nubi di gas freddo mai segnalate prima, individuate da Planck grazie all’emissione del monossido di carbonio, e una sorta di foschia a microonde – o haze, come l’hanno battezzata gli astrofisici – la cui origine è tutt’ora senza spiegazione.

La prima mappa a tutto cielo del monossido di carbonio
Prevalentemente composte da molecole d’idrogeno, le nubi fredde costituiscono i bacini di gas dai quali si formano le stelle. Le molecole d’idrogeno, però, non emettono facilmente radiazione elettromagnetica e questo le rende assai difficili da rilevare. Ma anche il monossido di carbonio (CO), che nelle nostre città è uno fra gli inquinanti atmosferici più diffusi, è un costituente delle nuvole fredde che popolano la Via Lattea e altre galassie. Seppur molto più rare di quelle d’idrogeno, le molecole di CO emettono radiazione elettromagnetica proprio nelle frequenze alle quali è sensibile Planck.

Ed è proprio rilevandone le impronte che gli scienziati di Planck sono riusciti non solo a individuare nuove nubi molecolari dove non ci si attendeva d’incontrarne, ma addirittura a tracciare la prima mappa a tutto cielo delle emissioni di monossido di carbonio. Mappa che si rivelerà uno strumento preziosissimo, per esempio, per i radiotelescopi terrestri, anch’essi sensibili elle emissioni del CO ma costretti a esplorare solo porzioni limitate di cielo, a causa dell’enorme quantità di tempo che richiederebbe una survey completa.

Nebbia fitta nel centro galattico
Se la mappa a tutto cielo del monossido di carbonio è una prima assoluta, la grande sorpresa che le ultime analisi dei dati di Planck stanno regalando agli scienziati è una misteriosa foschia di microonde che sfida ogni spiegazione. Battezzata haze, o foschia, è stata rilevata da Planck nella regione che circonda il centro galattico, e si presenta come un tipo di emissione ben noto agli astrofisici: l’emissione di sincrotrone, generata allorché gli elettroni, accelerati dalle esplosioni di supernovae, si trovano ad attraversare i campi magnetici.

L’emissione di sincrotrone associata a questa nuova, enigmatica foschia galattica presenta però caratteristiche che la rendono diversa da quella che si osserva altrove nella Via Lattea. In particolare, lo haze ha uno spettro più “duro”: vale a dire che, spostandosi verso energie maggiori, dunque verso frequenze più alte, l’intensità della sua emissione non diminuisce in modo repentino come invece avviene per l’emissione di sincrotrone “standard”. Un comportamento insolito per il quale gli scienziati stanno valutando le ipotesi più disparate, dalla maggiore frequenza di esplosione di supernovae al vento galattico, fino all’annichilazione di particelle di materia oscura. A oggi nessuna di queste ha però ricevuto una conferma, e il mistero perdura.
Gli ultimi veli prima della mappa cosmologica

Obiettivo primario di Planck è quello di osservare il fondo cosmico a microonde (CMB), risalente ad appena 380mila anni dopo il Big Bang, e decodificare le informazioni in esso contenute sulle componenti fondamentali dell'Universo e l'origine della struttura cosmica. Per vedere nei dettagli il fondo cosmico, però, occorre anzitutto rimuovere le contaminazioni introdotte dalla moltitudine di sorgenti di foregrounds (così chiamato perché si trovano davanti al fondo) sovrapposte. Fra di esse, l‘emissione del monossido di carbonio e la foschia galattica presentate in questi giorni a Bologna. «Un compito lungo e delicato, quello della rimozione, in grado però di fornirci un insieme di dati di prima qualità, tali da offrirci uno sguardo inedito sui temi caldi dell’astronomia galattica ed extragalattica», spiega Jan Tauber, dell’ESA, project scientist di Planck.

«I dati che il satellite Planck ha raccolto nei quasi tre anni di vita operativa stando dando informazioni estremamente importanti, che aiuteranno gli scienziati a comprendere meglio le problematiche che riguardano la nascita dell’Universo», dice Barbara Negri, responsabile ASI per l’Esplorazione e Osservazione dell’Universo.

