lunedì 30 maggio 2011

Le Borse Hanno Paura Dei Disastri, Anche Se Poco Probabili


Una centrale nucleare costa dai cinque ai dieci miliardi di euro e i mercati hanno difficoltà a finanziarla senza garanzie statali.

Secondo i dati raccolti da Swiss Re, negli ultimi dieci anni il numero di catastrofi naturali o di origine umana è stato oltre il doppio di quello degli anni Ottanta. Un aumento ancora maggiore si è verificato per i danni economici a carico di persone e organizzazioni.

Questa tendenza sembra irreversibile, a causa di alcuni fenomeni. Intanto, i mutamenti del clima dovuti al riscaldamento globale, che sembrano influire sulla frequenza e l’intensità degli uragani e di altri disastri meteorologici. E poi la crescita della popolazione mondiale, con un conseguente incremento della densità demografica in aree esposte a eventi catastrofici, e l’incremento del valore complessivo delle unità a rischio, in particolare della proprietà immobiliare privata e commerciale, come conseguenza dell’aumento del reddito pro-capite e delle attività industriali e di servizi. L’incidente della centrale nucleare di Fukushima suggerisce che anche certe tecnologie intrinsecamente pericolose possono registrare nel tempo un aumento degli incidenti, in conseguenza dell’allargamento della base installata e dell’invecchiamento degli impianti.
 
Ciò che contraddistingue un rischio catastrofale è il combinarsi di un’elevata severità delle perdite potenziali e di una bassissima probabilità di accadimento. La ricerca psicologica ha rivelato che gli esseri umani faticano ad adottare atteggiamenti razionali verso questo tipo di eventi. Per esempio, uno studio di qualche anno fa mostrava che i residenti dei paesi che si trovano a valle di una diga sono certi che il crollo sia impossibile; si fidano delle rassicurazioni dei tecnici e attribuiscono i crolli del passato a errori irripetibili. Tuttavia, le persone cancellano dalla mente solo i pericoli esistenti, cui sono già esposti e che non potrebbero evitare. Al contrario, i rischi catastrofali nuovi ed evitabili suscitano fortissimi rifiuti emotivi, come se l’eventualità di un incidente fosse certa.
 
I rischi catastrofali sono difficili da trattare anche sul piano scientifico. La probabilità di accadimento dovrebbe dipendere dalla frequenza con cui l’evento si è verificato in un arco di tempo abbastanza lungo. Nel caso di catastrofi, l’evento può però essere così raro da determinare un’assenza o una povertà di dati storici. Le stime di probabilità devono quindi essere ricavate per via ingegneristica, con tutti i limiti della capacità umana di calcolare situazioni imprevedibili. È qui inevitabile un parallelo fra l’incidente di Fukushima e la crisi bancaria del 2008, in quanto in entrambi i casi gli esperti ci avevano rassicurato che la catastrofe era impossibile.
 
Per definizione, i rischi catastrofali possono compromettere la sopravvivenza stessa di un’impresa. Per la loro dimensione, risulta inoltre difficile trasferirli ai mercati assicurativi o finanziari. Per citare di nuovo il caso del nucleare, è noto che il solo costo di costruzione di un reattore nucleare può essere così grande (dai 5 ai 10 miliardi di euro) da essere paragonabile al valore di borsa dell’impresa che vuole realizzarlo. Di conseguenza, le borse considerano i reattori nucleari un rischio eccessivo che rifiutano di finanziare; quando interviene lo stato, comunque può chiedere alle imprese costi troppo alti. Nello scorso ottobre l’azienda elettrica americana Constellation Energy ha rinunciato a costruire un nuovo impianto nucleare nel Maryland dopo che il governo aveva chiesto una fee di 880 milioni di dollari per garantire un finanziamento di 7,6 miliardi di dollari (per un costo percentuale di 11,6%). Questo costo non considera tutti gli oneri di risarcimento che potenzialmente ricadrebbero su un’impresa in caso di incidente nucleare con danni alle persone o a terze organizzazioni.
 
È pertanto difficile che rischi catastrofali di queste dimensioni possano essere gestiti dai privati, anche se le forme di collaborazione (finanziaria e tecnica) con il settore pubblico sono ancora in gran parte da definire.

A cura di Nicola Misani, ricercatore di economia e gestione delle imprese alla Bocconi

Fonte:  

Osservate Spettacolari Valanghe Granulose Sulla Luna


Immagine di una serie di valanghe vicino al fondo del Cratere Riccioli sulla Luna. Credit: NASA/LRO/GSFC/Arizona State University

Normalmente siamo abituati a vedere valanghe e cadute di terreno sulla Terra, e ultimamente ne abbiamo viste alcune anche esotiche su Marte, ma grazie alla potenza del Lunare Reconnaissance Orbiter, siamo riusciti a vedere alcune straordinarie cadute a vale di materiale granuloso. La corrente di materiale bianco che vedete nell’immagine sopra è composta da blocchi di varie dimensioni, polvere e massi. Questo conglomerato di materiale sta scendendo sui fianchi del Cratere Riccioli nella direzione del fondale. Le immagini raccolte hanno una risoluzione di 50cm per pixel. Di seguito anche altre immagini che mostrano i particolari di queste valanghe lunari:

Particolare di una cascata di materiale granuloso sui fianchi del Cratere Riccioli. Credit: NASA/LRO/GSFC/Arizona State University

Nella parte finale della valanga qui sopra, che si trova nella parte in alto a sinistra all’incirca, il flusso di materiale si divide a ventaglio, in maniera simile a come succede con il materiale umido quando si crea un conoide di deiezione (cono alluvionale), cioè un cono di materiali che finisce con un apertura caratteristica a delta, o ventaglio.

Particolare del cono alluvionale di una valanga sulla Luna. Credit: NASA/LRO/Università dell'Arizona

Una delle cose più sorprendenti di queste cascate è vedere come la fisica di un materiale bagnato (modello di Fluido Newtoniano) in alcuni casi si applica anche a materiali asciutti. La luna è completamente asciutta, quindi questa valanga, cosi simile in tanti aspetti a quelle sulla Terra si è formata senza alcuna umidità.
La caduta di materiale potrebbe essere avvenuta subito dopo l’impatto che ha formato il Cratere Riccioli, ma potrebbe anche essere stata provocata da qualche altro evento avvenuto più tardi nella storia del cratere. Nel tempo la forma del cratere cambia per via del movimento delle rocce, cadute e valanghe di questo tipo quindi, sono un modo comune di erosione dei crateri in altri posti dove fattori di erosione a cui siamo abituati sulla Terra non esistono.

Valanghe in un altra parte del cratere Riccioli. Credit: LRO/NASA/Universty of Arizona

Un altro evento che potrebbe provocare un movimento di materiale è un ulteriore impatto con un altro asteroide, magari anche di dimensioni molto ridotte, ma in grado di muovere parte del terreno. Ci sono inoltre eventi vulcanici che possono letteralmente aver scosso la crosta intorno provocando terremoti lunari. Resta sempre un impresa notevole per gli scienziati riuscire ad analizzare geologicamente in dettaglio questi eventi senza essere presenti sul luogo, ma va riconosciuto loro il grande merito di riuscire spesso in questa grandissima impresa, rivelandoci moltissimo sul passato geologico di altri mondi, con risorse spesso limitate.

Valanghe all'interno del cratere Robinson. L'immagine, grande 620 metri, ha una risoluzione di solo 52 cm per pixel. Credit: NASA/GSFC/Arizona State University

Anche nell’immagine sopra si notano i segni di una caduta di materiali che segue le dinamiche di un fluido newtoniano. Per molti ricercatori, le valanghe su Marte sono indice di un umidità rimasta nel terreno, quindi segno della presenza, in certe particolari situazioni, di acqua vicino alla superficie, anche se evapora velocemente. Tuttavia, la scoperta di queste valanghe sulla Luna, che sono per molti versi simili, in un ambiente sicuramente privo di qualsiasi umidità, potrebbe far sorgere il dubbio che le stesse dinamiche siano in atto anche sul pianeta rosso.
 

Il Nucleo Terrestre Si Sta Raffreddando Ma Fonde


Possiamo immaginare la Terra come una cipolla, fatta a strati e con una sottilissima pellicola a ricoprirla.

Quest’ultima è la crosta terrestre ed è anche l’unica parte del pianeta a cui abbiamo accesso diretto. Ma per noi è importante conoscere anche ciò che sta sotto, perché negli involucri via via più profondi hanno origine i processi che portano ai movimenti tettonici, ai vulcani, ai sismi e al magnetismo terrestre.

Purtroppo l’idea di Verne di raggiungere il centro della Terra a piedi non è realizzabile, e gli scienziati hanno dovuto capire qual è la suddivisione interna interpretando le onde dei sismi che raggiungono la superficie. Ed ecco ciò che ora sappiamo: il nucleo interno è una sfera solida di ferro e nichel, grande quasi quanto la Luna. Il nucleo interno è circondato dal nucleo esterno, composto sempre da ferro e nichel ma liquido, e poi dal mantello, molto spesso e viscoso. Infine troviamo la crosta terrestre solida, e per vederla basta abbassare gli occhi al suolo.

Il nucleo interno, molto caldo ma solido per via delle elevate pressioni, si sta raffreddando e cede calore al nucleo esterno liquido. Qui iniziano i processi di convezione: come in una pentola di acqua messa a bollire, si innescano dei cicli di risalita di liquido caldo e di ridiscesa di quello freddo. Il calore viene così ceduto al mantello, dove si generano altri moti convettivi, molto più lenti per via dell’alta viscosità. Le celle convettive del mantello sono il motore della tettonica delle placche, mentre quelle nel nucleo esterno, secondo una teoria avvalorata da molti studiosi, sono alla base del magnetismo terrestre. Insomma sono fenomeni che hanno una certa importanza per noi: non dimentichiamo che il movimento delle placche ha spesso come conseguenza sismi ed eruzioni, mentre il campo magnetico terrestre ci protegge dai raggi cosmici.

Il fatto che la Terra si stia raffreddando dall’interno dovrebbe portare all’aumento delle dimensioni del nucleo interno solido a discapito di quello esterno liquido. In altri termini, la parte liquida attorno alla sfera solida dovrebbe solidificarsi al ritmo di 1 millimetro all’anno. Eppure ora sembra che il nucleo si stia contemporaneamente fondendo e solidificando. Non è una contraddizione, ma il risultato di un nuovo studio  pubblicato di recente su “Nature” e condotto da scienziati dell’Università di Leeds, in Inghilterra, dell’Università della California a San Diego e dell’Indian Institute of Technology a Kampur.

