domenica 22 giugno 2014

Brasile, Frana Favela di Mae Luisa








Una voragine enorme si è aperta in una favela a pochi chilometri dallo stadio di Natal in cui giocheranno l'Italia e l'Uruguay, per la terza sfida del girone a punti del mondiale di calcio.

Trapelano alcune indiscrezioni di preoccupazione per il regolare svolgimento della gara, ma non ci sono comunicati ufficiali che ne smentiscono il rinvio.








La zona a ridosso dei quartieri benestanti è stata evacuata poiché la voragine ha inghiottito case e automobili.
La terra è stata letteralmente risucchiata su se stessa nella favela di Mae Luisa dopo le forti piogge dei giorni scorsi, ma il cratere profondo una quindicina di metri si è andato allargando.

Forse un segno del destino che accende i riflettori su una delle grandi vergogne del Brasile, in cui milioni di persone vivono in baracche senza alcun servizio di prima necessità, proprio a ridosso di lussuosi grattacieli di altri cittadini benestanti.

Il Brasile ha di fatto investito miliardi di dollari per le partite, soldi con i quali poteva per sempre risolvere il problema della disperazione di questi diseredati che affollano le periferie delle grandi metropoli carioca.

Attenti italiani, questo ci aspetta se andremo avanti di questo passo.


sabato 21 giugno 2014

Arriva La Mini Turbina Eolica Domestica



Si chiama Liam F1 la miniturbina eolica domestica. Ideata dalla the Archimedes, società con sede a Rotterdam, pensata per dare la possibilità di generare energia eolica privatamente in abitazioni e palazzi.
La turbina ha una capacità di conversione all'80%, mentre la media di conversione delle turbine tradizionali va dal 25 al 50%. Fatttore, questo, che sarebbe dovuto alla particolare forma che si basa sulla conchiglia nautilus, così da avere la minima resistenza meccanica e girare molto liberamente e silenziosamente.

Ha dimensioni contenute (con un diametro di circa 1,5 m.) e può garantire una produzione media di energia tra i 300 e i 2.500 KW l'anno, che varia a seconda della velocità del vento e dell'altezza del tetto.
Liam F1 può essere installata da sola (una o più turbine) o abbinata ad un impianto solare, per differenziare i sistemi di produzione.
La turbina è in vendita ad un prezzo di 3.999 euro, e presto sarà disponibile anche una versione ridotta.


Fonte



martedì 17 giugno 2014

Fusione nucleare low-cost





Un progetto privato di fusione nucleare a basso costo cerca nuovi investitori. Sul piatto, un sistema di confinamento del plasma ad alta pressione che sembra funzionare, secondo una ricerca a cui ha partecipato anche l’italiano Giovanni Lapenta, professore all’Università Cattolica di Leuven, in Belgio.

Molti ritengono che riuscendo a controllare la fusione termonucleare, lo stesso matrimonio atomico che fa ardere il sole e l’altre stelle, si risolverebbero la maggior parte dei problemi energetici dell’umanità, senza sporcare ulteriormente il pianeta. Tuttavia la strada per arrivare a tale risultato sembra ancora lunghissima e costosa. Per esempio, il grande reattore sperimentale del progetto internazionale ITER costerà non meno di 15 miliardi di euro e sarà pienamente operativo attorno al 2030.

La fusione nucleare richiede temperature elevatissime (milioni di gradi) del plasma, che deve essere perciò “confinato”. Per ITER il confinamento del plasma sarà ottenuto in un campo magnetico all'interno di una macchina denominata Tokamak, ma sono possibili ed esistono altri metodi. Uno di cui si sa abbastanza poco è la fusione Polywell, un nome che deriva dall'unione delle parole “poliedro” e “buca di potenziale” (potential well). La tecnologia, molto più economica delle altre, è stata sviluppata dalla EMC2 Fusion Development Corp, una ditta statunitense finora piuttosto defilata dai riflettori a causa di clausole di segretezza imposte dal suo principale finanziatore, la Marina militare americana, che ha investito nel progetto una dozzina di milioni di dollari. Ora però il flusso di denaro si è interrotto e l’azienda scopre le sue carte in cerca di nuovi investitori, proponendo un programma di ricerca triennale da 30 milioni di dollari per verificare se la tecnologia Polywell sia, o meno, la strada più rapida per ottenere a prezzo conveniente energia da fusione nucleare.

“L’obbiettivo è quello di ottenere un insieme di dati concreti che ci permettano di decidere se, quando e come potremo costruire un dispositivo a fusione”, ha dichiarato in proposito alla NBC News, Jaeyoung Park, il presidente e capo della ricerca della EMC2 Fusion. Park e soci non hanno mai ottenuto energia da fusione nucleare Polywell, ma ritengono di essere sulla buona strada. Con il loro dispositivo sperimentale WB-8 sono infatti riusciti a validare l’effetto di confinamento Wiffle-Ball, così chiamato perché la forma che assume il campo magnetico prodotto dal reattore assomiglia a una palla di plastica perforata, usata negli USA per l’omonimo sport.

Questo è uno degli aspetti meno “ortodossi” della tecnologia e dei fattori chiave per il suo eventuale successo. I dispositivi Wiffle-Ball possono spingere il confinamento fino a valori di pressioni irraggiungibili da apparecchi come ITER, permettendo in teoria di progettare reattori molto compatti e meglio controllabili. Proprio l’effetto di confinamento ad alta pressione è descritto nell'articolo scientifico pubblicato in anteprima su ArXiv con primo firmatario Park. Alla ricerca ha partecipato anche un italiano, Giovanni Lapenta, professore di Space Weather all'Università Cattolica di Leuven, in Belgio.

“Il mio coinvolgimento”, ha spiegato Lapenta a Media INAF, “è stato quello di fornire parte del contributo teorico sulla fisica dell’esperimento e la gran parte del supporto di simulazione su super-computer. Abbiamo infatti sviluppato un metodo e condotto svariate simulazioni dei processi poi confermati nell'esperimento. In particolare, abbiamo sviluppato la prima simulazione mai prodotta dell’effetto che conduce a quella che viene chiamata Wiffle-Ball, che poi l’esperimento ha realmente osservato. Il lavoro procede ancora e speriamo presto di pubblicare un articolo specifico sulla parte teorica.”

Non è possibile sapere a questo punto se un reattore Polywell funzionante sarà mai costruito, però è interessante appuntarsi, a futura memoria, un paio di dati propagandati della EMC2 Fusion. Un generatore da 100 Mega Watt risulterebbe delle dimensioni di un cubo di 3 metri di lato e un primo prototipo costerebbe “soltanto” 350 milioni di dollari, che scenderebbero a 200 milioni con la produzione in serie. Non male per un’energia pulita.




