giovedì 27 giugno 2013

Scoperti tre pianeti nella zona abitabile di una stella





Un team di astronomi ha combinato nuove osservazioni di Gliese 667C con i dati HARPS e col telescopio di 3,6 metri dell'ESO in Cile, per rivelare un sistema con almeno sei pianeti.
Ben tre di questi sono super-Terre che si trovano nella zona intorno alla stella, dove potrebbe esistere acqua allo stato liquido, rendendoli possibili candidati per la presenza della vita. Questo è il primo sistema scoperto con una zona abitabile completamente occupata.


Gliese 667C è una stella molto studiata. Poco più di un terzo della massa del Sole, è parte di un sistema stellare triplo noto come Gliese 667 (indicato anche come GJ 667), a 22 anni luce di distanza nella costellazione dello Scorpione (The Scorpion). Questo sistema è abbastanza vicino a noi, ovvero all'interno quartiere stellare del Sole.

Precedenti studi su Gliese 667C avevano scoperto che ospitava dei pianeti. Ora, un team di astronomi guidato da Guillem Anglada-Escudé dell'Università di Göttingen, Germania e Mikko Tuomi dell'Università di Hertfordshire, Regno Unito, hanno riesaminato il sistema aggiungendo nuove osservazioni con HARPS, insieme ai dati del Very Large Telescope dell'ESO, il WM Keck Observatory e il telescopio Magellan, al quadro già esistente. Il team ha rilevato la presenza per un massimo di sette pianeti attorno alla stella.

Questi pianeti orbitano attorno alla terza stella più debole di un sistema a tre stelle.
Visto da uno di questi nuovi pianeti scoperti, i soli apparirebbero come una coppia di stelle molto luminose visibili di giorno e di notte e illuminerebbero come la Luna piena.
I nuovi pianeti riempiono completamente la zona abitabile di Gliese 667C, in quanto non ci sono orbite più stabili per la presenza di altri corpi

"Sapevamo che la stella avesse tre pianeti grazie a studi precedenti, così abbiamo voluto vedere se ce ne fossero altri", ha detto Tuomi. "Con l'aggiunta di nuove osservazioni e rivisitando i dati siamo stati in grado di confermarli. Tre pianeti di piccola massa nella zona abitabile della stella è molto eccitante!".

Tre di questi pianeti sono di sicuro delle super-Terre (pianeti più massicci della Terra, ma meno massicci di pianeti come Urano o Nettuno) all'interno della zona abitabile della loro stella in l'acqua puó essere presente in forma liquida se le condizioni sono giuste. Questa è la prima volta vengono scoperti tre pianeti in orbita intorno a questa zona nello stesso sistema.
"Il numero di pianeti potenzialmente abitabili nella nostra galassia è molto maggiore se ci si può aspettare di trovarne così tanti attorno a ciascuna stella, come in questo caso", ha aggiunto il co-autore Rory Barnes (University of Washington, USA).

I sistemi compatti intorno a stelle simili al Sole sono abbondanti nella Via Lattea. Intorno a queste stelle, i pianeti orbitanti vicino alla stella madre sono molto caldi ed è improbabile che sia abitabili. Ma per Gliese 667C la zona abitabile si trova interamente entro l'anno delle dimensioni dell'orbita di Mercurio, se paragonato al nostro Sistema Solare. Il sistema di Gliese 667C è il primo esempio di un sistema in cui una simile stella di piccola massa ospita diversi pianeti potenzialmente rocciosi nella zona abitabile.

Il responsabile scientifico dell'ESO HARPS, Gaspare Lo Curto, ha fatto le seguenti osservazioni:. "Questo risultato entusiasmante è stato in gran parte reso possibile dalla potenza di HARPS e dal relativo software che sottolinea il valore dell'archivio ESO.
È molto bello vedere che diversi gruppi indipendenti di ricerca sfruttano questo strumento di grande precisione".
Anglada-Escudé conclude: "Questi nuovi risultati evidenziano quanto sia importante ri-analizzare i dati e combinare i risultati provenienti da differenti team su diversi telescopi."