“E’ idea diffusa che il nucleo interno si stia raffreddando e stia crescendo progressivamente, ma sembra che esistano regioni dove il nucleo si sta in realtà fondendo”, afferma Sebastian Rost, sismologo tra gli autori della ricerca. “La perdita netta di calore verso il mantello assicura che, a livello generale, il nucleo si sta raffreddando e crescendo di dimensioni nel tempo, ma non si tratta certo di un processo uniforme”. Insomma, gli scienziati hanno trovato che il nucleo si sta sì raffreddando, ma esistono ampie zone dove avviene proprio il contrario: il risultato è che il raffreddamento, per quanto preponderante, non è omogeneo.

Confrontando i dati sismici con modelli computerizzati della convezione nel nucleo esterno, i ricercatori sono arrivati alla conclusione che le anomalie sono dovute alle dinamiche del mantello, che poggia sul nucleo, e, ancora prima, ai movimenti tettonici. Infatti i modelli mostrano che al di sotto delle zone tettonicamente attive, come la “cintura di fuoco” del Pacifico, il nucleo si sta effettivamente raffreddando. Al contrario, sotto l’Africa e il Pacifico esistono zone del nucleo calde a sufficienza perché la parte solida possa fondere. Ciò si spiega con il fatto che la “cintura di fuoco” è una zona di subduzione, dove la placca oceanica, fredda rispetto al mantello, viene spinta verso il basso da quelle continentali. Affondando nel mantello, la placca determina un abbassamento di temperatura locale che si propaga fino al nucleo. Invece, dove la placca è stabile, il mantello non può dissipare calore ed è costretto a rimandarlo verso il nucleo. “Solo una piccola parte della superficie del nucleo interno può fondere in un dato momento”, aggiunge Jon Mound, geofisico e coautore della ricerca. “Comunque, considerate le dimensioni del nucleo interno, anche solo l’1 per cento della superficie in fusione corrisponderebbe a 200 mila chilometri quadrati”. Ciò significa che la dinamica del nucleo interno è più complicata di quanto si pensasse, e in qualche modo legata alla tettonica delle placche.

Questo modello permette di spiegare anche certe anomalie nella propagazione delle onde sismiche registrate nel passato. Infatti i dati mostravano la presenza di una superficie liquida ma densa attorno al nucleo interno, e regioni in cui le onde si muovevano più veloci che in altre. Tutto ciò è in accordo con i risultati trovati. In più, i ricercatori promettono che il loro risultato avrà un’influenza notevole anche sugli studi riguardo al geomagnetismo. Le origini di questo fenomeno non sono ancora pienamente comprese, e le ipotesi sfruttano modelli che simulano i vortici presenti nel nucleo esterno, in base alla teoria della dinamo ad autoeccitazione. “Tra i modelli, non tutti danno luogo a calore che fluisce verso il nucleo interno. E la possibilità che questo stia fondendo imporrà dei grossi vincoli al regime in cui la dinamo terrestre deve operare”, concludono i ricercatori.

Fonte originale: Gubbins, D., Sreenivasan, B., Mound, J., & Rost, S. (2011). Melting of the Earth’s inner core Nature, 473 (7347), 361-363 DOI: 10.1038/nature10068 

A cura di Mattia Luca Mazzucchelli

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I Viaggi Interstellari Di Kip Thorne

Articolo standard


Un genio dei buchi neri con il pallino della fantascienza. Uno scienziato di fama internazionale che ci lascia sognare viaggi interstellari, attraverso i cosiddetti whormholes, i cunicoli spazio temporali che collegherebbero punti distanti dell’Universo. 

Ecco chi è Kip S. Thorne, il fisico statunitense del California Institute of Technology (Caltech), ospite mercoledì 25 maggio della Scuola internazionale di studi superiori avanzati (Sissa) di Trieste, per la settima edizione della Dennis Sciama memorial lecture. L’incontro annuale in memoria del grande cosmologo inglese Dennis Sciama, coordinatore, dal 1982 al 1998 del settore di astrofisica della Sissa, si svolge alle 17.30 alla Stazione Marittima di Trieste. La stessa conferenza, dal titolo Black-Hole Research: A New Golden Age, è in programma per venerdì all’Università di Oxford, in Inghilterra, insieme al collega Stephen Hawking.

Thorne è famoso per i suoi studi sulla possibilità di compiere viaggi interstellari, anche tra i cultori della fantascienza: ha più volte collaborato infatti con il mondo del cinema. Prima come consulente scientifico di Robert Zemeckis per il film Contact (in cui la scienziata Ellie Arroway, interpretata da Jodie Foster, riesce a viaggiare attraverso un tunnel spaziotemporale). Oggi lavora con Steven Spielberg, che l’ha ingaggiato per il suo nuovo movie Interstellar, la cui uscita è prevista per Natale 2014.

La sua altra specialità sono le onde gravitazionali. Proprio Thorne è la mente dietro l’interferometro statunitense LIGO, che ha il suo corrispettivo italiano in VIRGO: lo scienziato è così convinto dell’esistenza delle increspature nello spazio-tempo che ha scommesso con Stephen Hawking che presto sarà possibile rilevarne la traccia.

“La nuova età dell’oro per lo studio dei buchi neri è contraddistinta dall’uso delle simulazioni numeriche e degli interferometri laser, osservatori progettati per rilevare le onde gravitazionali, che sono perturbazioni dello spazio tempo” spiega Thorne, che nel 1984 è stato tra i fondatori del Laser Interferometer Gravitational-Wave Observatory (LIGO), progetto che coinvolge gli scienziati del Caltech e del Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston.

Recentemente, Thorne e i suoi colleghi hanno simulato l’interazione tra due buchi neri e hanno osservato come lo spazio tempo circostante si deformi come la superficie del mare in tempesta. Hanno scoperto che la collisione tra due buchi neri ruotanti produce vortici che generano delle onde gravitazionali rilevabili proprio da osservatori come LIGO e VIRGO. “Si tratta di risultati importanti perché così potremmo riuscire meglio a comprendere i buchi neri, la gravità e la natura dell’universo e a predire le forme d’onda delle onde gravitazionali”, conclude Thorne.

A cura di Daniela Cipolloni

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Nuovi Indizi Sulla Massa Mancante


A 22 anni, una studentessa australiana di ingegneria aerospaziale dell’Università Monash di Melbourne ha scoperto dove si nasconde la “materia mancante”, o almeno una parte della consistente quota di particelle barioniche (protoni, elettroni, neutroni, la materia ordinaria di cui siamo fatti) che per qualche motivo manca all’appello nell’Universo vicino (qui il comunicato stampa dell’Università australiana).

La giovane borsista, Amelia Fraser-McKelvie, insieme ai colleghi astrofisici Kevin Pimbblet e Jasmina Lazendic, dopo soli tre mesi di osservazioni nei raggi X è riuscita a rilevare una componente della materia mancante in strutture cosmiche galattiche di grande scala chiamate filamenti. La scoperta, presentata sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, è subito rimbalzata sui giornali con grande clamore.

“Si tratta di un ulteriore tassello che contribuisce a comporre il puzzle della materia mancante nell’Universo, ma già diversi lavori in questi anni hanno mostrato progressive evidenze dell’effettiva esistenza di questa quota di materia”, commenta Luca Zappacosta, ricercatore dell’INAF Osservatorio astronomico di Roma.

Da decenni gli scienziati inseguono la massa mancante. Da un punto di vista teorico, infatti, risulta che nell’Universo debba esserci circa il doppio della massa ordinaria che riusciamo a rivelare. Un mistero che finalmente comincia a dipanarsi. Per esempio, lo scorso anno, un’altra ricerca nei raggi X pubblicata su Astrophysical Journal condotta da ricercatori statunitensi e italiani dell’INAF OA Trieste, OA Roma, OA Brera, IASF Milano aveva trovato tracce consistenti della massa mancante in un’immensa rete di gas caldo diffuso, con temperature di circa un milione di gradi, chiamato Warm-Hot Intergalactic Medium (WHIM). Stavolta, la bussola punta ai filamenti tra gruppi di galassie.

“Si tratta di filamenti composti da ammassi di galassie, esterni alla Via Lattea”, spiega Zappacosta. “Si ritiene che la materia oscura possa esercitare una tale attrazione gravitazionale da attirare le galassie, allineandole in filamenti. Allo stesso tempo, la materia oscura attira il mezzo intergalattico che cadendo in questi filamenti formati da galassie si surriscalda ed emette nei raggi X”. Il problema è che l’emissione è debolissima, difficile da osservare e facilmente confondibile con altre componenti dell’Universo.

L’abilità di Fraser-McKelvie è stata quella di riuscire a confermare nei raggi X la presenza di filamenti, dove si nasconde la massa mancante, estremamente rarefatta ma ad temperature attorno al milione di °C. Anche il cosiddetto WHIM fa parte dei filamenti galattici. “La scoperta è una conferma importante delle previsioni teoriche, che rafforza le conoscenze in questo campo”, prosegue Zappacosta. “Gli scienziati sono al lavoro da alcuni anni per coretruire telescopi più potenti di quelli atutali per osservare il mezzo interstellare e quindi la materia mancante”.


Foto in alto: Dr Jasmina Lazendic-Galloway, Amelia Fraser-McKelvie e Dr Kevin Pimbblet

A cura di Daniela Cipolloni

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Sulla Luna Acqua Come Nel Mantello Della Terra


Gli scienziati hanno rilevato la presenza di una quantità di acqua all'interno della Luna, equivalente a quella presente sulla Terra.

Grazie alla scoperta di un team che comprende membri della Brown University, è stato dimostrato che che alcune parti del mantello lunare hanno tanta acqua quanto quella presente nel mantello superiore della Terra.

Le inclusioni lunari sono minuscoli globuli di roccia fusa intrappolati all'interno di cristalli che si trovano nei depositi di vetro vulcanico formatosi durante le eruzioni esplosive. La nuova scoperta, pubblicata su Science Express, mostra che il magma lunare conterrebbe 100 volte più acqua rispetto a quello che precedenti studi avevano suggerito.