Fiutando metano su altri mondi

L'atmosfera di un esopianeta illuminata dalla stella del sistema di appartenenza nel rendering di un illustratore. Crediti: ESA.

I ricercatori dello University College di Londra hanno sviluppato un nuovo spettro di assorbimento del metano, 2.000 volte più completo e in grado di rilevare la molecola a temperature altissime: potrebbe essere lo strumento giusto per trovare la vita su altri mondi.

C’è odore di gas. Diciamo allarmati quando il nostro naso intercetta il caratteristico odore agliaceo di metano nella nostra cucina. Controlliamo le manopole dei fornelli. Apriamo le finestre. Forse non tutti sanno però che la ‘puzza’ che sentiamo in questi frangenti non ha niente a che fare con la molecola CH4. Quello che annusiamo è l’odorizzante, un profumo chimico che dal 1971 viene aggiunto per legge a sostanze inodori come il metano per renderle immediatamente riconoscibili e, soprattutto, individuabili. Non si scherza col fuoco.

Ma che dire se il metano è anche la molecola organica, considerata uno dei mattoni della vita, che potrebbe essere risolutiva per trovare la vita oltre la Terra, nell'Universo che ci circonda? Bisogna avere naso. E naso fino per riconoscere il profumo di vita su altri mondi.

Gli astronomi hanno però un nuovo e potente strumento per fiutare metano su questi pianetialieni. Utilizzando alcuni dei super-computer più avanzati nel Regno Unito, forniti dal progetto Distributed Research Utilizing Advanced Computing (DiRAC) della Cambridge University, un team di scienziati ha sviluppato un nuovo spettro di assorbimento del metano: 2.000 volte più completo rispetto ai modelli precedenti e in grado di rilevare la molecola a temperature altissime, fino a 1.220 gradi Celsius.

“Stavamo aspettando questo studio da dieci o vent'anni”, ha commentato a caldo Sara Seager del Massachusetts Institute of Technology e astrofisica esperta in esopianeti. “Ogni molecola assorbe la luce in maniera diversa. È così che gli astronomi, osservando come l’atmosfera di un pianeta extrasolare assorbe la luce della sua stella, possono identificare di quali molecole siano composte le atmosfere di questi mondi alieni. Prima di oggi, però, nessuno si era preso la briga di calcolare nel dettaglio come le molecole di metano assorbano la luce a temperature così elevate”.

I nuovi calcoli – pubblicati dal team di ricerca guidato da Sergei Yurchenko, ricercatore in fisica e astronomia dello University College di Londra, negli Atti della National Academy of Sciences – hanno portato in elenco quasi 10 miliardi di linee spettroscopiche, ognuna delle quali rappresenta un colore diverso in cui il metano è in grado di assorbire la luce.

È convinzione dei ricercatori che il nuovo modello potrebbe dare agli astronomi un quadro più completo dell’abbondanza di metano su nane brune e pianeti extrasolari. Yurchenko e colleghi hanno scoperto, per esempio, che un esopianeta a 63 anni luce di distanza dalla Terra e già oggetto di molti studi – la sua sigla è HD 189733b – potrebbe avere anche venti volte più metano di quanto si credesse. Certo il metano è solo uno degli elementi che compongono l’atmosfera infernale di questo lontano pianeta dove la temperatura sale tranquillamente sopra i 900 gradi durante il giorno e la pioggia scende in forma di vetro fuso, ma quel che conta è disporre di un dato più preciso, che prima era ignorato.

Il metano può essere risultato di fonti geologiche, ma non è escluso che possa anche essere un segno di attività biologica. Trovare metano nell'atmosfera di un pianeta può quindi essere un segnale potenziale di vita.

“Non credo che gli astronomi troveranno mai la vita su un pianeta ostile come HD 189733b, vero è che con le tecnologie attuali gli scienziati sono spesso bloccati riguardo i mondi caldi”, spiega Yurchenko. I pianeti gioviani caldi sono relativamente facili da individuare, perché sono giganti dall'orbita stretta e bloccano gran parte della luce passando davanti alla stella madre. “Se fin da ora impariamo qualcosa su questi oggetti che possiamo osservare facilmente, allora forse possiamo farci un’idea migliore degli oggetti che ancora si nascondo ai nostri occhi”, conclude Yurchenko.

L’Exoplanet Characterization Observatory di ESA e il James Webb Space Telescope NASA potranno certo dirci qualcosa di più su questi mondi lontani. Nell’attesa vale la pena di restare a fiutare l’aria come la Cleopatra di Pascal: se il suo naso fosse stato più corto, tutta la faccia della terra sarebbe cambiata.
di Davide Coero Borga

lunedì 16 giugno 2014

Oceani d’acqua nelle viscere della Terra


A 600 km sotto la superficie terrestre, là al confine fra il mantello superiore e quello inferiore, sembra esserci una quantità d’acqua pari a tre volte quella contenuta in tutti gli oceani. Sarebbe racchiusa nella ringwoodite, un minerale blu scoperto in un meteorite. Lo studio su Science.

Quando leggiamo di oceani d’acqua sotterranei nel Sistema Solare, dopo la scoperta di quelli d’Europa e di Encelado il pensiero corre subito alle lune di remoti giganti gassosi. E invece, questa volta, la riserva d’acqua potrebbe trovarsi sorprendentemente vicino a noi: proprio qui sulla Terra, a circa 600 km di profondità nel sottosuolo degli Stati Uniti. Praticamente sotto ai nostri piedi. E che riserva: secondo le stime dei ricercatori, l’equivalente di tre volte la quantità d’acqua presente in tutti gli oceani del nostro pianeta, litro più litro meno.

A dire il vero, il litro non è l’unità di misura più adeguata per quantificare la nuova scoperta, pubblicata oggi su Science da un team di scienziati della Northwestern University e della University of New Mexico. E non tanto perché di litri ce ne vorrebbero troppi, quanto per l’anomalo stato di quest’acqua sotterranea: non è vapore, non è ghiaccio e non è nemmeno liquida.

Dunque che aspetto e consistenza dovrebbe avere? Per comprenderlo, conviene partire dal passato recente, e per l’esattezza dal 1879, quando un asteroide precipita sul Queensland occidentale, in Australia. I frammenti che ne risultano, noti come meteoriti di Tenham (dal nome della località colpita), mostrano deformazioni che lasciano intuire l’azione di pressioni straordinarie. Una caratteristica che li rende da subito preziosi per i geologi, ai cui occhi quei frammenti appaiono, più che messaggeri dallo spazio, una testimonianza indiretta di quanto potrebbe celarsi nelle viscere impenetrabili del nostro pianeta.