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2013/06/130625073544.htm

Foto:
(Credit: ESO / M. Kornmesser)

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domenica 23 giugno 2013

Pitture Rupestri Svelano la Cosmologia Primitiva





Alcune rappresentazioni d'arte rupestre, potrebbero rivelare la soluzione di un antico mistero cosmologico.
Sono state ritrovate sui Monti Appalachi e studiati dal prof. Jan Simek della University of Tennessee, Knoxville.


Recentemente, le scoperte di arte rupestre preistorica sono diventate più comuni mostrando la visione cosmologica dei popoli preistorici.
La ricerca condotta da Simek, presidente emerito del sistema di UT e un insigne professore di scienze, è stata pubblicata su Antiquity di giugno 2013, assieme al co-autore Nick Herrmann della Mississippi State University, Alan Cressler del US Geological Survey e Sarah Sherwood della The University of the South.

I ricercatori hanno proposto che l'arte rupestre avesse cambiato il paesaggio naturale per riflettere un Universo tridimensionale centrale per la religione del periodo preistorico del Mississippi.

"I nostri risultati forniscono una finestra sulla visione della società nativa americana di oltre 6000 anni fa", ha detto Simek. "Ci dicono che i popoli preistorici nel Cumberland Plateau, una parte dei monti Appalachi, utilizzavano l'ambiente di montagna piuttosto distintivo per mappare il loro universo concettuale sul mondo naturale in cui vivevano".

Simek e il suo team hanno analizzato 44 siti d'arte a cielo aperto ed esposti alla luce e 50 luoghi d'arte rupestri nel Plateau Cumberland utilizzando strumenti di alta tecnologia non invasivi, come ad esempio uno scanner laser ad alta risoluzione.
Attraverso l'analisi delle raffigurazioni, i colori e l'organizzazione spaziale, hanno trovato che i siti imitano principi cosmologici che avevano i nativi.
"Le divisioni cosmologiche dell'Universo sono state mappate sul paesaggio fisico utilizzando il sollievo del Plateau Cumberland come una tela topografica", ha detto Simek.

Il "mondo superiore", incluso corpi celesti e le forze atmosferiche personificate in personaggi mitici hanno esercitato influenze sulla situazione umana. Per lo più i siti d'arte a cielo aperto situati in alta quota toccati dal Sole e dalle stelle sono dotati di queste immagini. Molte delle immagini sono disegnate con il colore rosso, che è stato associato con la vita.
Il "mondo di mezzo" ha rappresentato il mondo naturale.

Una miscela d'arte rupestre che abbraccia caratteristiche di persone, piante e animali di carattere prevalentemente laico.
Il "mondo inferiore" è stato caratterizzato dall'oscurità e dal pericolo, ed è stato associato alla morte, alla trasformazione e al rinnovamento. I luoghi d'arte, prevalentemente trovati nelle grotte, caratterizzano personaggi ultraterreni, serpenti soprannaturali e cani che hanno accompagnato l'uomo morto sul sentiero delle anime.

L'inclusione di creature come gli uccelli e pesci che possono attraversare i tre strati, rappresenta la convinzione che i confini erano permeabili. Molte di queste immagini sono state raffigurate col colore nero, che è stato associato alla morte.
"Questo universo stratificato è stato un palcoscenico per una serie di attori che comprendeva eroi, mostri e creature che attraversavano i vari livelli", ha detto Simek.
È interessante notare che le armi sono raramente presenti nei siti di arte.
Simek ha detto che la scala della rappresentazione più impressionante al Cumberland Plateau era un ambiente sacro, che copriva centinaia di chilometri, in cui i singoli siti erano solo parti di un concetto più grande.

Traduzione a cura di Arthur McPaul

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2013/06/130619122129.htm

Foto:
(Credit: Jan Simek, Alan Cressler, Nicola Herrmann e Sarah Sherwood / Antichità Publications Ltd.)

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Due Galassie nel Caos





Il telescopio spaziale Hubble della NASA / ESA, ha prodotto questa vivida immagine di una coppia di galassie interagenti note come Arp 142.