Il risultato è il culmine di anni di indagini alla ricerca di acqua e altri composti volatili nei vetri vulcanici portati sulla Terra dalla NASA grazie alle missioni Apollo alla fine del 1960 e nei primi anni 1970. In un articolo su Nature nel 2008, la stessa squadra guidata da Alberto Saal, professore associato di scienze geologiche alla Brown, ha riportato la prima prova della presenza di acqua e dei modelli utilizzati per stimare quanta acqua è stata originariamente nel magma prima dell'eruzione.
"La linea di fondo", ha detto Saal, un autore del documento pubblicato su Science Express e ricercatore principale "è che nel 2008, avevamo detto che il contenuto di acqua primitiva nel magma lunare dovrebbe essere simile a quello contenuto nelle lave provenienti dal mantello impoverito superiore della Terra. Ora, abbiamo dimostrato che è davvero così".
La nuova scoperta ha avuto esito grazie ad uno studente universitario della Brown, Thomas Weinreich, che ha trovato le inclusioni fuse, permettendo al team di misurare la concentrazione pre-eruzione di acqua nel magma e stimare la quantità di acqua negli interni della Luna. Weinreich li ha cercati in migliaia di grani del famoso "suolo orancione" ad alto contenuto di titanio, scoperto dall'astronauta Harrison Schmitt durante la missione Apollo 17 prima di trovare dieci inclusioni.

"E' proprio un chiaro esempio con alcune macchie nere in esso," ha detto Weinreich, il secondo autore sulla carta.
Rispetto ai meteoriti, la Terra e gli altri pianeti interni del nostro Sistema Solare contengono quantità relativamente basse di elementi come l'acqua che non erano abbondanti nel sistema solare interno durante la formazione del pianeta. Quantità ancora più basse di questi elementi volatili trovati sulla Luna sono state a lungo rivendicate come prova del fatto che dovevano essersi formati a seguito di una temperatura elevata, come un catastrofico impatto. Ma questa nuova ricerca mostra che gli aspetti di questa teoria devono essere rivalutati.
"L'acqua svolge un ruolo critico nel determinare il comportamento tettonico delle superfici planetarie, il punto di fusione degli interni planetari e la posizione e lo stile eruttivo dei vulcani planetari", ha detto Erik Hauri, un geochimico per la Carnegie Institution di Washington e autore principale dello studio. "Non ci potrebbe essere esempio migliore di questi campioni di vetro vulcanico che sono stati mappati non solo sulla luna, ma in tutto il Sistema Solare interno".
Il team di ricerca ha misurato il contenuto di acqua nelle inclusioni utilizzando una microsonda ionica NanoSIMS 50L.
"A differenza della maggior parte dei  depositi vulcanici, le inclusioni da fusione sono racchiuse in cristalli, che impediscono la fuoriuscita di acqua e altri composti volatili durante l'eruzione. Questi campioni forniscono la migliore stima che abbiamo sulla quantità di acqua all'interno della Luna", ha detto James Van Orman della Case Western Reserve University, e membro del team scientifico.
Lo studio fornisce anche una nuova prova sulla provenienza di ghiaccio d'acqua individuato nei crateri dei poli lunari dalle recenti missioni NASA. 
Il ghiaccio è stato attribuita a una cometa e agli impatti di meteoriti, ma è possibile che una parte di questo ghiaccio possa provenire dall'acqua rilasciata dalle eruzioni dei magmi lunare.

Malcolm Rutherford, professore emerito di scienze geologiche alla Brown, ha contribuito allo studio, mentre a finanziare la ricerca è stato il LASER NASA e il programma di Cosmochemistry con il sostegno aggiuntivo fornito dal NASA Lunar Science Institute (NLSI) e dal NASA Astrobiology Institute.

Foto in alto: Microframmento di inclusione lavica che ha permesso agli scienziati di determinare ls quantità di acqua presente sulla Luna. (Credit: Saal lab, Brown University)

Traduzione a cura di Arthur McPaul

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domenica 29 maggio 2011

Vicino Ad Una Protostella Piovono Cristalli Verdi


Piccoli cristalli di un minerale verde chiamato olivina stanno cadendo come pioggia su una stella nascente. Questa è l'ultima meraviglia dal cosmo scoperta dal telescopio Spitzer della NASA.

E' la prima volta che questi cristalli sono osservati nella polvere delle nuvole di gas, che si forma attorno alle stelle collassate. 
Gli astronomi stanno ancora discutendo su come si siano potuti formare, ma la causa più probabile potrebbe essere quella dei getti di gas che sono spazzati via dalle stelle embrionali.

"C'è bisogno di temperature calde come lava per dar vita a questi cristalli", ha detto Tom Megeath dell'Università di Toledo in Ohio. Egli è il ricercatore principale e secondo autore di un nuovo studio che figura nell'Astrophysical Journal Letters. 
"Proponiamo che i cristalli si siano formati vicino alla superficie della stella che li ha poi spinti verso la nube che la circonda, dove le temperature sono molto più fredde e, infine, risplendono".

I rilevatori a infrarossi del telescopio spaziale Spitzer della NASA hanno individuato la pioggia di cristalli attorno a una lontana, stella embrionale simile al Sole, denominato LUPPOLO-68, nella costellazione di Orione.
I cristalli sono in forma di forsterite. Appartengono alla famiglia dei minerali silicati dell'olivina e possono essere trovati ovunque, da una gemma alla sabbia verde delle spiagge delle Hawaii alle galassie remote. 

Le missioni NASA Stardust e la Deep Impact avevano individuato i cristalli nel loro studio sulle comete.
"Se si potesse in qualche modo giungere all'interno della nube di gas di questa protostella, apparirebbe molto scura", ha detto Charles Poteet, autore principale dello studio, anche presso l'Università di Toledo. "Ma i piccoli cristalli potrebbero provocare una scintilla verde sullo sfondo polveroso ad ogni flebile bagliore di luce".

I cristalli di forsterite
sono stati avvistati in precedenza nei dischi vorticosi di formazione planetaria che circondano le stelle giovani. 
La scoperta dei cristalli nella nube esterna di una proto-stella collassata è sorprendente, a causa delle temperature più fredde di circa -280 gradi Fahrenheit (-170 gradi Celsius). Questo ha portato il gruppo di astronomi a speculare che siano stati i getti a trasportare i cristalli cotti fino alla fredda  nuvola esterna.

I risultati potrebbero anche spiegare perché le comete, che si formano nella periferia frigida del nostro sistema solare, contengono lo stesso tipo di cristalli. Le comete sono nate in regioni dove l'acqua è gelata e le temperature necessarie per formare i cristalli sono di circa 1.300 gradi Fahrenheit (700 gradi Celsius). La teoria principale di come le comete acquisiscano i cristalli teorizza che i materiali nel nostro Sistema Solare giovane si mescolarono assieme in un disco di formazione planetaria. In questo scenario, i materiali che si formano vicino al Sole, come i cristalli, migrarono verso l'esterno, le regioni più fredde del Sistema Solare.

Poteet e i suoi colleghi dicono che questo scenario potrebbe essere ancora vero, ma ipotizzano che i getti potrebbero aver sollevato i cristalli nella nube di gas collassata che circondano il nostro Sole prima di piovere nelle regioni esterne del nostro Sistema Solare. 
Alla fine, i cristalli sarebbero stati congelati nelle comete. 

L'Herschel Space Observatory, è una missione dell'Agenzia spaziale europea che ha portato importanti contributi con la NASA allo studio che caratterizza la formazione stellare.

I "Telescopi infrarossi Spitzer e Herschel ora stanno fornendo un quadro interessante di come gli ingredienti dello stufato cosmico che hanno dato vita ai sistemi planetari si sono mescolati insieme", ha dichiarato Bill Danchi, astrofisico e scienziato senior del programma della NASA a Washington.

Le osservazioni di Spitzer sono state fatte prima di terminare il suo liquido di raffreddamento nel maggio 2009 e iniziare la sua missione "a caldo".

Traduzione a cura di Arthur McPaul

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Realizzata La Più Completa Mappa In 3D Dell'Universo Locale


Gli astronomi hanno rilasciato la più completa mappa in 3-D dell'Universo locale, [foto in alto], (a una distanza di 380 milioni di anni luce) mai creata. Sono stati necessari più di 10 anni per completare il 2MASS Redshift Survey (2MRS), ed estendere al più vicino piano galattico le precedenti indagini (una regione che è generalmente oscurato dalla polvere).

La Masters Karen (Università di Portsmouth, UK) ha presentato la nuova mappa, il 25 maggio 2011, in una conferenza stampa in occasione del 218mo incontro dell'American Astronomical Society.

"Il 2MASS Redshift Survey è uno sguardo meraviglioso all'Universo locale, soprattutto in prossimità del piano galattico", ha detto Masters. "Stiamo anche onorando la memoria del defunto John Huchra, astronomo dell'Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics, che è stato una grande guida dietro questo progetto e alle indagini precedenti sul redshift delle galassie".
La luce di una galassia è chiamata redshift. Più lontana è situata, maggiore è il suo spostamento verso il rosso, o redshift, dando quindi la terza dimensione di una mappa celeste in 3-D.
2MRS ha scelto le galassie da immagini realizzate dagli All Two-Micron-SkySurvey (2MASS). Questo sondaggio ha scansionato tutto il cielo in tre fasce di lunghezza d'onda del vicino infrarosso. La luce nel vicino infrarosso penetra la polvere meglio rispetto alla luce visibile, permettendo agli astronomi di vedere oltre. Ma senza l'aggiunta degli spostamenti verso il rosso, 2MASS otterrebbe solo una immagine 2-D. 
Alcune delle galassie mappate in precedenza erano state misurate nel redshift, Huchra aveva infatti iniziato faticosamente a farlo fin dalla fine del 1990, utilizzando principalmente due telescopi: uno presso il Lawrence Fred Whipple Observatory sul monte Hopkins, in Arizona e uno presso presso l'Osservatorio di Cerro Tololo Inter-American in Cile. 

Le ultime osservazioni sono state completate dagli osservatori 2MRS su questi telescopi poco dopo la morte di Huchra nel mese di ottobre del 2010.
Robert Kirshner, collega di Huchra presso il Center for Astrophysics (CfA), ha detto: "John amava fare indagini sul redshift e amava l'infrarosso. Ebbe l'intuizione di utilizzare la tecnologia ad infrarossi per un grande progetto come questo".
John è stato determinante nel creare il telescopio 2MASS a Mount Hopkins, curando il lato a infrarossi del progetto, con un sondaggio molto più completo dell'Universo locale".