Ed è proprio analizzando i resti del meteorite di Tenham che circa un secolo più tardi, nel 1969, viene identificato un minerale fino ad allora sconosciuto: la ringwoodite. D’un blu intenso come zaffiri, i cristalli di ringwoodite potrebbero essere presenti in grandi quantità nel mantello terrestre, ipotizzano da subito gli scienziati. Un sospetto destinato a rimanere tale fino all'aprile scorso, quando un articolo su Nature annuncia il rinvenimento, in Brasile, d’un altro piccolo frammento di ringwoodite. Ma questa volta non arriva dallo spazio: si tratta finalmente di un messaggero proveniente dal cuore del nostro pianeta, giunto in superficie grazie a un’eruzione vulcanica. Il primo, e fino a oggi l’unico, frammento di ringwoodite d’origine terrestre.

Già da quelle prime analisi s’ipotizza la presenza di acqua a grandi profondità. Intrappolate nei cristalli di ringwoodite, infatti, gli scienziati osservano tracce di radicale ossidrile, conseguenza della scissione subita dalle molecole d’acqua a causa della pressione enorme e di temperature attorno ai mille gradi presenti nella “zona di transizione”, la regione di confine fra il mantello superiore e il mantello inferiore, a circa 600 km di profondità.


Incrociando questi dati con, da una parte, quelli ottenuti in laboratorio simulando condizioni ambientali analoghe, e dall’altra analizzando le onde sismiche provenienti dall'interno della Terra, il team guidato dal geofisico Steve Jacobsen e dal sismologo Brandon Schmandt è giunto così a confermare che, nella forma descritta prima, l’acqua può essere presente anche là sotto. E a stimarne la quantità: per l’appunto, circa il triplo di quella di tutti gli oceani in superficie.

di Marco Malaspina
INAF

Teletrasporto? Ci penseranno i quanti


Un gruppo di ricerca olandese ha fatto il primo passo verso il teletrasporto dell’informazione, sfruttando la fisica quantistica. La distanza coperta è di tre metri, e costituisce un record senza precedenti. I risultati su Science

“Energia!” era l’ordine lanciato dai personaggi di Star Trek per dare il via libera al teletrasporto. E così gli ufficiali della nave stellare Enterprise potevano viaggiare agilmente da un punto all'altro del cosmo, smaterializzandosi dopo essere stati investiti in pieno da un fascio di luce, l’energia, appunto.

Quanto c’è di scientifico in questo famoso immaginario? Più di quanto potremmo pensare. Fin dagli anni ’90, il teletrasporto è stato oggetto di riflessione della teoria “assurda” per eccellenza: la fisica quantistica, che mettendo in crisi i pilastri della meccanica classica si è spinta verso scenari prima inconcepibili. Tra cui i viaggi nel tempo e nello spazio.

Oggi potrebbe essere proprio la fisica quantistica a fornire la chiave per passare dalla fantascienza alla realtà. In Olanda un gruppo di ricercatori ha dimostrato che almeno un tipo di teletrasporto è possibile: quello dell’informazione. E non esclude di poterlo estendere anche a oggetti fisici, compreso – perché no – l’uomo.

Lo ha detto Ronald Hanson, professore della Delft University of Technology e co-autore dello studio: “Abbiamo teletrasportato lo stato di una particella. Se pensiamo che noi non siamo altro che un insieme di atomi tenuti insieme in modo particolare, allora in linea di principio dovrebbe essere possibile teletrasportarci da un posto all'altro” ha detto durante un’intervista al Telegraph. “Nella pratica è estremamente improbabile, ma dire che non potrà mai avvenire è pericoloso: non esistono leggi fondamentali della fisica che lo impediscono.”

In base a questa analisi, la vera impresa era quindi iniziare a teletrasportare una singola particella: e i fisici dell’Università di Delft ci sono riusciti.

Per capire come, facciamo un passo indietro. In fisica quantistica esiste un particolare fenomeno chiamato entanglement, che è alla base di uno dei più grandi paradossi del mondo subatomico: il potersi trovare contemporaneamente in due stati diversi, come accade ad esempio al famoso gatto di Schrödinger. 
In pratica le particelle quantistiche, tra loro molto simili, sotto particolari condizioni possono diventare completamente indistinguibili; possono cioè essere “entangled”, letteralmente “aggrovigliate”, occupando allo stesso tempo stati quantistici differenti.

Balza subito all'occhio la somiglianza, almeno teorica, di questo fenomeno con il teletrasporto. E infatti proprio da qui è nato il teletrasporto quantistico, tecnica che coinvolge principalmente l’entanglement e che inizialmente è stata applicata all'informatica. L’idea era sfruttare gli stati sovrapposti delle particelle per far viaggiare l’informazione tra computer in modo infinitamente più rapido e sicuro.

Ora il gruppo di Hanson ha fatto esattamente questo: utilizzando due chip preziosissimi (costituiti da diamanti conservati nell'elio liquido), i ricercatori sono riusciti a teletrasportare informazioni quantistiche su una distanza di tre metri.

I risultati dell’esperimento, pubblicati su Science, potrebbero costituire una svolta per la progettazione dei computer quantistici, macchine per ora ancora solo teoriche che sfrutterebbero la fisica quantistica per comunicare tra loro. Ecco quindi che il teletrasporto passa per l’informazione: prima di viaggiare istantaneamente da un luogo all'altro, dovremo essere in grado di far viaggiare i nostri messaggi.

di Giulia Bonelli
INAF


venerdì 13 giugno 2014

Scoperto nuovo tipo di stella





Gli scienziati hanno individuato il primo esempio di una classe di stelle proposta nel 1975 dal fisico Kip Thorne e dall'astronoma Anna Żytkow.

Gli oggetti stellari detti di Thorne-Żytkow (TŻOs) sono ibridi tra stelle rosse supergiganti e stelle di neutroni che superficialmente assomigliano alle supergiganti rosse normali, come Betelguese nella costellazione di Orione. Differiscono, invece, nelle loro differenti firme chimiche che derivano da un'attività unica nel loro interni stellari.

Gli TŻOs sono pensati per essersi formati dall'interazione di due stelle massicce, una supergigante rossa e una stella di neutroni formatasi durante un'esplosione di supernova in un sistema binario stretto.
Mentre il meccanismo esatto è incerto, la teoria più diffusa suggerisce che, durante l'interazione evolutiva delle due stelle, la stella massiccia supergigante abbia inghiottito essenzialmente la stella di neutroni, che si muove a spirale nel nucleo della supergigante rossa.
Mentre le normali supergiganti rosse traggono la loro energia dalla fusione nucleare nei loro nuclei, le TŻOs sono alimentate dalla insolita attività delle stelle di neutroni assorbite nei loro nuclei.
La scoperta di questo TZO fornisce quindi la prova di un modello stellare non rilevato in precedenza dagli astronomi.