«Il lavoro di analisi di più di 450 scienziati di Planck continua senza sosta, per arrivare puntuali al rilascio, all’inizio del 2013, dei primi risultati cosmologici: quelli da cui ci attendiamo grandi sorprese», afferma Reno Mandolesi, responsabile dello strumento a bassa frequenza (LFI) del satellite. «Nel frattempo Planck», continua Mandolesi, «rimasto orfano dello strumento ad altra frequenza (HFI) per l’esaurimento dell’elio liquido necessario a raffreddare a 0.1 gradi Kelvin – la più bassa temperatura mai raggiunta nello spazio – i suoi bolometri, continua ad accumulare dati nella sua esplorazione del cielo con il solo strumento LFI, ancora perfettamente funzionante ed efficiente. Sono molto orgoglioso di guidare un team internazionale, con grande partecipazione italiana, di valore straordinario. Con Planck, la più complessa missione mai realizzata da ESA, l’Italia con ASI, INAF e le università coinvolte dimostra ancora una volta di essere una delle nazioni spaziali di eccellenza a livello internazionale».

Foto di apertura
La "foschia galattica" (haze) vista da Planck e le "bolle galattiche" (bubbles) viste da Fermi

In alto, insieme ad altre sorgenti, la distribuzione spaziale sull'intero cielo del "galactic haze" visto a 30 e 44 GHz dai rivelatori di Planck/LFI, lo strumento "italiano" di Planck. Si tratta di un'emissione di sincrotrone diffusa che si pensa possa essere dovuta a una maggiore frequenza di esplosione di supernovae, oppure al vento galattico, o ancora all'annichilazione di particelle di materia oscura. A oggi nessuna di queste ipotesi ha però ricevuto una conferma.
In basso, una sovrapposizione fra la distribuzione del "galactic haze" visto da Planck nel cielo a microonde (a 30 e 44 GHz, qui in rosso e giallo) e il cielo a raggi gamma (tra 10 e 100 GeV, qui rappresentato in blu) rilevato dal telescopio spaziale Fermi della NASA. I dati di Fermi rivelano due grandi strutture a forma di bolla che si estendono dal centro galattico. Le due regioni, osservate da Planck e da Fermi ai due estremi opposti dello spettro elettromagnetico, risultano spazialmente molto ben correlate, e potrebbero dunque effettivamente essere una manifestazione - attraverso differenti processi di emissione - della medesima popolazione di elettroni.

In entrambe le immagini, la banda orizzontale nera centrale nasconde il piano galattico, mascherato durante l'analisi dei dati di Planck per escludere regioni ad alta contaminazione di foregrounds dovuta all'intensa emissione della Galassia.

Crediti immagine in alto: ESA/Planck Collaboration. Crediti immagine in basso: ESA/Planck Collaboration (microwave) e NASA/DOE/Fermi LAT/D. Finkbeiner et al. (gamma rays).



Fisica fondamentale al centro della nostra Galassia:
Planck LFI come "telescopio per la materia oscura"?


Uno studio basato sulle frequenze osservate da Planck LFI è rivelatore di un segnale di "eccesso" proveniente dal centro della nostra Galassia, che potrebbe essere rivelatore di processi di fisica fondamentale ancora sconosciuti, e in particolare dell'annichilazione di particelle di materia oscura.
Tramite una parametrizzazione e successiva sottrazione delle componenti note del segnale proveniente da quella regione, è stato possibile verificare l'esistenza di un residuo di luminosità evidente in particolare alla frequenza di 30 GHz, che non è spiegato dalla composizione Galattica nota, ma come detto essere un tracciatore di materia oscura.

Questo risultato, oggetto di uno dei più importanti intermediate papers, potrebbe essere una guida per futuri lavori teorici e sperimentali che abbiano la comprensione della materia oscura come principale bersaglio.

Crediti: ESA/Planck Collaboration



Mappa a tutto cielo del gas molecolare visto da Planck e da survey precedenti.

In alto, la distribuzione del monossido di carbonio (CO), una molecola utilizzata dagli astronomi per tracciare le nubi molecolari presenti in cielo, rilevata da Planck (in blu) e da precedenti osservazioni (Dame et al. 2001, in rosso). Come si può notare, la mappa ottenuta dai dati di Planck - la prima a tutto cielo che sia mai stata compilata - comprende ampie porzioni di cielo inedite, rimaste inesplorate dalle precedenti indagini.
In basso, il dettaglio di tre particolari regioni del cielo nelle quali Planck ha rilevato alte concentrazioni di CO, in corrispondenza delle costellazioni di Cefeo, del Toro e di Pegaso.