"Questo risultato è pertanto un meraviglioso tributo a John, da parte dei suoi colleghi che hanno terminato il sondaggio ad infrarossi", ha infine aggiunto.
Il 2MRS ha mappato zone in dettaglio precedentemente nascoste dietro la polvere interstellare della nostra Via Lattea. 
Il movimento della Via Lattea rispetto al resto dell'universo è stato un mistero fino a quando gli astronomi non sono stati in grado di misurarlo, scoprendo che non poteva essere spiegato con l'attrazione gravitazionale di qualsiasi materia visibile. 
La scoperta di massicce strutture locali, come la regione Hydra-Centaurus (il "Grande Attrattore"), precedentemente nascosta dietro la Via Lattea, sono ora indicate in dettaglio dalla mappa di 2MRS.

Traduzione a cura di Arthur McPaul

Fonte:  

sabato 28 maggio 2011

Marte: Spiegato il Perchè Delle Sue Dimensioni Ridotte?


Secondo un nuovo studio, pubblicato sul numero del 26 maggio della rivista Nature, il pianeta Marte si sarebbe sviluppato molto velocemente, dai due ai quattro milioni di anni dopo la nascita del Sistema Solare.

La rapida formazione del Pianeta Rosso aiuterebbe quindi a spiegare il perché delle sue ridotte dimensioni, secondo lo studio dei co-autori, Nicolas Dauphas presso l'Università di Chicago e Ali Pourmand presso l'Università di Miami (UM) Rosenstiel School of Marine & Atmospheric.

"Marte probabilmente non è un pianeta come la Terra, cresciuto alla sua dimensione più completa in 5-10 milioni anni attraverso collisioni con altri corpi minori del Sistema Solare" ha detto Dauphas, un professore associato in scienze geofisiche.
"La Terra si è formata da embrioni come Marte, ma Marte è un embrione planetario che non è mai entrato in collisione con altri embrioni per dar vita un pianeta simile alla Terra", ha detto Dauphas. 
Il nuovo lavoro fornisce prove a sostegno di questa idea, che è stata proposta circa 20 anni fa sulla base di simulazioni della crescita planetaria.

"Le nuove prove probabilmente cambieranno il modo in cui gli scienziati planetari guarderanno alla storia di Marte", ha osservato Pourmand, assistente professore di geologia marina e geofisica al Rosenstiel UM School. "Riteniamo che non ci sono embrioni nel Sistema Solare da studiare, ma quando si studia Marte, ne abbiamo uno da cui hanno avuto orogine pianeti come la Terra".

C'erano state grandi incertezze nel capire la storia della formazione di Marte a causa della composizione sconosciuta del suo mantello, lo strato di roccia che è alla base della crosta. "Ora possiamo ridurre tali incertezze, fino al punto in cui possiamo rendere le ipotesi scienza", ha detto Dauphas.

Dauphas e Pourmand sono stati in grado di perfezionare l'età di Marte utilizzando il decadimento radioattivo dell'afnio di tungsteno nei meteoriti, come se fosse un cronometro. 

Questo processo di decadimento relativamente rapido significa che quasi tutto l'afnio 182 scompare in 50 milioni di anni, fornendo un modo per assemblare una cronologia degli eventi dall'inizio del Sitema Solare.
"Per applicare questo sistema servirebbero due ingredienti," ha detto Pourmand: "È necessario il rapporto afnio-tungsteno del mantello di Marte e la composizione isotopica del tungsteno del mantello di Marte". Quest'ultimo era ben noto dalle analisi dei meteoriti marziani, ma non la prima.
Le stime precedenti sulla formazione di Marte parlavano al massimo di 15 milioni di anni perché la composizione chimica del mantello marziano era in gran parte sconosciuta. Gli scienziati hanno ancora grandi incertezze nel comprendere la composizione del mantello terrestre a causa della composizione che altera i processi, come la fusione.

"Abbiamo lo stesso problema per Marte", ha detto Dauphas. L'analisi dei meteoriti marziani fornisce indizi utili per la composizione del mantello di Marte, ma anche le loro composizioni sono cambiate.
Risolvere alcune incognite persistenti riguardo alla composizione dei condriti, un tipo comune di meteoriti, ha fornito i dati di cui avevano bisogno. Essendo detriti inalterati fin dalla nascita del Sistema Solare, i meteoriti condriti fungono da stele di Rosetta per dedurre la composizione chimica planetaria.
I chimici hanno intensamente studiato i condriti, ma hanno ancora scarsamente compreso la presenza abbondante di due categorie di elementi che contenevano, tra cui l'uranio, il torio, il lutezio e l'afnio.

Dauphas e Pourmand hanno quindi analizzato le abbondanze di questi elementi in più di 30 condriti e quelli rispetto alle composizioni di altri 20 meteoriti marziane.
"Una volta compresa la composizione delle condriti si possono affrontare molte altre questioni", ha detto Dauphas, tra cui un perfezionamento dell'età della Via Lattea, come pubblicato in uno studio nel 2005.

L'Afnio e il torio sono entrambi elementi refrattari o non-volatili, nel senso che le loro composizioni rimangono relativamente costanti nei meteoriti.
Essi sono anche elementi litofili, quelli che sarebbero rimasti nel mantello quando il nucleo di Marte si formó. Così, se gli scienziati potessero misurare il rapporto afnio-torio del mantello marziano, avrebbero il rapporto per tutto il pianeta, necessario per ricostruire la sua storia di formazione.

I rapporti tra l'afnio, il torio e il tungsteno deve essere simile allo stesso rapporto nei condriti. Per ricavare il rapporto dell'afnio-torio del mantello marziano, si divise il rapporto torio-tungsteno delle meteoriti marziane dal rapporto torio-afnio delle condriti.

"Ció è avvenuto perché il torio e il tungsteno hanno un comportamento chimico molto simile", ha detto Dauphas.
Una volta che Dauphas e Pourmand hanno determinato questo rapporto, sono stati in grado di calcolare il tempo impiegato da Marte per svilupparsi. 

Da una simulazione al computer sulla base di questi dati è emerso che Marte deve aver raggiunto metà della sua dimensione attuale solo in due milioni di anni dopo la formazione del Sistema Solare.

Una tale rapida formazione aiuta a spiegare le sconceetanti somiglianze nel contenuto xeno della sua atmosfera e quella della Terra.
"Forse è solo una coincidenza, ma forse la soluzione è che quella parte dell'atmosfera terrestre è stata ereditata da una precedente generazione di embrioni che avevano le loro atmosfere proprie, magari un ambiente come Marte", ha detto Dauphas.

La breve storia della formazione di Marte solleva ulteriormente la possibilità che l'alluminio 26, presente nei meteoriti, abbia trasformato il pianeta in un oceano di magma molto rapidamente nella sua storia. L'alluminio 26 ha una emivita di 700.000 anni, quindi sarebbe sparito troppo in fretta per contribuire al calore interno della Terra.
Se Marte si è formato in due milioni di anni, tuttavia, rimarrebbero notevoli quantità di alluminio 26. 
"Quando questo alluminio 26 decade in alluminio, cede calore e può sciogliere completamente il pianeta", ha detto Pourmand.

Traduzione a cura di Arthur McPaul

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venerdì 27 maggio 2011

Dai Dati Della Sonda Galileo, Scoperto Oceano Di Magma Sotto La Superficie Di Io

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Una nuova analisi di dati provenienti dal veicolo spaziale Galileo della NASA, ha rivelato che sotto la superficie della luna vulcanica di Giove, Io, è presente un "oceano" parzialmente fuso di magma.

Lo studio, pubblicato il 13 maggio sulla rivista Science, è la prima conferma diretta della presenza di magma sotterraneo su Io. 

La ricerca è stata condotta dagli scienziati dell'UCLA, la UC di Santa Cruz e della University of Michigan-Ann Arbor.

"Il magma caldo dell'oceano di Io è milioni di volte più conduttore di elettricità delle tipiche rocce sulla superficie della Terra", ha detto l'autore principale dello studio, Krishan Khurana, ex co-ricercatore del team di Galileo e geofisico per l'Institute dell'UCLA di Geofisica e Fisica Planetaria.

"Proprio come le onde con le travi a vista da un metal detector dell'aeroporto, rimbalzano  sulle monete metalliche in tasca, tradendo la loro presenza al rivelatore, così il campo magnetico rotante di Giove rimbalza continuamente al largo delle rocce fuse all'interno di Io. Il segnale rimbalzato può essere rilevato da un magnetometro su un veicolo spaziale che passa nelle vicinanze.

"Gli scienziati sono entusiasti del fatto che finalmente abbiano capito da dove proveniva il magma di Io, fornendo una spiegazione per alcune delle misteriose anomalie che erano emerse in alcuni dei dati sul campo magnetico registrati da Galileo", ha aggiunto Khurana. "Io, emette continuamente un segnale presente nel campo magnetico di Giove che corrisponde a quanto ci si aspetterebbe da quello emesso dalle rocce fuse o parzialmente fuse presenti nelle profondità sotto la sua superficie".

I vulcani noti di Io sono diversi da quelli sulla Terra; Io produce circa 100 volte più lava ogni anno di tutti i vulcani della Terra. Mentre quelli sulla Terra si verificano in punti caldi localizzati, come ad esempio il "Ring of Fire" in giro per l'Oceano Pacifico, i vulcani di Io sono distribuiti in tutta la sua superficie. Un oceano di magma globale che si trova sotto 20 a 30 miglia (30 a 50 km) della crosta di Io e aiuta a spiegare l'attività sismica della luna.

"E 'stato suggerito che sia la Terra che la Luna possono aver avuto simili oceani di magma miliardi di anni fa, al tempo della loro formazione, ma si sono poi raffreddati", ha detto Torrence Johnson, che era scienziato del progetto Galileo, al NASA Jet Propulsion Laboratory di Pasadena, in California, e che non era direttamente coinvolto nello studio. "Il vulcanesimo di Io ci illumina su come funzionano i vulcani e fornisce una finestra indietro nel tempo per l'attività vulcanica che si verificó sulla Terra e la Luna nel corso della loro storia più antica".