Il Project leader Emily Levesque della University of Colorado Boulder, che all'inizio di quest'anno è stato assegnato a Annie Vai Cannon Award dell'American Astronomical Society, ha dichiarato: "Studiare questi oggetti è emozionante perché rappresenta un modello completamente nuovo di come gli interni stellari possano lavorare. In queste interni abbiamo anche un nuovo modo di produrre elementi pesanti nel nostro Universo".

Lo studio, accettato per la pubblicazione nel Notices della Royal Astronomical Society, ha come co-autore Philip Massey, del Lowell Observatory di Flagstaff, in Arizona; Anna Żytkow dell'Università di Cambridge nel Regno Unito; Nidia Morrell degli Osservatori Carnegie a La Serena, Chile.

Gli astronomi hanno fatto la loro scoperta grazie al telescopio di 6,5 metri Magellan Argilla di Las Campanas, in Cile.
Hanno esaminato lo spettro della luce emessa dalle apparenti supergiganti rosse, che ha indicato loro gli elementi presenti.
Quando hanno visualizzato lo spettro di una particolare stella chiamata HV 2112, presente nella Piccola Nube di Magellano, gli osservatori erano piuttosto sorpresi da alcune delle caratteristiche insolite.

Morrell ha spiegato: "Non so di cosa si trattasse, ma so che mi piaceva!"
Quando Levesque ed i suoi colleghi hanno osservato da vicino le linee sottili nello spettro, hanno scoperto che conteneva l'eccesso di rubidio, litio e molibdeno.
Precedenti ricerche hanno dimostrato che i normali processi stellari possono creare ciascuno di questi elementi.
Ma l'alta abbondanza di tutti e tre questi elementi alle temperature tipiche delle supergiganti rosse è una firma unica di una TŻOs.

"Sono estremamente felice che la conferma osservativa della nostra previsione teorica abbia cominciato ad emergere", ha detto Żytkow.

Il team è attento a sottolineare che HV 2112 mostra alcune caratteristiche chimiche che non corrispondono pienamente ai modelli teorici. Massey sottolinea: "Potremmo, ovviamente, esserci sbagliati. Ci sono alcune incongruenze minori tra alcuni dei dettagli di quello che abbiamo trovato e ciò che la teoria predice. Ma le previsioni teoriche sono abbastanza datate e ci sono stati molti miglioramenti da allora. Speriamo che la nostra scoperta spingerà un lavoro supplementare sul lato teorico adesso".


Traduzione e adattamento a cura di Arthur McPaul

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2014/06/140609113347.htm

giovedì 12 giugno 2014

Rilevato l'Eco dell'Antica Terra




Un gruppo di scienziati hanno individuato che un rapporto isotopico precedentemente non spiegato dal profondo della Terra, potrebbe essere un residuo del materiale presente prima che si scontrasse con un altro corpo di dimensioni planetarie, portando alla nascita della Luna.

Questa scoperta potrebbe rivelarci gli echi dell'antica Terra, che esisteva prima della collisione presumibilmente avvenuta 4,5 miliardi anni fa.
Questo lavoro è stato presentato alla conferenza Goldschmidt a Sacramento, in California.

La teoria attualmente accettata afferma che la Luna si sia formata 4,5 miliardi anni fa, quando la Terra si scontrò con un corpo soprannominato Theia, delle dimensioni di Marte.
Secondo questa teoria, il calore generato dalla collisione avrebbe causato la fluidificazione dell'intero pianeta e alcuni detriti si sarebbero poi raffreddati in un altro punto di gravità, dando vita alla Luna.

Ora però, un gruppo di scienziati dell'Università di Harvard ritengono di aver identificato un segno che dimostrerebbe come in realtá solo una parte della Terra si fuse lasciandone intatta l'altra.
Secondo il ricercatore Sujoy Mukhopadhyay (Harvard): "L'energia liberata dall'impatto tra la Terra e Theia sarebbe stato enorme, certamente abbastanza per fondere l'intero pianeta ma riteniamo che l'energia di impatto non si distribuì uniformemente. Ciò significa che una parte importante dell'emisfero impattato sarebbe stato completamente vaporizzato, mentre l'altro solo parzialmente, senza subire una completa fusione".
Il team ha analizzato i rapporti degli isotopi di gas nobili presenti dal profondo mantello terrestre e ha confrontato questi risultati con gli isotopi più vicini alla superficie. I risultati indicano che gli isotopi 3He e 22Ne dal mantello superficiale sono significativamente superiori al rapporto equivalente nel mantello profondo.

Il professor Mukhopadhyay ha commentato: "Questo implica che l'ultimo gigantesco impatto non mescoló completamente il mantello e non ci fu un intero manto oceano di magma".

Ulteriori prove sono pervenute dall'analisi del rapporto tra lo 129-Xenon e lo 130-Xenon. È noto che il materiale portato in superficie dal mantello profondo ha un rapporto inferiore a quello normalmente trovato vicino alla superficie, per esempio nei basalti da dorsali.
Il 129-Xenon è prodotto dal decadimento radioattivo dello iodio-129, questi isotopi allo xeno risalirebbero entro i primi 100 milioni di anni di storia della Terra.

Il professor Mukhopadhyay ha detto: "La geochimica indica che ci sono differenze tra i rapporti isotopici dei gas nobili in diverse parti della Terra, e questi hanno bisogno di essere spiegati. L'idea è che questa immensa collisione non sciolse completamente la Terra e se la teoria si dimostrasse corretta, allora staremmo osservando gli echi dell'antica Terra, prima della collisione".

Traduzione e adattamento a cura di Arthur McPaul

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2014/06/140609113347.htm

Finalmente i nuovi ASUS disponibili...



NOTEBOOK ASUS N750JK-T4058H CORE I7-4700HQ 2.4 GHZ 16GB RAM HD 750+750GB BLUE RAY- 17.3"1920x1080 FULL HD PIXEL NVIDIA GEFORCE 850M 4GB,
DVD SUPER MULTI, LAN,WIRELESS,HDMI,BATTERIA 6 CELLE CON 3 ORE DI AUTONOMIA,WINDOWS 8.1 64 BIT


Il top del top...

Lo trovi qui


mercoledì 11 giugno 2014

Il Viaggio su Marte Sarà un Reality Show




Sono 705 i candidati che affronteranno le selezioni per diventare, un giorno, i primi astronauti che viaggeranno alla volta di Marte nel 2023 per avviare una colonia permanente. Il biglietto sarà di sola andata e il tutto sarà ripreso dalle telecamere e trasmesso dall'anno prossimo in tutto il mondo.