Quando due galassie si avvicinano l'uno all'altra, cominciano ad interagire, causando cambiamenti spettacolari in entrambi gli oggetti. In alcuni casi possano scontrarsi fino a fondersi.

Proprio sotto il centro di questa immagine in blu, c'è la forma contorta della galassia NGC 2936, una delle due galassie interagenti, che formano Arp 142 nella costellazione di Hydra. Soprannominato "il pinguino" o "la focena" dagli astronomi dilettanti, NGC 2936 era una galassia a spirale standard prima di essere lacerata dalla gravità della sua compagna cosmica.
I resti della sua struttura a spirale si possono ancora vedere, l'ex agglomerato galattico, l'occhio del pinguino, attorno al quale è ancora possibile scorgere i resti delle braccia della galassia.

Queste braccia perturbate, ora formano un "corpo" di uccello cosmico con strisce luminose blu e rosse su tutta l'immagine. Queste striature ad arco in basso verso la vicina compagna di NGC 2936, la galassia ellittica NGC 2937, sono visibili qui come un brillante ovale bianco.

La coppia mostra una somiglianza con un pinguino che protegge il suo uovo.
Gli effetti di interazione gravitazionale tra le galassie possono essere devastanti.
La coppia in Arp 142 sono abbastanza vicine tra loro per interagire con violenza, scambiandosi materia e provocando il caos.

Nella parte superiore dell'immagine vi sono due stelle luminose, entrambe le quali si trovano in primo piano rispetto ad Arp 142. Uno di questi è circondato da una scia di materiale blu scintillante, che è in realtà un'altra galassia.
Questa galassia è ritenuta essere troppo lontana per avere un ruolo nell'interazione, lo stesso vale per le galassie intorno al corpo di NGC 2936. Sullo sfondo ci sono in blu e rosso, le forme allungate di molte altre galassie, che si trovano a grande distanza da noi, ma che possono essere viste dall'occhio acuto di Hubble.

Questa coppia di galassie è stata chiamata così dall'astronomo americano Halton Arp, il creatore dell'Atlante delle Galassie Peculiari, un catalogo di galassie originariamente pubblicato nel 1966.
Scelse i suoi obiettivi in ​​base alle loro strane apparizioni, ma gli astronomi più tardi si resero conto che molti degli oggetti nel catalogo di Arp erano infatti galassie che interagivano e si fondevano.

A cura di Arthur McPaul

Foto
(Credit: NASA, ESA, e Hubble (STScI / AURA))

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2013/06/130620132225.htm

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sabato 22 giugno 2013

Perché era apparsa una terza fascia nell'atmosfera terrestre?





Dal momento che vennero scoperte le fasce di Van Allen nell'atmosfera superiore della Terra nel 1958, gli scienziati ritenevano che consistevano di due anelli a forma di ciambella di particelle altamente cariche (un anello interno di elettroni ad alta energia e ioni positivi energici, e un anello esterno di elettroni ad alta energia).

Tuttavia, nel febbraio di quest'anno, un team di scienziati ha pubblicato sulla rivista Science la scoperta sorprendente di un terzo anello di radiazione prima sconosciuto. Questo stretto anello è stato avvistato tra l'anello interno e quello esterno, nel settembre 2012, per poi quasi del tutto scomparire.

Nella nuova ricerca, il team ha spiegato che lo sviluppo di questa terza fascia e la sua repentinea decadenza nel corso di un periodo di poco più di quattro settimane. La ricerca è disponibile nella edizione online del Geophysical Research Letters e sarà pubblicato in una prossima edizione stampa.

Eseguendo un "trattamento quantitativo della diffusione di elettroni relativistici di onde elettromagnetiche whistler-mode all'interno del plasmasfera denso", i ricercatori sono stati in grado di spiegare il "tipicamente lento decadimento del flusso di elettroni relativistico iniettato" e hanno dimostrato perché questa terza insolita cintura di radiazione si osserva solo ad energie sopra i 2 mega-elettron-volt.