I vulcani di Io sono stati scoperti dalla sonda Voyager della NASA nel 1979. L'energia per l'attività vulcanica nasce dalla spremitura e l'allungamento della luna a causa della forza di gravità di Giove cui orbita intorno il satellite Io.

La sonda Galileo era stata lanciato nel 1989 e ha iniziato ad orbitare attorno a Giove nel 1995. Dopo il successo della missione, la sonda è stata volutamente inviata nell'atmosfera di Giove nel 2003. Una traccia inspiegabile apparve nei dati del campo magnetico ripresa da Galileo nel randeaz-vous con Io nel mese di ottobre d 1999 e nel febbraio del 2000, durante la fase finale della missione.

"Ma al momento, i modelli di interazione tra Io e l'immenso campo magnetico di Giove, che bagna la luna in particelle cariche, non erano ancora abbastanza sofisticate per farci capire cosa stava succedendo all'interno di Io", ha detto il coautore dello studio Xianzhe Jia dell'Università del Michigan.

I recenti lavori nel campo della fisica minerale hanno mostrato che un gruppo di rocce dette "ultramafiche" sono in grado di trasportare notevoli quantità di corrente elettrica quando sono allo stato fuso. 

Sulla Terra, le rocce ultramafiche si ritiene che derivino dal mantello. La scoperta ha spinto Khurana e i colleghi a verificare l'ipotesi che la strana traccia radar fosse stata prodotta da uno strato di corrente elettrica che circola in tra il magma fuso o parzialmente fuso di questo tipo di roccia.

I test hanno dimostrato che le firme rilevate da Galileo sono emesse da una pietra come la lherzolite, una roccia ignea ricca di silicati di magnesio e ferro, trovata per esempio, a Spitzbergen, in Norvegia. 
Lo strato di oceano di magma su Io sembra essere più di 30 miglia (50 km) di spessore, vale a dire almeno il 10 per cento del volume dell'intera luna. La temperatura di formazione delle vesciche di magma è probabilmente superiore ai 2.200 gradi Fahrenheit (1.200 gradi Celsius).

Ulteriori co-autori dello studio  sono Christopher T. Russell, professore di geofisica e fisica dello spazio nel Dipartimento UCLA di Scienze della Terra e dello Spazio; Margaret Kivelson, professore emerito di fisica dello spazio nel Dipartimento UCLA di Scienze della Terra e dello Spazio; Gerald Schubert, professore di geofisica e fisica planetaria in UCLA Dipartimento di Scienze della Terra e dello Spazio; e Francis Nimmo, professore associato di Scienze della Terra e planetarie presso la UC di Santa Cruz.

La missione Galileo è stata gestita dal Jet Propulsion Laboratory (JPL), del California Institute of Technology di Pasadena, per la NASA.

Foto di apertura: La foto mostra il campo magnetico emesso dalla struttura interna di Io che distorce quello esterno di Giove, così come rilevato dagli strumenti di Galileo. (Credit: NASA/JPL/University of Michigan/UCLA))

A cura di Jia-Rui Cook

Traduzione a cura di Arthur McPaul

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mercoledì 25 maggio 2011

I Radiotelescopi Riprendono Getti Da Buchi Neri Come Mai In Precedenza



I Radiotelescopi Catturano i getti di un Buco Nero come mai visti in precedenza

Un team internazionale di ricerca finanziato della NASA ha utilizzando i radiotelescopi situati in tutto l'emisfero australe per produrre l'immagine più dettagliata dei getti di particelle eruttare da un buco nero supermassiccio in una galassia vicina.

La nuova immagine mostra una regione estesa circa 4,2 anni luce (meno della distanza tra il nostro Sole e la stella più vicina), che mostra in alta risoluzione i getti galattici da un buco nero come mai visti in precedenza.

"Questi jets sono in caduta nei pressi del buco nero, ma non sappiamo ancora i dettagli su come si formano e si mantengono", ha detto Cornelia Mueller, autore principale dello studio studente di dottorato presso l'Università di Erlangen-Norimberga in Germania.

Mueller e il suo team hanno puntato su Centaurus A (Cen A), una galassia vicina con un buco nero supermassiccio che pesa 55 milioni volte la massa del Sole. Conosciuta anche come NGC 5128, Cen A, si trova a circa 12 milioni di anni luce di distanza nella costellazione del Centauro ed è una delle prime sorgenti radio celesti associate ad una galassia.

Visto nelle onde radio, Cen A è uno degli oggetti più grandi e più brillanti nel cielo, quasi 20 volte la dimensione apparenti di una luna piena. Questo perché la galassia visibile è adagiata tra un paio di lobi giganti radio-emittenti, ciascuno esteso quasi un milione di anni luce.

Questi lobi sono riempiti da materia espulsa dai getti di particelle presenti vicino al buco nero centrale della galassia. Gli astronomi stimano che la materia presente alla base di questi getti sia espulsa verso l'esterno a circa un terzo della velocità della luce.

Il progetto utilizza una matrice intercontinentale di nove radiotelescopi, detta Tanami (Tracking Nuclei Galattici Attivi con Austral Milliarcsecond Interferometry), che sono stati in grado di zoomare nella galassia.
"Le tecniche informatiche avanzate ci permettono di combinare i dati dai telescopi individuali per produrre immagini con la nitidezza di un unico telescopio gigante, grande quasi quanto la Terra stessa", ha detto Roopesh Ojha del NASA Goddard Space Flight Center di Greenbelt, nel Maryland.

La produzione di enorme energia dalle galassie come Cen A, proviene dal gas in uscita da un buco nero che pesa milioni di volte la massa del Sole. Attraverso processi non pienamente compresi, parte di questa materia in caduta viene espulsa per opporsi ai getti ad una frazione sostanziale della velocità della luce. La vista dettagliata della struttura del getto aiuterà gli astronomi a determinare come essa si forma.
I getti interagiscono fortemente con il gas circostante modificando la velocità della formazione stellare all'interno della galassia.
I getti svolgono un ruolo importante ma poco conosciuto nella formazione e nell'evoluzione delle galassie.

Il NASA Fermi Gamma-ray Space Telescope ha rilevato radiazioni molto più elevate di energia dalla regione centrale di CEN A's. "Questa radiazione è miliardi di volte più energetica delle onde radio che si rilevano e da dove sia esattamente origininata resta un mistero", ha detto Matthias Kadler presso l'Università di Wuerzburg, in Germania e un collaboratore di Ojha. 
"Con Tanami, speriamo di sondare la profondità più intima della galassia per scoprirlo".
Ojha è finanziato da una indagine Fermi sugli studi a multifrequenza dei Nuclei Galattici Attivi.

Lo studio apparirà nel numero di giugno di Astronomia e Astrofisica ed è disponibile online.

Il miglioramento della qualità  del Long Baseline Array (LBA) ha contribuito enormemente alla risoluzione del progetto Tanami.
Il progetto integra al LBA anche i telescopi in Sud Africa, Cile e l'Antartide per esplorare i getti galattici più brillanti nel cielo australe.

Il NASA Fermi Gamma-ray Space Telescope è un partner per la ricerca di particelle in astrofisica , sviluppato in collaborazione con il Dipartimento dell'Energia degli Stati Uniti, grazie a importanti contributi di istituzioni accademiche e partner in Francia, Germania, Italia, Giappone, Svezia e Stati Uniti The Long Australia Baseline Array è in parte del Telescope National Facility Australia, che è finanziato dal Commonwealth.

Traduzione a cura di Arthur McPaul

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lunedì 23 maggio 2011

I Pianeti Orfani Potrebbero Essere Più Comuni Delle Stelle


Gli astronomi, di un team finanziato dalla NASA, hanno scoperto una nuova classe di pianeti gioviani vaganti nello spazio, senza essere in orbita attorno a nessuna stella. Il team ritiene che questi mondi solitari siano  stati probabilmente espulsi dai rispettivi sistemi planetari in cui si erano formati.

La scoperta si basa su un sondaggio congiunto tra ricercatori di Giappone e Nuova Zelanda che ha scansionato il centro della Via Lattea nel corso del 2006 e del 2007, rivelando le prove di 10 pianeti fluttuanti all'incirca della massa di Giove. Le sfere isolate, note anche come pianeti orfani, sono difficili da individuare, ed erano fino ad ora inosservati. I pianeti sono situati ad una distanza media che va circa da 10.000 a 20.000 anni luce dalla Terra. "Anche se la loro presenza è già stata teoricamente prevista, finalmente sono stati scoperti fornendo importanti implicazioni per la formazione dei pianeti e modelli evolutivi", ha dichiarato Mario Perez, del programma di ricerca sui pianeti extrasolari della NASA a Washington.


La scoperta indica che ci sono molti altri pianeti fluttuanti della massa di Giove che non possono ancora essere visti. Il team stima che sarebbero all'incirca due volte più numerosi delle stelle o almeno quanto i pianeti che orbitano attorno alle  stelle. Questo implica che esisterebbero centinaia di miliardi di pianeti solitari nella nostra galassia. "La nostra indagine è come un censimento della popolazione," ha detto David Bennett, della NASA e della National Science Foundation, co-autore dello studio presso l'Università di Notre Dame a South Bend, in Indiana: "Abbiamo visionato una porzione della galassia e sulla base di questi dati, siamo in grado di stimare i numeri complessivi".

Lo studio, condotto da Takahiro Sumi da Osaka University in Giappone, appare nel numero del 19 maggio della rivista Nature. L'indagine non è sensibile ai pianeti più piccoli di Giove e Saturno, ma le teorie suggeriscono che pianeti di massa inferiore, come la Terra dovrebbero essere espulsi dalle loro stelle più spesso. Come risultato, si pensa che siano ancora più comuni dei gioviani fluttuanti.

Precedenti osservazioni avevano rilevato qualche pianeta libero all'interno di cluster in cui si formano le stelle, con massa di circa tre volte quella di Giove. Ma gli scienziati sospettano che i corpi gassosi siano ancora più comuni delle le stelle. Questi oggetti particolari, chiamati nane brune, si formano dal collasso di gas e polvere, ma non hanno la massa per bruciare il combustibile nucleare e brillare come le stelle. Si ritiene che le più piccole nane brune abbiano all'incirca le dimensioni dei pianeti di grandi dimensioni.