Mars One verrà trasmesso presto in tv. La no-profit olandese ha dato il via l’anno scorso alle selezioni per i primi quattro astronauti che nel 2023 potranno partire per il Pianeta Rosso per fondare una colonia umana nel 2025. La missione verrà ripresa in televisione, in una sorta di reality show: la società ha, infatti, firmato un accordo con la Darlow Smithson Productions (una controllata della Endemol) per filmare le selezioni dei primi 40 aspiranti e la fase dell’addestramento. Il programma verrà trasmesso in tutto il mondo a partire dai primi mesi del 2015.

L’obiettivo di Mars One è quello di far sbarcare su Marte nel 2025 i quattro fortunati astronauti (i quali non dovranno essere necessariamente scienziati) per creare una colonia permanente che crescerà col passare del tempo. La missione avrà un costo non indifferente: per ora la stima si aggira attorno ai sei miliardi di dollari per portare su Marte il primo essere umano. I soldi dovrebbero arrivare da una raccolta di fondi iniziata nel 2012, e soprattutto da questo evento mediatico, il Grande Fratello marziano, tramite gli introiti pubblicitari.

Prima del lancio della missione con equipaggio umano, Mars One spedirà su Marte una serie di robot che costruiranno la base operativa e preparare il terreno per l’arrivo degli “inquilini”: il primo lancio dell’orbiter e del lander è previsto per il 2018, nel 2020 partirà un rover che perlustrerà la zona prescelta (si pensa a un sito tra 40 e 45 gradi latitudine Nord del pianeta, dove gli astronauti potranno avere abbastanza risorse in termini di energia solare e acqua – sotto forma di ghiaccio), e nel 2022 verranno inviati su Marte sei cargo con tutto l’occorrente per dare il via all’avventura.

Iain Riddick, a capo della sezione Progetti speciali e Digital media della DSP, ha detto: “Questo sarà il colloquio di lavoro più duro del mondo per quella che è senza dubbio un’opportunità unica. Le storie umane che emergeranno saranno affascinanti e ispireranno le generazioni future”. Sono stati scelti 705 aspiranti marziani, tra gli oltre 200mila candidati, e verranno giudicati da un gruppo di scienziati, esperti e astronauti. Al fine di qualificarsi per la missione, i candidati dovranno dimostrare di aver acquisito conoscenze e competenze richieste, nonché elevati livelli di prestazioni psicologiche e fisiche necessarie per il più lungo viaggio mai intrapreso dagli esseri umani. Ma chissà se sanno cosa li aspetta? Il biglietto di ritorno non è previsto: gli astronauti aspiranti marziani dovranno dire addio, infatti, ad amici e parenti, perché per tornare avrebbero bisogno di un razzo in grado di sfuggire al campo gravitazionale di Marte, dei sistemi di supporto alla vita di bordo in grado di reggere per un viaggio di sette mesi e caratteristiche tecniche molto avanzate. Il tutto non è stato ancora previsto.

A cura di Eleonora Ferroni

Fonte: 

Il neutrino e il suo doppio



Arrivano dall’esperimento EXO-200 i risultati di due anni di raccolta dati alla ricerca dei fermioni di Majorana, la cui antimateria coinciderebbe con la materia. Ancora nessuna traccia statisticamente significativa, scrivono i ricercatori su Nature. Ma nemmeno se ne può escludere l’esistenza.

È il Giano bifronte delle particelle elementari. Materia e antimateria al tempo stesso, l’elusivo neutrino di Majorana – se mai esiste – tiene in scacco generazioni di ricercatori dal lontano 1937. Ovvero, da quando l’altrettanto elusivo genio della fisica che lo concepì, Ettore Majorana, giusto un anno prima di sparire misteriosamente di scena, diede alle stampe il celebre articolo sulla “Teoria simmetrica dell’elettrone e del positrone”. Articolo nel quale, in un italiano asciutto ed elegante, s’ipotizzava l’esistenza di particelle che fossero anche le proprie antiparticelle. Di queste particelle – note come “fermioni di Majorana”, in opposizione ai “fermioni di Dirac” – non s’è mai trovata traccia.

Ma la caccia continua incessante da oltre 70 anni. Proprio sull’ultimo numero di Nature sono usciti i risultati dei primi due anni dell’esperimento EXO-200. E se ancora non c’è segno del fermione di Majorana, quanto meno il cerchio si stringe. Analizzando i dati raccolti grazie ai 110 chili di xenon allo stato liquido – quattro quinti dei quali di isotopo xenon-136, un arricchimento ottenuto tramite centrifughe russe – che costituiscono il cuore dell’esperimento, situato in New Mexico a 650 metri di profondità, i ricercatori sono riusciti ad assegnare con grande precisione una nuova soglia minima al tempo di dimezzamento per il “doppio decadimento beta senza neutrini“: misurato in anni, è almeno 1.1 per 10 elevato alla 25. Tanto per farsi un’idea, si tratta di un’attesa pari a circa un milione di miliardi di anni quella che è l’età dell’universo.

Attesa per cosa? E che c’entra quel che avviene nello xenon con i fermioni di Majorana? Facciamo un passo indietro, anzi due, tornando alle particelle di materia e alla loro controparte: l’antimateria. Di solito, per descrivere le particelle di antimateria, si dice che hanno la stessa massa di quelle di materia ma carica elettrica di segno opposto. Per particelle come il protone o l’elettrone, che hanno carica elettrica non nulla, una tale descrizione è abbastanza intuitiva: il positrone (o antielettrone), per esempio, ha massa e spin identici a quelli dell’elettrone, ma carica elettrica positiva.

E le particelle con carica elettrica nulla, come per esempio il neutrone? Di primo acchito si potrebbe pensare che la corrispondente particella d’antimateria – l’antineutrone – sia da esso indistinguibile. In realtà, andando a scomporlo nei suoi mattoncini fondamentali (un quark up e due quark down), ci si accorge che la differenza è netta, essendo l’antineutrone formato da un antiquark up e due antiquark down.

Ma come la mettiamo con le particelle con carica elettrica nulla e non ulteriormente divisibili, in quanto già particelle elementari? In cosa sarebbero diverse dalle loro antiparticelle? È appunto il caso dei neutrini: se Majorana aveva ragione, fra neutrino e antineutrino non ci dovrebbe essere alcuna differenza. E per i fisici, a parte il fatto che toccherebbe loro aggiornare il modello standard, sarebbe un bel colpaccio: come per incanto tanti tasselli andrebbero al loro posto, a partire dall’enigma circa la scarsità d’antimateria nel nostro universo.