Le nubi molecolari - regioni dense e compatte, distribuite in tutta la Via Lattea, nelle quali si ammassano gas e polveri - rappresentano una delle fonti di emissione in primo piano (foregrounds) osservate da Planck. La stragrande maggioranza del gas presente in queste nubi è costituita da idrogeno molecolare (H2), ed è in queste regioni fredde che si formano le stelle. Poiché l'idrogeno molecolare non irradia facilmente, per individuare queste "culle cosmiche" gli astronomi si avvalgono di altre molecole in esse presenti, meno abbondanti ma molto più facili da tracciare. La più importante è la molecola del monossido di carbonio, il cui spettro rotazionale presenta righe d'emissione nelle frequenze alle quali sono sensibili i rivelatori di Planck/HFI.

Crediti immagine in alto: ESA/Planck Collaboration; T. Dame et al., 2001. Crediti immagine in basso: ESA/Planck Collaboration.

Fonti:
http://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2012/02/cs-planck-2012.pdf

http://www.media.inaf.it/press/planck-co-haze/

sabato 11 febbraio 2012

Transazioni Di Fase Liquido-Liquido Nei Mantelli Degli Esopianeti?




Così come la grafite è in grado di trasformarsi in diamante se sottoposta ad alta pressione, così il magma liquido può subire grandi trasformazioni alle alte pressioni e temperature che esistono dentro i pianeti simili alla Terra.

Utilizzando un laser ad alta potenza, gli scienziati del Lawrence Livermore National Laboratory e collaboratori, hanno scoperto che il silicato fuso di magnesio subisce un improvviso cambiamento di fase allo stato liquido, trasformandosi in un liquido più denso con una crescente pressione. La ricerca permette di comprendere meglio la formazione di pianeti.

"I cambiamenti di fase tra i diversi tipi di fusioni non sono stati presi in considerazione nei modelli dell'evoluzione planetaria", ha detto il ricercatore Dylan Spaulding, della University of California, Berkeley, che ha condotto gran parte del suo lavoro di tesi presso il Laboratorio con lo strumento Jupiter Laser.

"Ma potrebbe aver giocato un ruolo importante durante la formazione della Terra e può indicare che i pianeti extra-solari di tipo terrestre potrebbero essere strutturati in modo diverso dalla Terra".

Il team ha dichiarato che la pressione indotta liquido-liquido dalla separazione di fase in magmi di silicato può rappresentare un importante meccanismo per la scala globale di differenziazione chimica e può anche influenzare il trasporto termico e i processi convettivi che governano la formazione di un mantello e del nucleo nella storia planetaria primordiale.

La separazione di fase liquido-liquido è simile alla differenza tra l'olio e l'aceto (non miscelabili perché hanno densità differenti). Nella nuova ricerca, tuttavia, i ricercatori hanno notato un improvviso cambiamento tra stati liquidi di magma di silicato che hanno mostrato diverse proprietà fisiche, anche se entrambi hanno la stessa composizione quando l'alta pressione e temperatura sono state applicate.

Il team ha utilizzato il LLNL di Janus laser e OMEGA presso l'Università di Rochester per condurre gli esperimenti e raggiungere le temperature e pressioni estreme che esistono agli interni dei pianeti extrasolari.

In ciascun esperimento, un potente impulso laser ha generato un'onda d'urto mentre viaggiava attraverso il campione.
Cercando dei cambiamenti nella velocità dell'ammortizzatore e nella temperatura del campione, la squadra era in grado di identificare la discontinuità che ha segnalato un cambiamento di fase nel materiale.

"In questo caso, il decadimento in stato di velocità-shock e l'emissione termica sono di per sé un'inversione di marcia durante lo stesso intervallo di tempo breve", ha detto Spaulding.

Il team ha concluso che una transizione di fase liquido-liquido in una composizione di silicato simile a quella che si sarebbe trovato nei mantelli planetari terrestri, potrebbe contribuire a spiegare l'evoluzione termo-chimica degli interni dei pianeti extrasolari.

La ricerca compare nell'edizione del 10 febbraio della rivista Physical Review Letters.
Altri autori LLNL sono Jon Eggert, Peter Celliers, Damien Hicks, Gilbert Collins e Ray Smith.
Il lavoro è stato finanziato dal National Nuclear Security Administration, dalla National Science Foundation e dall'Università di California.

Traduzione a cura di Arthur McPaul

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2012/02/120211095349.htm

E Per Pasto Asteroidi E Pianeti




Il gigantesco buco nero che si trova al centro della Via Lattea, così come i suoi simili sparsi nell’universo, è talmente vorace da divorare tutto quello che gli capita a tiro. Gas e polvere in gran quantità. E questo era noto già da tempo.