Comprendere i processi che controllano la formazione e la perdita definitiva di tali elettroni relativistici è un obiettivo scientifico primario della missione della sonda Van Allen della NASA e ha importanti applicazioni pratiche, perché le enormi quantità di radiazioni delle fasce di Van Allen possono rappresentare un rischio significativo per i satelliti e di veicoli spaziali, come pure per gli astronauti che svolgono attività al di fuori di un veicolo spaziale.

L'attuale ricerca è stata finanziata dalla NASA, che ha lanciato le sonde gemelle di Van Allen, nell'estate del 2012.
L'autore principale della ricerca è Richard Thorne, un professore della UCLA di scienze atmosferiche e oceaniche, che era un co-autore del documento di ricerca del 28 Febbraio apparso su Science.

Della nuova ricerca sono co-autori Wen Li, uno studente laureato che lavora nel laboratorio di Thorne, Binbin Ni, uno studioso post-dottorato che lavora nel laboratorio di Thorne, Jacob Bortnik, un ricercatore presso il Dipartimento UCLA di Scienze dell'Atmosfera e del Oceanic; Daniel Baker, professore presso l'Università del Laboratorio di Colorado per la Fisica atmosferica e dello Spazio e autore principale della Scienza carta Febbraio; ed Vassilis Angelopoulos, un professore di UCLA di scienze della terra e dello spazio.

A cura di Arthur McPaul

Foto
NASA's Van Allen probes. (Credit: JHU/APL)

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2013/06/130620162840.htm

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giovedì 20 giugno 2013

La Metamorfosi del ghiaccio lunare





Un gruppo di scienziati della Nasa e dell’università del New Hampshire ha forse risolto un mistero lunare: la formazione di idrogeno molecolare a partire dall'acqua ghiacciata nel cratere perennemente in ombra dove atterrò la missione LCROSS. I responsabili sono i raggi cosmici che penetrano sotto la superfice dissociano l’acqua facendola passare da H20 a H2.

I ricercatori del dell’Università del New Hampshire e del NASA Goddard Space Flight Center hanno risolto un mistero che riguardava di una delle regioni più fredde del sistema solare: un cratere permanentemente in ombra sulla Luna. Utilizzando i dati raccolti dal Lunar Reconnaissance Orbiter della NASA (LRO), hanno spiegato in che modo le particelle energetiche che penetrano il suolo lunare possono creare idrogeno molecolare dall’acqua ghiacciata. La scoperta permette di comprendere in che modo le radiazioni possono cambiare la chimica del ghiaccio d’acqua in tutto il sistema solare.

Scoprire idrogeno molecolare sulla Luna è stato un risultato a sorpresa per la missione della NASA Lunar Crater Observation Sensing Satellite (LCROSS), portata da un razzo Centaur fino a schiantarsi nel cratere Cabeo, nella regione permanentemente in ombra della luna. Queste regioni non sono mai state esposte alla luce del Sole e sono rimaste a temperature vicine allo zero assoluto per miliardi di anni, preservando in tal modo la natura incontaminata del suolo lunare.

La strumentazione di bordo di LCROSS ha rilevato nell’immenso pennacchio di detriti conseguente all’impatto della sonda vapore acqueo e acqua ghiacciata, che erano gli obbiettivi della missione. Invece LRO, già in orbita intorno alla Luna, ha rilevato l’idrogeno molecolare, una vera sorpresa.

Lo studio di Andrew Jordan e colleghi fornisce una spiegazione di come l’idrogeno molecolare, che è composto di due atomi di idrogeno e denotato chimicamente come H2, possa crearsi sotto la superficie della Luna.

“Dopo il ritrovamento, c’erano un paio di idee su come l’idrogeno molecolare poteva essersi formato, ma nessuno di queste sembrava accordarsi con le condizioni nel cratere o con l’impatto del razzo.” Jordan dice. “La nostra analisi mostra che i raggi cosmici galattici, che sono carichi di particelle energetiche sufficienti a penetrare sotto la superficie lunare, possono dissociare l’acqua, H2O, in H2 attraverso vari possibili percorsi.”