Già, ma come provare che Majorana poteva averci visto giusto? È qui che entra in gioco il “doppio decadimento beta senza neutrini” al quale accennavamo poc’anzi. Il doppio decadimento beta “normale” (2νββ), quello con i neutrini, è un raro processo di decadimento radioattivo caratterizzato dal verificarsi simultaneo di due decadimenti beta ordinari: per esempio, all’interno di un nucleo, due neutroni diventano due protoni, con conseguente emissione di due elettroni e due antineutrini. Ma cosa accadrebbe se, come voleva Majorana, antineutrino e neutrino fossero la stessa particella? Ecco che i due antineutrini si annichilirebbero l’un l’altro, e l’emissione consisterebbe soltanto nei due elettroni: per l’appunto, un doppio decadimento beta senza neutrini(0νββ).

Ebbene, per quanto complicato da descrivere, il doppio decadimento beta senza neutrini ha l’impagabile vantaggio di essere un processo osservabile: se mai avviene, possiamo accorgercene. Come? Per esempio, appunto, analizzando i dati provenienti dagli scintillatori immersi nei 110 chili di xenon liquido dell’esperimento EXO-200. Vabbè, ma in conclusione: si vede o non si vede? Proprio qui sta il punto più ambiguo: gli ultimi risultati dell’esperimento, rispetto a quelli precedenti, che si basavano su circa un quarto dei dati attuali, mostrano qualche evento in più. Dove per ‘evento’ i fisici intendono qualcosa che ancora non si capisce se è dovuto al rumore di fondo o è un vero segnale.

Insomma, quello che al momento si può dire è che l’esperimento EXO-200 pare funzionare a meraviglia, che non ha trovato prove statisticamente significative a favore dei neutrini di Majorana ma nemmeno è in grado di escluderne l’esistenza. E questo significa che la caccia può continuare.

A cura di Marco Malaspina

Fonte:

Curiosity fotografa il Monte Sharp




Curiosity ha fotografato il Monte Sharp il 6 giugno scorso durante una traversata nel Cratere Gale. Credit: NASA/JPL/MSSS/Marco Di Lorenzo/Ken Kremer-kenkremer.com

Il rover della NASA continua il suo viaggio all'interno del Cratere Gale. Dall'agosto del 2012 ha scattato oltre 154.000 immagini e senza sosta analizza campioni di roccia per cercare tracce di vita microbiotica

Il Monte Sharp è una delle cime più importanti al centro del cratere Gale sul pianeta Marte ed è stata fotografata dal rover Curiosity il 6 giugno scorso. Questa montagna sorge a 5,5 km sopra il letto di cratere e il rover della NASA ha catturato un nuovo splendido panorama letteralmente “al volo” delle dune sulla superficie mariziana.

Dopo aver effettuato la terza perforazione a Kimberly (KMS-9), una regione piena di affioramenti collinari rocciosi, l’intrepido rover si dirige a tutta velocità verso i pendii di rocce sedimentarie alla base del misterioso Monte Sharp, che è la sesta destinazione della missione della NASA all’interno del cratere. Il target della terza trivellazione è stata una lastra di pietra arenaria, chiamata Windjana, alla base di una collinetta, Monte Remarkable, a circa 4 chilometri a sud-ovest da Yellowknife Bay. Quello che sta cercando Curiosity sono gli indizi per comprendere meglio gli antichi ambienti abitabili del Pianeta rosso e per ricostruire i cambiamenti delle condizioni climatiche che ha attraversato Marte. I minerali custoditi dalle rocce potrebbero indicare i luoghi che hanno ospitato in passato forme di vita marziane microbiche, se mai fossero esistite. Marte era più umida, più calda e molto più ospitale miliardi di anni fa rispetto ad oggi.


Credit: NASA/JPL-Caltech/Ken Kremer – kenkremer.com/Marco Di Lorenzo

Il robot di una 1 tonnellata sta guidando su un percorso verso il Murray Buttes, che si trova tra le dune sul lato destro del Monte Sharp. Curiosità ha ancora altri 4 chilometri da percorrere entro la fine dell’anno. Durante la fase di guida il rover non “sta con le mani in mano” e continua le sue attività scientifiche studiando il materiale marziano raccolto durante le trivellazioni.

“Continuiamo ad analizzare i campioni di Kimberley con CheMin e SAM”, ha scritto un membro del team John Bridges. Ad oggi il contachilometri di Curiosity segna un totale di 6,1 km percorsi da quando è atterrato all’interno Gale cratere ad agosto 2012. In questi anni ha scattato oltre 154.000 immagini.

A cura di Eleonora Ferroni 

Fonte:

martedì 10 giugno 2014

Risolto Il Mistero delle Anomale Fratture Continentali




Sono soltanto pochi decimi di chilometro quelli che separano le massiccie spaccature della penisola del Sinai dal continente africano sul lato opposto del Golfo di Suez.
Probabilmente 130 milioni di anni fa, fu la stessa distanza che divise l'Africa dal Sud America.

Tuttavia per decenni i geologi hanno faticato a spiegare alcune anomalie evidenti nella frattura crostale tra i due continenti, che non presentano simmetria e hanno anche differenti variazioni di spessore altimetrico della crosta continentale.

Ora i geologi del Centro di ricerca tedesco per le geoscienze (GFZ), l'Università di Sydney e l'Università di Londra hanno trovato una spiegazione, pubblicato su Nature Communications.

Utilizzando i modelli computerizzati ad alta risoluzione e i dati geologici dei margini del Sud Atlantico, hanno scoperto che il centro della spaccatura, dove la crosta continentale venne diluita attivamente attraverso le faglie, non rimase fissa durante la rottura continentale, ma migró lateralmente.

"Potremmo dimostrare che le spaccature furono in grado di muoversi lateralmente per centinaia di chilometri", spiega Sascha Brune del GFZ.
"Durante la migrazione della spaccatura, la crosta su un lato della spaccatura si indebolì a causa del materiale bollente in risalita dal mantello terrestre, mentre l'altro lato essendo leggermente più freddo subì minori varioazioni.
"Questo portó ad un movimento laterale della frattura, che convoglió il materiale crostale dalla crosta Sudamericana alla crosta africana. Questi blocchi crostali trasferitisi furono fortemente erosi dalla spaccatura e, infine, costituiscono le enigmatiche scaglie di crosta sottile del margine africano.

Questo ritardo di rottura continentale e la generazione della crosta oceanica hanno impiegato fino a 20 milioni di anni. I nuovi modelli rivelano che la velocità di estensione gioca un ruolo cruciale nella comprensione delle larghezze di margini dell'Atlantico del Sud: l'estensione crostale più veloce porta alla migrazione della spaccatura più a lungo e quindi un'asimmetria più marcata dei margini continentali generati.