D'altra parte, è probabile che alcuni pianeti siano stati espulsi nelle prime turbolenti fasi della formazione dei sistemi a causa di incontri gravitazionali con altri pianeti o stelle. Questi pianeti si muovono attraverso la galassia come il nostro Sole e le stelle in orbite stabili attorno al centro della galassia. La scoperta di 10 pianeti gioviani fluttuanti supporta lo scenario dell'espulsione, anche se è possibile che ci siano stati anche altri meccanismi in gioco.

"Se i "free-floating planets" si formarono come le stelle, allora avremmo dovuto vedere solo uno o due di loro nel nostro sondaggio, anziché 10", ha detto Bennett. "I nostri risultati suggeriscono che i sistemi planetari spesso diventano instabili, con pianeti che vengono cacciati fuori dai loro luoghi di nascita".

Dalle osservazioni non si può escludere la possibilità che alcuni di questi pianeti potrebbero avere orbite attorno a stelle molto lontane, ma la ricerca di altri pianeti di massa gioviana in orbite distanti sono rare.

Un telescopio da 5,9 metri (1,8 metri) sul Monte John University Observatory in Nuova Zelanda è usato per controllare regolarmente le stelle al centro della nostra galassia per eventi di microlensing gravitazionale. Questi casi si verificano quando qualcosa, come una stella o un pianeta, passa davanti a un altro, più distanti della stella. La gravità del corpo che transita, deforma la luce facendolo ingrandire e illuminare. I corpi più pesanti di passaggio, come le stelle massicce, si aggiungono alla luce della stella di fondo, in misura maggiore, durando anche diverse settimane. I  corpi più piccoli della dimensione di un pianeta causeranno meno una distorsione, e illumineranno una stella solo per pochi giorni.

Un secondo gruppo di indagine con la microlensing, l'Optical Gravitational Lensing Experiment (OGLE), ha contribuito a questa scoperta con un telescopio da 4,2 metri (1,3 metri) in Cile. Il gruppo OGLE ha anche osservato molti degli stessi eventi e le loro osservazioni indipendentementi hanno confermato l'analisi del gruppo di MOA.

Il NASA's Jet Propulsion Laboratory di Pasadena, in California, gestisce il programma di esplorazione della NASA sui pianeti orfani. Il JPL è una divisione del California Institute of Technology di Pasadena.
Maggiori informazioni su pianeti extrasolari e sui programmi di ricerca sono disponibili al seguente indirizzo: http://planetquest.jpl.nasa.gov

Foto in alto: Rappresentazione artista che illustra un pianeta simile a Giove vagante solitario nel buio dello spazio, fluttuando liberamente, senza una stella madre. Gli astronomi hanno recentemente ottenuto le prove dell'esistenza di 10 pianeti solitari, probabilmente espulsi dai rispettivi sistimi planetari di formazione. (Credit: NASA / JPL)

Il vulcano Grimsvotn si risveglia con una gigantesca eruzione

Immagine che mostra la nube di cenere che si forma nell'atmosfera sopra l'Islanda dopo l'eruzione di ieri. Credit: Jon Gustafsson/Iceland Out


L’Islanda si conferma come una delle regioni più attive dal punto di vista vulcanico. Dopo la spettacolare eruzione del vulcano Eyjafjallajokull, l’isola trema ancora per l’eruzione di un altro vulcano, Grimsvotn, che si conferma subito tra i più potenti degli ultimi decenni, lanciando una gigantesca nube di cenere fino a 20 km nell’atmosfera. Questa nuova eruzione è stata di gran lunga maggiore rispetto a quella dell’anno scorso che ha fermato per 5 giorni i voli in tutta l’Europa. Magnus Tumi Gudmundsson, geologo dell’Università dell’Islanda, ha spiegato che l’eruzione di ieri è stata la più grande eruzione di Grmsvotn negli ultimi 100 anni.

Altra prospettiva dell'eruzione del vulcano Grimsvotn. La nube si è innalzata velocemente sopra le più alte montagne islandesi, diventando la cosa più alta in questo momento sulla faccia del pianeta. Credit: Jon Gustafsson


“C’è una zona molto grande nel sud-est del Islanda dove in questo momento c’è un buio totale e c’è una pesante caduta di cenere” ha spiegato il geologo. “Ma per fortuna la nube non si sta disperdendo come dopo l’eruzione dell’anno scorso, perché ai tempi di Eyjafjallajokull i venti erano molto più intensi.” Inoltre, il geologo ha spiegato che la cenere è più pesante rispetto al materiale rilasciato l’anno scorso, e quindi sta cadendo a terra più rapidamente.
La cenere sta gettando nella più completa oscurità molte città islandesi e la quantità enorme di cenere ha bloccato non solo i voli ma anche molti altri trasporti, rendendo molto difficile anche respirare in queste zone. La protezione civile sta portando maschere a tutte le persone che abbiano qui, spiegandole che devono rimanere chiuse in casa fino a quando non sarà finita.


Una strada vicino ad una piccola città nel sud-est dell'Islanda. Il sole è oscurato totalmente dalla cenere. Credit: Jon Gustafsson


L’aeroporto Keflavik, il più grande del paese ha chiuso ieri alle 4:30 EDT. La nube sta coprendo interamente l’isola. “La buona notizia e che non è diretta verso l’Europa ma i venti stanno portando il grosso della nube sopra la Groenlandia. Il presidente Obama si trovava vicino all’Irlanda, in volo sul Air Force One, domenica durante l’eruzione, ma la rotta non è stata deviata perché le nubi non erano arrivate ancora. Comunque da oggi i voli Trans-Atlantici verranno deviati dalle vicinanze dell’Islanda, anche se non ci sono i problemi causati l’anno scorso dall’eruzione del vulcano Eyjafjallajokull.


Immagine ravvicinata del vulcano Grimsvotn. Credit: Jon Gustafsson


Nell’Aprile 2010 gli ufficiali avevano chiuso tutti i grandi aeroporti europei per 5 giorni per via della coperta di cenere che copriva il vecchio continente. Milioni di viaggiatori sono rimasti bloccati ovunque.

La nube oscura di cenere si sta muovendo sopra l'Islanda. Credit: Jon Gustafsson


Altra immagine dello spostamento del fronte di cenere nell'atmosfera dell'Islanda. Credit: McFrikki

Il vulcano Grimsvotn, che si trova sotto il ghiacciaio non abitato, chiamato Vatnajokull, a circa 200 km dalla capitale, Reykjavik, ha cominciato nuovamente la sua attività ieri mattina, dopo che era rimasto silenzioso dal 2004. Gudmundsson ha spiegato che la nuova eruzione è almeno 10 volte più potente rispetto a quella del 2004, che è durata diversi giorni, interrompendo anche alcuni tratti aerei internazionali. Il vulcano Grimsvotn è eruttato anche nel 1993 nel 1996 a nel 1998. Le eruzioni sono durate, in alcuni casi, anche più di qualche settimana.


L'eruzione del vulcano Grimsvotn vista all'orizzonte durante il tramonto. Credit: Jon Gustafsson

Eruzione del Vulcano Grimsvotn. Credit: Jon Gustafsson

La ragione per cui l’Islanda è una regione vulcanica cosi attiva è perché l’isola stessa è nata da vulcani, e si trova proprio sopra l’Atlantic Rift, dove si trovano le placche continentali dell’Europa e dell’America. I vulcani islandesi eruttano molto spesso ed è una delle superfici più giovani dell’Europa.


Immagine satellitare dell'eruzione in Islanda. Credit: NASA

Gudmundsson ha spiegato che è difficile prevedere quanto durerà l’eruzione, ma potrebbe iniziare presto a rallentare il flusso di cenere. “Ci sono alcun segni che l’eruzione si sta attenuando adesso” ha spiegato il gelogo. “Potrebbero vedere il primo segno del declino già da ora e in due o tre giorni potrebbe essere finita”.

Gigantesca colona di cenere che si innalza verso la stratosfera. Credit: Jon Gustaffson

Scariche di elettricità statica all'interno dei pennacchi formati dalla nube di cenere. Credit: Jon Gustafsson

La cenere copre di oscurità le città. L'immagine è stata scattata vicino al vulcano poco prima di sera. Credit: Jon Gustafsson


L'eruzione del Vulcano Grimsvotn è la cosa più visibile all'orizzonte nel sud-est Islandese. Credit: Jon Gustafsson

Fonte: http://www.centroufologicoionico.com/articoli/scienza-tecnologia/645-il-vulcano-grimsvotn-si-risveglia-con-una-gigantesca-eruzione

domenica 22 maggio 2011

L'Energia Oscura si Chiama Lambda


Aveva ragione anche quando pensava di avere torto, il buon Albert Einstein. L’idea della “costante cosmologica” era infatti stato lui il primo a proporla, introducendola sotto forma di lambda nelle sue equazioni di campo della relatività generale. Salvo poi rimangiarsi l’intuizione, a seguito della scoperte di Hubble sull’espansione dell’universo, definendo quel termine lambda «la più grande cantonata della mia vita».

Negli ultimi 15 anni, però, la costante cosmologica ha vissuto un vero e proprio revival, in quanto possibile candidata per dare un nome e un volto all’ineffabile energia oscura, la forza respingente che costituisce il 74 percento dell’universo. Ebbene, gli esiti di una survey di cinque anni su 200mila galassie – la WiggleZ Dark Energy Survey, illustrati in due paper in corso di pubblicazione su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society – sembrano confermare l’intuizione iniziale del grande fisico. «I risultati ci dicono che l’energia oscura è una costante cosmologica, proprio come proponeva Einstein», dichiara infatti Chris Blake, della Swinburne University of Technology (Melbourne, Australia), primo autore dei due articoli.

Ora, che l’universo si stesse espandendo sempre più in fretta lo si sapeva da tempo, grazie soprattutto alle osservazioni di una particolare classe di supernovae, quelle di tipo Ia, le cosiddette “candele standard”, per le quali il calcolo della distanza è relativamente semplice e affidabile. Ma il modo in cui ciò avviene è tutt’altro che chiaro, anzi: è così oscuro che la forza alla base del fenomeno prende, appunto, il nome di “energia oscura”. Una forza che definire controintuitiva è poco: «L’effetto dell’energia oscura», spiega infatti Blake, «è quello che osserveremmo se, avendo lanciato in alto una palla, questa continuasse a salire, ad allontanarsi. Su, verso il cielo, sempre più veloce». E quella della costante cosmologica non è l’unica ipotesi per tentare di spiegare il bizzarro effetto. Esistono teorie alternative. Fra queste, in particolare, ce n’è una che attribuisce l’espansione accelerata dell’universo non alla costante cosmologica bensì alla forza di gravità, che a grandi distanze finirebbe col funzionare al contrario: invece di attirare, respingerebbe. Ebbene, stando ai risultati della nuova survey, quest’ultima ipotesi non tiene. «Se il colpevole fosse la gravità», dice Blake, «gli effetti dell’energia oscura non sarebbero, nel corso del tempo, così costanti come quelli da noi osservati».