Secondo le indagini condotte grazie all’osservatorio orbitante Chandra della NASA, nella sua ‘dieta’ abituale pare ci sia anche una buona dose di asteroidi. Questa ipotesi potrebbe spiegare le frequenti impennate registrate proprio da Chandra nel flusso di raggi X provenienti da Sagittarius A*, la sorgente di radiazione di alta energia nel cuore della nostra Galassia dove si anniderebbe un buco nero supermassiccio.

Questi ‘flare’ – come vengono chiamati dagli addetti ai lavori - sono molto frequenti: avvengono infatti all’incirca una volta al giorno, con aumenti del flusso di raggi X che per qualche ora possono raggiungere anche le 100 volte quello che è il livello normale della radiazione normalmente emessa dalla sorgente. Fenomeni analoghi sono stati osservati nell’infrarosso anche dal Very Large Telescope dell’ESO in Cile.

“Ci sono stati finora molti dubbi sulla presenza di asteroidi in un ambiente così ostile quale è quello che circonda un buco nero supermassiccio”, ha detto Kastytis Zubovas dell’Università di Leicester nel Regno Unito, primo autore del lavoro in corso di pubblicazione su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society. “La cosa eccitante è che il nostro studio suggerisce la presenza di un gran numero di questi corpi celesti per riuscire a produrre questi flare”.

Così tanti che per il team di ricercatori intorno a Sagittarius A *c’è addirittura una vera e propria nuvola, composta di migliaia di miliardi tra asteroidi e comete, strappati via dalle loro stelle madri. E quelli che vengono a transitare a meno di 150 milioni di chilometri dal buco nero, più o meno quella che è la distanza tra la Terra e il Sole, verrebbero sbriciolati dalle forze di marea esercitate dal suo intenso campo di attrazione gravitazionale . Questi frammenti verrebbero poi vaporizzati dall’attrito con il tenue flusso di gas ad altissima temperatura che fluisce costantemente verso il buco nero, proprio come accade a una meteora nella sua cosra attraverso l’atmosfera terrestre. In questa fase viene prodotto un flare e quello che rimane dell’asteroide viene poi inghiottito dal buco nero.

Nel loro lavoro gli scienziati hanno anche stimato la dimensione minima dei ‘bocconi’ di materiale in grado di produrre gli effetti registrati da Chandra: circa 10 chilometri di raggio. Certo Sagittarius A* divora continuamente anche pezzi più piccoli, ma gli effetti sarebbero troppo deboli per poter essere osservati. ”Abbiamo stimato che poche migliaia di miliardi di asteroidi sono stati finora ingurgitati dal buco nero nei 10 miliardi di anni di vita della galassia” sottolinea Sera Markoff dell’Università di Amsterdam, coautore dell’articolo. “Solo una piccola frazione del totale sarebbe stato quindi consumato, e riteniamo che difficilmente questo serbatoio si sia esaurito”.

Tutto questo riguarda gli asteroidi. Ma la stesa fine potrebbe toccare anche a corpi di dimensioni maggiori, come ad esempio pianeti di tipo roccioso. Certo, questi eventi sarebbero molto meno frequenti, perché in proporzione agli asteroidi il numero di pianeti è molto più basso. Uno potrebbe però essere stato responsabile di un violentissimo flare nei raggi X che circa un secolo fa ha fatto schizzare in alto la luminosità di Sagittarius A * di circa un milione di volte. Come è stato possibile risalire a questo evento se è accaduto molti decenni prima dell’entrata in funzione dei telescopi nei raggi X? Chandra e altri osservatori orbitanti hanno visto la traccia di un “eco di luce” nei raggi X che si riflette nelle nubi di gas e polveri nelle vicinanze del buco nero e che ha permesso di ottenere la misura della luminosità e la tempistica del flare.

A cura di Marco Galliani

Foto in Alto
La regione Sagittarius A* al centro della nostra Galassia osservata nei raggi X dall'Osservatorio orbitante Chandra della NASA. Sulla destra, ricostruzione artistica della distruzione e della vaporizzazione di un asteroide, durante la quale viene prodotto un flare nei raggi X. (Crediti per l'immagine nei raggi X: NASA/CXC/MIT/F. Baganoff et al.Per le illustrazioni: NASA/CXC/M.Weiss)

Fonte:
http://www.media.inaf.it/2012/02/09/e-per-pasto-asteroidi-e-pianeti/