Le faglie costituiscono un importante elemento tettonico del nostro pianeta. Esse sono responsabili della forma dei continenti odierni e la loro attività continua ancora tutt'oggi.

Illustrando un nuovo aspetto della teoria della tettonica a zolle, questo studio indica che durante le rotture continentali, grandi quantità di materiale possono essere convogliati da un lato del margine di placca all'altra, un processo che non è stato ancora dimostrato. I nuovi modelli e le analisi forniscono un importante trampolino di lancio verso una comprensione globale dei processi di fratturazione e della formazione margine continentale.

Traduzione e adattamento a cura di Arthur McPaul

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2014/06/140606091419.htm


sabato 7 giugno 2014

SPHERE Darà La Visione Diretta Dei Pianeti Alieni




Lo stupefacente strumento SPHERE "The Spectro-Polarimetric High-contrast Exoplanet REsearch instrument" è stato installato sul Very Large Telescope (VLT) dell'ESO all'Osservatorio di Paranal in Cile e ha raggiunto la sua prima luce.

Questo nuovo potente strumento per la ricerca e lo studio dei pianeti extrasolari utilizza le più avanzate tecniche in combinazione.
Offre prestazioni notevolmente migliori rispetto agli strumenti esistenti e ha prodotto una splendida vista di dischi di polvere attorno a stelle e altri obiettivi vicino durante i primi giorni di osservazione.

SPHERE è stato sviluppato e costruito da un consorzio di molti istituti europei, guidato dall'Institut de Planétologie et d'Astrophysique de Grenoble, in Francia, in collaborazione con l'ESO. Si prevede di rivoluzionare lo studio dettagliato dei pianeti extrasolari e dischi circumstellari.

SPHERE ha superato i test di accettazione in Europa nel dicembre del 2013 ed è stato poi spedito a Paranal.
Il delicato riassemblaggio è stato completato nel maggio 2014 e lo strumento è stato quindi montato sul VLT Telescope unità 3. SPHERE è l'ultimo ricercato della seconda generazione di strumenti per il VLT (i primi tre sono stati X-shooter, KMOS e MUSE).

SPHERE combina diverse tecniche avanzate per dare il massimo contrasto mai raggiunto per l'imaging planetario diretta - ben oltre quello che potrebbe essere ottenuto con NACO, che ha ripreso la prima immagine diretta mai precedentemente ottenuta di un pianeta extrasolare.
SPHERE ha richiesto lo sviluppo precoce di nuove tecnologie, in particolare nel settore delle ottiche adattive, di rilevatori speciali e componenti coronografici.

L'obiettivo principale di SPHERE è quello di trovare e caratterizzare i pianeti extrasolari giganti in orbita attorno alle stelle vicine per l'imaging diretta [1]. Questo è un compito estremamente impegnativo in quanto questi pianeti sono entrambi molto vicini alle loro stelle madri nel cielo e anche molto deboli. In una normale immagine, anche nelle migliori condizioni, la luce della stella sommergerebbe totalmente il debole bagliore del pianeta. L'intero design della sfera è quindi concentrato sul raggiungimento del massimo contrasto possibile, in un piccolo pezzo di cielo intorno alla stella abbagliante.

La prima delle tre nuove tecniche sfruttate da SPHERE è l'ottica adattiva estrema per correggere gli effetti dell'atmosfera terrestre in modo che le immagini siano più nitide e il contrasto del pianeta extrasolare maggiore. In secondo luogo, un coronografo bloccherà la luce dalla stella e aumenterà ulteriormente il contrasto.
Infine, una tecnica di imaging differenziale verrà applicata per sfruttare differenze tra la luce planetaria e stellare in termini di colore o polarizzazione (e queste differenze sottili potranno anche essere sfruttate per rivelare un esopianeta attualmente visibile [2]).

SPHERE è stato progettato e costruito dai seguenti istituti: Institut de Planétologie et d'Astrophysique de Grenoble; Max-Planck-Institut für Astronomie di Heidelberg; Laboratoire d'Astrophysique de Marseille; Laboratoire d'Etudes Spatiales et d'Instrumentation en Astrophysique de l'Observatoire de Paris; Laboratoire Lagrange a Nizza; ONERA; Observatoire de Genève; Istituto Nazionale italiano di Astrofisica coordinato dall'Osservatorio Astronomico di Padova; Istituto di Astronomia, ETH di Zurigo; Astronomical Institute dell'Università di Amsterdam; Scuola di Ricerca per l'Astronomia in Olanda (NOVA-ASTRON) e l'ESO.

Durante le prime osservazioni una delle migliori immagini finora ottenute è stata quella dell'anello di polvere attorno alla stella HR 4796A. Essa non solo mostra l'anello con eccezionale chiarezza, ma anche illustra bene SPHERE possa sopprimere il bagliore della stella luminosa al centro dell'immagine.

A seguito di ulteriori approfonditi test e osservazioni di verifica sarà messo a disposizione della comunità astronomica entro la fine del 2014.

Foto in alto:
L'immagine ad infrarossi mostra l'anello di polvere attorno alla vicina stella HR 4796A, nella costellazione meridionale del Centauro.
Credit: ESO / J.-L. Beuzit et al Consorzio. / SPHERE


Note:
[1] La maggior parte dei pianeti extrasolari attualmente conosciuti sono stati scoperti utilizzando tecniche indirette, come le variazioni della velocità radiale della stella ospite, o il tuffo nella luminosità della stella causata da un pianeta extrasolare in transito. Solo pochi pianeti extrasolari finora sono stati direttamente fotografati.

[2] Un ulteriore, ma semplice trucco impiegato da SFERA è prendere molte immagini di un oggetto, ma con una significativa rotazione dell'immagine tra ogni scatto. Le caratteristiche differenti nelle immagini che ruotano sono artefatti del processo di imaging, e le caratteristiche che rimangono nello stesso posto sono oggetti reali nel cielo.

Traduzione e adattamento a cura di Arthur McPaul

venerdì 6 giugno 2014

Scoperte Altre Due Terre Molto Vicine al Nostro Sole, Una Abitabile.


Un team internazionale di astronomi ha scoperto due nuovi pianeti che orbitano attorno ad una stella molto vecchia,  vicino al nostro Sole. Uno di questi pianeti orbita intorno alla stella alla giusta distanza per permettere all'acqua liquida di esistere sulla sua superficie, un ingrediente chiave per sostenere la vita.