Gli effetti ai quali si riferisce Blake sono il pattern di distribuzione delle galassie nello spazio e il tempo impiegato dagli ammassi di galassie per formarsi. Effetti valutati misurando velocità e distanze sulla più grande mappa di galassie in 3D disponibile, quella ottenuta grazie al Galaxy Evolution Explorer della NASA e al telescopio anglo-australiano di Siding Spring Mountain, in Australia. Dunque, un metodo indipendente rispetto alle osservazioni di supernovae Ia. Il calcolo della distanza e della distribuzione delle galassie, nella survey di Blake e colleghi, è stato fatto considerandole due a due. Le coppie di galassie, infatti, stando alle osservazioni e ai modelli cosmologici, sono lontane fra loro, in media, circa 500 milioni di anni luce, per effetto delle “onde sonore” (baryon acoustic oscillations) presenti nell’universo primordiale. Partendo da quest’assunto (battezzato dal team “righello standard”), e misurando la velocità alla quale le coppie di galassie si allontanano dalla Terra, i ricercatori hanno avuto la conferma che lo spazio si sta “stirando” sempre più rapidamente. 

A cura di Marco Malaspina

Foto in alto: Due metodi a confronto per misurare la velocità di espansione dell'universo. A sinistra, quello basato sulle supernovae Ia, le "candele standard". A destra, con le coppie di galassie, il "righello standard" utilizzato nella WiggleZ survey (crediti: NASA/JPL-Caltech) 

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SETI sta cercando civiltà extraterrestri dai dati del telescopio Keplero


Ora che il telescopio spaziale della NASA Keplero ha individuato 1.235 possibili pianeti intorno a stelle nella nostra galassia, gli astronomi della University of California a Berkeley, punteranno i radiotelescopi per rilevare i segnali di una civiltà avanzata.

La ricerca è incominciata l'8 maggio, quando il Robert C. Byrd Green Bank Telescope, il più grande radiotelescopio orientabile al mondo, è stato puntato per un'ora verso otto stelle con possibili pianeti. Una volta che gli astronomi della UC Berkeley acquisiranno 24 ore di dati su un totale di 86 pianeti simili alla Terra, daranno inizio ad un'analisi grossolana e poi per circa due mesi, chiederanno a circa 1 milione di utenti online del SETI @ home per condurre un'analisi dettagliata dai loro home pc.

"Non è assolutamente certo che tutte queste stelle abbiano sistemi planetari abitabili, ma sono luoghi molto buoni per cercare ET", ha detto lo studente laureato Andrew Siemion.
Il telescopio di Green Bank è stato utilizzato per circa cinque minuti nel sondaggio.
"Abbiamo scelto i pianeti con temperature miti tra zero e 100 gradi Celsius, perché vi sono molte più probabilità di ospitare la vita", ha detto Dan Werthimer fisico, scienziato capo del SETI @ home e ricercatore veterano del SETI.
Werthimer conduce un progetto SETI vecchio di 30 anni basato sul radiotelescopio più grande del mondo, il ricevitore di Arecibo a Puerto Rico, che alimenta i dati di SETI @ home per una dettagliata analisi che poteva essere svolta solo dai più grandi computer distribuiti nel mondo.

È stato coinvolto in un precedente  progetto SETI con il telescopio di Green Bank, crollato nel 1988, così come con il Allen Telescope Array (ATA), che ha anche condotto una più ampia ricerca di segnali intelligenti provenienti dallo spazio gestito dal SETI Institute di Mountain View, California.
L'ATA è andato in modalità di ibernazione il mese scorso dopo che il SETI Institute e dell'Università di Berkeley hanno terminato i fondi per il suo funzionamento.

"Con Arecibo, ci concentreremo su stelle come il nostro Sole, sperando che ospitino pianeti attorno che emettono segnali intelligenti", ha detto Werthimer. "Non abbiamo mai avuto una lista di pianeti in precedenza cui indagare".

Il piatto radio nelle zone rurali del West Virginia è stato necessario per la nuova ricerca, perché la parabola di Arecibo non può visualizzare l'area del cielo settentrionale su cui si concentra la ricerca di Keplero.

Ma il telescopio di Green Bank offre anche altri vantaggi rispetto ad Arecibo. La UC Berkeley con il SETI ha sulle spalle altre osservazioni astronomiche condotte ad Arecibo, ed è limitata nella gamma di lunghezze d'onda che si possono osservare, sui 21 cm (1420 MHz), linea in cui l'idrogeno emette luce.

Queste lunghezze d'onda possono facilmente passare attraverso le nuvole di polvere che oscurano la galassia.
"Alla ricerca di ET intorno alla linea di 21 centimetri le civiltà aliene potrebbero emettere trasmissioni intenzionalmente, ma potrebbero esserci anche interferenze o perdite di segnale,   come nel caso del segnale 'I Love Lucy ", ha detto Werthimer.

"Con il registratore dati del telescopio di Green Bank, siamo in grado di eseguire la scansione a 800 megahertz di frequenze simultaneamente, che è 300 volte il limite che possiamo ottenere ad Arecibo".

Così, un giorno di osservazione con il telescopio di Green Bank mette a disposizione più dati di un anno di osservazioni ad Arecibo: circa 60 terabyte (60.000 gigabyte) in totale, ha detto Siemion. Se avessimo registrato un pezzo simile dello spettro radio da Arecibo, il progetto SETI @ home sarebbe sopraffatto dai dati, dal momento che l'indagine del cielo di Arecibo osserva quasi a tempo pieno per anni e anni.

"Cercheremo anche i segnali intenzionali da civiltà intelligenti nella cosiddetta "Pozza d'Acqua", una regione relativamente tranquilla dello spettro radio dell'Universo che va dai 21 cm di emissioni dell'idrogeno neutro ai 18 cm degli ioni di ossidrile (OH). Perché la vita richiede presumibilmente l'esistenza di acqua allo stato liquido, ed essendo l'acqua composta da idrogeno e idrossile, tale gamma è stata soprannominata "pozza d'acqua" ed è vista come una finestra naturale in cui le forme di vita potrebbero facilmente segnalare la loro esistenza.
La ricerca della pozza d'acqua è uno dei progetti preferiti dal SETI.

"Questo è un posto interessante, forse un faro per la ricerca di segnali provenienti da civiltà extraterrestri," ha detto Siemion.

Le 86 stelle sono state scelte tra i 1.235 sistemi planetari segnalati dal telescopio Keplero della NASA. Gli obiettivi della UC Berkeley includono i 54 Kois individuati dal team di Keplero nel range di temperatura abitabile e con dimensioni che vanno dalla Terra a pianeti più grandi di Giove, 10 Kois non sono sulla lista abitabile della squadra di Keplero, ma da orbite meno di tre volte della Terra a orbite e periodi orbitali superiori a 50 giorni, tutti i sistemi hanno quattro o più pianeti.

Dopo che il telescopio di Green Bank ha osservato ogni stella, la ricerca viene eseguita per l'intero campo di Keplero per i segnali provenienti da altri pianeti per oltre 86 obiettivi.

Dopo un'analisi grossolana dei dati da parte Werthimer e della sua squadra, un'analisi più approfondita sarà eseguita da parte degli utenti SETI @ home, che sarà in grado di vedere se ci sono differenze tra i dati di Green Bank rispetto aquelli di Arecibo.

L'analisi completa dei segnali "intelligenti" potrebbe durare un anno, ha dichiarato Werthimer.
"Se si estrapolassero tutti dai dati di Keplero, ci potrebbero essere di 50 miliardi di pianeti nella galassia," ha detto. "E davvero eccitante essere in grado di guardare a questo primo gruppo di pianeti simili alla Terra".

Il telescopio di Green Bank è gestito dal National Radio Astronomy Observatory, con fondi forniti dalla National Science Foundation (NSF). SETI @ home è supportato da NSF, NASA e donazioni private. 

Traduzione a cura di Arthur McPaul

Fonte:  http://www.sciencedaily.com/releases/2011/05/110516102333.html

mercoledì 18 maggio 2011

Gliese 581d è abitabile


 
Il sistema planetario attorno alla nana rossa Gliese 581, una delle stelle più vicine al Sole, è stato oggetto di numerosi studi volti a rilevare l'abitabilità dei suoi pianeti. 
Gliese 581d, può essere considerato il primo pianeta extrasolare cui è stata confermata la possibilità che potrebbe sostenere la vita come sulla Terra. 

Questa è la conclusione di un team di scienziati dell'Institut Pierre Simon Laplace (CNRS, UPMC, ENS di Parigi, Ecole Polytechnique) a Parigi, in Francia, in uno studio pubblicato su The Astrophysical Journal Letters.
Esistono altri pianeti abitati come la Terra, o almeno abitabili? Molti scienziati si sono impegnati per scoprire il primo pianeta nella "zona abitabile", intorno ad una stella, dove non è né troppo freddo né troppo caldo per l'esistenza della vita.
In questa ricerca, la stella nana rossa Gliese 581 ha già ricevuto grande attenzione.

Nel 2007, gli scienziati hanno segnalato la presenza di due pianeti non lontano dal bordo interno ed esterno della zona sua  abitabile.
Mentre il pianeta più lontano, Gliese 581d, è stato inizialmente giudicato troppo freddo per la vita, il più vicino pianeta poteva potenzialmente essere abitabile.
Tuttavia, dopo l'esame degli esperti, è stato dimostrato che, se avesse avuto oceani liquidi come la Terra, sarebbero rapidamente evaporati con l'effetto serra simile a quello che ha dato a Venere il clima caldo e inospitale che conosciamo.