Il loro lavoro è pubblicato nelle Notices mensili della Royal Astronomical Society.
La stella Kapteyn, dal nome dell'astronomo olandese Jacobus Kapteyn, che la scoprì alla fine del XIX secolo, è la seconda stella in più rapido movimento nel cielo e appartiene ad un gruppo di stelle che orbitano nella nostra Galassia in orbite molto ellittiche. Con un terzo della massa del Sole, questa nana rossa può essere osservata con un telescopio amatoriale nella costellazione meridionale del Pittore.
Gli astronomi, tra cui alcuni della Carnegie, come Pamela Arriagada, Paul Butler, Steve Shectman, Jeff Crane e Ian Thompson, hanno utilizzato i nuovi dati dallo spettrometro HARPS presente al La Silla Observatory dell'Osservatorio europeo meridionale, il Planet Finding Spectrometer presso l'Osservatorio Magellan / Las Campanas in Cile, e lo spettrometro HIRES al Keck Observatory alle Hawaii, per misurare i piccoli cambiamenti periodici nel moto della stella. 

L'effetto Doppler ha permesso agli scienziati di dedurre alcune proprietà di questi pianeti, comprese le loro masse e periodi orbitali..
I dati precedenti hanno mostrato alcuni moti  irregolari, inducendoci a cercare eventuali pianeti con un brevissimo periodo, da detto il Dott. Guillem Anglada-Escude, presso la Queen Mary University of London.
Il pianeta chiamato Kapteyn b potrebbe supportare l'acqua. E' almeno cinque volte la massa di quella della Terra e orbita attorno alla sua stella ogni 48 giorni. 
Il secondo pianeta, Kapteyn c è una massiccia super-Terra. Il suo anno dura 121 giorni e gli astronomi pensano che sia troppo freddo per sostenere l'acqua liquida. Al momento, solo alcune proprietà dei pianeti sono note: le masse approssimativamente, i periodi orbitali e le distanze dalla loro stella ospite. Misurando le loro atmosfere con strumenti che sono attualmente in fase di sviluppo, gli astronomi potranno verificare la presenza o la mancanza di acqua.
"Trovare un sistema planetario stabile con un pianeta potenzialmente abitabile in orbita in una delle stelle molto più vicine nel cielo è strabiliante. Questo è un altro elemento di prova che quasi tutte le stelle hanno pianeti, e che i pianeti potenzialmente abitabili nella nostra galassia sono così comuni come i granelli di sabbia su una spiaggia", ha detto Pamela Arriagada, il secondo autore e ricercatore post-dottorato alla Carnegie.

I sistemi planetari individuati dal telescopio spaziale Keplero sono di solito posti a centinaia di anni luce di distanza. Kapteyn al contrario è la venticinquesima stella più vicina al Sole (a soli 13 anni luce di distanza).
Si ritiene che  Kapteyn possa esser nata in una galassia nana inglobata miliardi di anni fa dalla nostra Via Lattea. Questa cannibalizzazione galattica ha fornito alla stella su un nuovo percorso, rendendola parte della Via Lattea.
Il nucleo residuo probabile della galassia nana originale è Omega Centauri, un gruppo enigmatico di stelle a 16.000 anni luce dalla Terra che contiene centinaia di migliaia di stelle vecchie, a lungo ritenute pensato un ammasso globulare. Ciò fa ritenere agli scienziati che Kapteyn e dei suoi pianeti possano avere un'età di ben 11,5 miliardi anni, cioè solo 2.000 milioni anni più giovane dell'Universo stesso (che avrebbe secondo le attuali stime 13.700 milioni anni di età).
La vita potrebbe essere quindi sorta in un'età a noi inimmaginabile e anche nell'Universo primordiale.

Traduzione e adattamento a cura di Arthur McPaul

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2014/06/140603194011.htm

giovedì 5 giugno 2014

Scoperta Nuovo Pianeta Extrasolare roccioso 17 volte la massa della Terra


Una incredibile scoperta sconvolge la ricerca di nuovi mondi, al di fuori del nostro Sistema Solare.

Gli astronomi dello Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics hanno infatti annunciato di aver individuato un nuovo pianeta alieno di tipo terrestre, ben 17 volte più massiccio della nostra Terra.
"Siamo davvero sorpresi di questa scoperta", ha detto lo scopritore Xavier Dumusque.
"Questo è un Godzilla tra i pianeti terrestri, che potrebbe avere implicazioni positive per la ricerca della vita extrasolare", ha aggiunto il ricercatore Dimitar Sasselov, direttore della Harvard Origins of Life Initiative. La nuova mega-Terra, chiamata Kepler-10c, gira attorno ad una stella simile al Sole, ogni 45 giorni, ad una distanza da noi di circa 560 anni luce, nella costellazione del Draco. Il sistema planetario ospita anche il noto esopianeta Kepler-10b, posto in orbita superveloce di sole 20 ore attorno alla sua stella.

Il Telescopio Keplero che è stato utilizzato per la scoperta, non poteva dirci se si trattava di un pianeta roccioso o gassoso, ma soltanto che Kepler-10c possedeva un diametro di 18,000 miles, circa 2.3 times più grande di quello della Terra. Queste dimensioni suggerivano che potesse trattarsi di un pianeta detto Mini-Nettuno, cioé avviluppato in una atmosfera completamente gassosa.
Il team ha utilizzato l'HARPS-North instrument montato sul Telescopio Nazionale Galileo (TNG) situato sulle Isole Canarie, per misurare la massa Kepler-10c.
È stato scoperto che è ben 17 volte più pesante della Terra e che quindi quasi sicuramente è composto da rocce e materiali allo stato solido, come ha spiegato Dumusque.

I modelli sulla formazione di esopianeti, faticano a spiegare come un oggetto simile si possa essere formato, ma certamente non è il solo nella nostra Galassia.
Secondo l'astronomo Lars A. Buchhave, la possibilità di scoprire nuove super o mega Terre è molto alta.
Questa scoperta apre nuove implicazioni sulla possibilità di vita aliena anche nell'Universo primordiale. Il sistema di Kepler-10 è infatti molto vecchio, circa 11 miliardi di anni cioé solo 3 miliardi di anni dopo il Big Bang, dimostrando come i pianeti rocciosi si siano formati molto presto nella vita dello stesso Universo. Secondo il ricercatore Sasselov, ogni pianeta roccioso è un possibile candidato per la vita anche quelli più grandi e più vecchi della nostra Terra.

Il team ha presentato la scoperta in una conferenza per la American Astronomical Society (AAS).

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2014/06/140602115837.htm


Traduzione a cura di Arthur McPaul

Sponsor:
Aiuta a perdere peso, brucia le calorie, da un contributo naturale e concreto per la tua battaglia !