Una nuova possibilità è emersa nel tardo 2010, quando un gruppo di osservatori guidati da Steven Vogt presso la University of California, Santa Cruz, ha annunciato di aver scoperto un nuovo pianeta, chiamato Gliese 581g, o 'Zarmina's World'.
Questo pianeta, avrebbe una massa simile a quella della Terra e sarebbe posto al centro della zona abitabile. Per diversi mesi, la scoperta del primo gemello della Terra oltre il Sistema Solare sembrava essere ceetezza. Purtroppo, dopo l'analisi da parte di un team indipendente di scienziati svizzeri, sono stati sollevati seri dubbi.
Molti ritengono che 581g Gliese non può esistere affatto e può semplicemente essere un risultato di rumore nelle misurazioni dell'oscillazioni stellari necessarie per individuare pianeti extrasolari in questo sistema.

Il fratello più grande di Gliese 581g chiamato 581d ha ricevuto la conferma della sua possibile abitabilità da Robin Wordsworth, François Forget e i collaboratori del Laboratoire de Dynamique Météorologie (CNRS, UPMC , Paris ENS, Ecole Polytechnique) presso la Simon Laplace Pierre Institute di Parigi.
Anche se è probabile che abbia una massa di almeno sette volte quella della Terra, il suo diametro è circa due volte quelle terresrri.
A prima vista, Gliese 581d è un candidato piuttosto povero per la caccia alla vita aliena: riceve meno di un terzo della Terra di energia stellare e possiede una rotazione sincrona, con un lato sempre diurno e un lato notturno. Dopo la scoperta, si è ipotizzato che la sua atmosfera potesse essere abbastanza spessa per tenere caldo il pianeta.
Per verificare se questa intuizione era corretta, Wordsworth e colleghi hanno sviluppato un nuovo tipo di modello al computer in grado di simulare con precisione i climi possibili sui pianeti extrasolari. Il modello simula l'atmosfera di un pianeta e la superficie in tre dimensioni, un pó come quelli usati per studiare i cambiamenti climatici sulla Terra.
Tuttavia, è basato su principi fisici fondamentali che permetteno la simulazione di una gamma molto più ampia di condizioni di quanto sarebbero altrimenti possibili includendo eventuali cocktail atmosferici di gas, nubi e aerosol.

A sorpresa, hanno scoperto che grazie alla presenza di densa atmosfera di anidride carbonica, uno scenario probabile su un pianeta di grandi dimensioni, il clima di Gliese 581d non solo è stabile contro il crollo della temperatura, ma sarebbe anche abbastanza caldo per avere oceani, nuvole e pioggia.
Uno dei fattori chiave nei loro risultati è stato il Rayleigh scattering, quel fenomeno che rende il cielo azzurro sulla Terra. Nel Sistema Solare, i limiti di Rayleigh scattering permettono una quantità di luce solare ad una spessa atmosfera può assorbire, perché una gran parte della luce dispersa dal blu è immediatamente riflessa verso lo spazio. Tuttavia, la luce delle stelle di Gliese 581 è di colore rosso, è questo significa che può penetrare molto più in profondità nell'atmosfera, riscaldando il pianeta in modo efficace a causa dell'effetto serra dell'atmosfera di CO2, combinata con quella delle nuvole di ghiaccio di anidride carbonica previste che si  formano ad altitudini elevate.

Inoltre, le simulazioni in 3D della circolazione hanno dimostrato che il riscaldamento dall'illuminazione del giorno è stato ridistribuito in modo efficiente in tutto il pianeta dal clima, impedendo il collasso atmosferico sul lato notturno o ai poli.
Gli scienziati sono particolarmente eccitati dal fatto che questo pianeta è a soli 20 anni luce dalla Terra, ed è uno dei nostri vicini più prossimi.

Per ora, questo fattore è comunque di limitata utilità. il veicolo spaziale giunto nello spazio più lontano dalla Terra è la sonda Voyager 1 che impiegherà ancora più di 300.000 anni per arrivare fin lì.
Tuttavia, in futuro i telescopi saranno in grado di rilevare direttamente l'atmosfera del pianeta e sarà possibile confermare o smentire la sua abitabilità, e capire se ci sono altre possibilità, come l'essere più simile a Urano e Nettuno, o essere del tutto privo di atmosfera.

Per distinguere tra questi diversi scenari, Wordsworth e i suoi collaboratori hanno realizzato alcuni semplici test che gli osservatori saranno in grado di eseguire in futuro con un telescopio abbastanza potente.
Se Gliese 581d non risultasse abitabile, sarebbe comunque un posto piuttosto strano da visitare, con l'aria densa e le dense nubi che manterrebbero la superficie in un perpetuo crepuscolo rosso scuro rosso, e grazie alla sua grande massa, la gravità di superficie sarebbe pari a circa doppio che sulla Terra.

Ma la diversità di climi planetari nella galassia probabilmente sarà molto più ampia dei pochi esempi a cui siamo abituati dal Sistema Solare.
Nel lungo periodo, l'implicazione più importante di questi risultati potrebbe essere che i pianeti di supporto alla vita in realtà non devono necessario essere particolarmente simili alla Terra.

Foto un alto: Schematizzazione del modello climatico globale utilizzato per studiare Gliese 581d. Le ombreggiature in rosso e blu e indicano un clima caldo e una  superficie fredda, mentre le frecce indicano la velocità del vento a 2 km di altezza nell'atmosfera. (Credit: © LMD / CNRS)

Traduzione a cura di Arthur McPaul

Fonte:  
 


giovedì 12 maggio 2011

Solchi e metano su Marte di probabile natura biologica


Solchi profondi anche 500 metri graffiano la superficie di Marte in una delle aree di maggiore interesse scientifico per la presenza di metano: è la Fossa del Nilo visibile molto chiaramente in alcune foto scattate dalla sonda Mars Express dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa). La Fossa del Nilo è situata vicino al gigantesco bacino di Iside, nella zona nordorientale del pianeta, nella provincia vulcanica Syrtis Major, ed è caratterizzata da profonde depressioni che, secondo gli esperti, hanno origini geologiche.
Questa formazione geologica è di grande interesse per gli scienziati perché le osservazioni da Terra mostrano un arricchimento di metano nell’atmosfera di Marte in corrispondenza di questa area.

In questa zona la superficie di Marte è anche più calda e l’atmosfera leggermente più densa, spiega Enrico Flamini, Coordinatore Scientifico dell’Agenzia Spaziale Italiana (ASI). “Il fatto che vi sia metano in una zona a bassa elevazione di Marte è estremamente interessante. Questo gas – ha aggiunto – potrebbe essere originato dall’attività vulcanica o potrebbe essere rilasciato in seguito all’alterazione geologica delle rocce o potrebbe avere origini biologiche”.

Per scoprire anche le origini del metano che si osserva su Marte, Nasa ed Esa hanno in programma una nuova missione destinata al pianeta rosso, nell’ambito del programma ExoMars, un orbiter il cui lancio è previsto nel 2016, che entrerà nell’orbita del pianeta e studierà i gas presenti (Exo Mars Trace Gas Orbiter). Nel 2018 una seconda missione poterà un Rover sulla superficie di  Marte, per gli studi geologici del pianeta. “Studiare meglio questa zona è di grande interesse – ha aggiunto Flamini – e ci si aspetta molto dalla nuova missione”.

L’Italia guiderà la realizzazione del rover: “La Fossa del Nilo (Nili Fossae) è uno dei più quotati candidati come sito di atterraggio del rover 2018 – dice Gian Gabriele Ori, dell’IRSPS/Università d’Annunzio e associato INAFe ci si può aspettare un serie di osservazione che forniranno soluzioni alle svariate ipotesi sulla natura del metano e sul ciclo degli elementi, se non anche delle indicazioni sulla possibile presenza di vita”.

Fonte:  

L'atmosfera di Titano è stata creata da impatti cometari?


Titano è uno dei mondi più affascinanti per gli scienziati planetari. Pur essendo una luna di Saturno vanta una spessa atmosfera dieci volte quella terrestre e un ciclo idrologico simile al nostro, se non fosse che al posto dell'acqua, su Titano piove il freddissimo Metano liquido. Questa affascinante luna è stata addirittura presa a modello come la Terra ai primordi della sua evoluzione, anche perchè è l'unico corpo del sistema solare conosciuto, Terra a parte, che ha un'atmosfera ricchissima di Azoto.

Gli scienziati si sono chiesti quale sia la ricca fonte di Azoto presente nell'atmosfera di Titano, ed ora un team dell'Università di Tokyo ha avanzato un'interessante, nonchè intrigante risposta: potrebbe provenire dalle comete. I modelli tradizionali hanno ipotizzato che l'atmosfera di Titano fosse stata creata dall' attività vulcanica o grazie all'effetto della radiazione Ultravioletta del Sole. Ma questi modelli dell'atmosfera di Titano si basano sull'idea che quest'ultimo in passato fosse più caldo rispetto a ora....uno scenario da rivedere secondo gli scienziati della missione Cassini.

La nuova ricerca infatti suggerisce che gli impatti delle comete durante il periodo chiamato "Late Heavy Bombardment" (Intenso Bombardamento Tardivo) avvenuto circa 4 miliardi di anni fa, (quando le collisioni di grandi comete e asteroidi impattavano su tutti i corpi del sistema solare) potrebbero appunto aver formato l'atmosfera di Azoto su Titano.
Colpendo con dei laser dei composti con ammoniaca e ghiaccio d'acqua, materiale simile a quello presente su Titano ai primordi, gli scienziati hanno visto che l'azoto era un risultato tipico da ottenere. Nel corso dei millenni tali impatti avrebbero potuto creare l'azoto sufficiente a coprire la luna in una fitta "nebbia" di gas, formando l'atmosfera spessa che vediamo oggi.


"Proponiamo che l'azoto presente nell'atmosfera di Titano si è formato dopo l'accrescimento per la trasformazione dell'ammoniaca già presente sulla luna durante il periodo "Late Heavy Bombardment" avvenuto circa 4 miliardi di anni fa", ha spiegato Yasuhito Sekine, dell’Università di Tokyo in Giappone. Se questo modello venisse confermato, significherebbe che l'origine dell'azoto presente su Titano è differente rispetto agli altri pianeti esterni come Plutone, o quelli interni come la nostra Terra.

I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Nature, approfondimenti su NewScientist.com.
Nota a margine: L'immagine di aperura è un composizione tratta da un'immagine grezza e in falsi colori della sonda Cassini ripresa il 12 Ottobre 2010 ed un'immagine ad infrarossi della cometa Siding Spring ripresa il 10 Gennaio 201o dal telescopio Wise della Nasa