Le analisi si sono basate sui dati raccolti dal telescopio Cosmic Ray Telescope for the Effects of Radiation (CRATER)che si trova a bordo della sonda LRO. Jordan, ricercatore presso lo University of New Hampshire’s Institute for the Study of Earth, Oceans, and Space (EOS) è un membro del team scientifico di Crater, guidato dal ricercatore principale Nathan Schwadron. Schwadron è stato il primo a suggerire le particelle energetiche come possibile meccanismo per la creazione di idrogeno molecolare.

“Abbiamo utilizzato le misurazioni del cratere per avere un’idea di quanto idrogeno molecolare si sia formato dal ghiaccio d’acqua per via delle particelle cariche.” Il modello al computer creato da Jordan ha incorporato i dati del cratere e ha dimostrato che queste particelle energetiche possono formare tra il 10 e il 100 per cento dell’idrogeno molecolare misurato da LAMP.

Lo studio sottolinea che per ridurre quell’incertezza sarebbero necessari esperimenti sull’acqua ghiacciata effettuati con gli acceleratori di particelle, per valutare con maggiore precisione il numero di reazioni chimiche che hanno luogo per unità di energia veicolata dai raggi cosmici e dalle particelle energetiche solari.

A cura di Antonio Marro

Foto
Vista panoramica lunare, presa dal Lunar Reconnaissance Orbiter Camera, del bordo nord del cratere Cabeo. La distanza da sinistra a destra è di circa 75 chilometri. CREDIT: Image of NASA / GSFC / Arizona State Univ.

Fonte:
http://www.media.inaf.it/2013/06/20/la-metamorfosi-del-ghiaccio-lunare/

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Quando Marte diventó rosso...





Secondo uno studio inglese, la composizione chimica delle rocce analizzate da Spirit e dei meteoriti marziani rinvenuti sulla Terra rivela che l'atmosfera del pianeta conteneva molto ossigeno 4 miliardi di anni fa, ben prima della comparsa dell'ossigeno nell'atmosfera terrestre.

Marte era già rosso ben prima che la Terra diventasse azzurra. Ce lo dice, insieme a diverse altre cose, uno studio appena pubblicato su -Nature da un gruppo di ricercatori dell’Università di Oxford, guidati da Bernard Wood. I ricercatori hanno cercato una spiegazione a un problema che lasciava perplessi gli studiosi del pianeta rosso. Perché i meteoriti provenienti da Marte e rinvenuti sulla Terra abbiano una composizione così diversa dalle rocce analizzate dal rover della NASA Spirit. Queste ultime (rocce superficiali rinvenuti nei pressi del cratere Gusev, e quindi di probabile origine vulcanica) sono cinque volte più ricche di nichel rispetto ai meteoriti. Il che faceva pensare che questi ultimi potessero avere un’origine diversa, non vulcanica. E faceva dubitare che si potessero usare come campioni significativi per studiare l’evoluzione del pianeta.

Usando una simulazione al computer dell’evoluzione geologica di Marte, i ricercatori hanno ricostruito come, a partire da un modello della composizione iniziale del mantello di Marte, possano essersi formate le diverse rocce superficiali a seguito di processi vulcanici. Dimostrando che le due categorie di rocce possono avere la stessa origine, e che le loro differenze chimiche si possono ricondurre semplicemente alla diversa età (4 miliardi di anni per quelle analizzate da Spirit, da 180 milioni a un miliardo di anni per i meteoriti) e alle caratteristiche dell’atmosfera primordiale di Marte.

Certo, è possibile che la composizione geologica di Marte vari moltissimo da una zona all’altra, e quindi i meteoriti conosciuti vengano semplicemente da zone con caratteristiche molto diverse dal cratere Gusev. Ma i ricercatori ritengono più probabile che quelle differenze siano dovute a un processo chiamato subduzione, per cui del materiale “sprofonda” dalla superficie verso l’interno. L’idea è che l’atmosfera di Marte fosse già molto ricca di ossigeno nelle primissime fasi di vita del pianeta, e che materiale roccioso ossidato sia sprofondato per subduzione e poi risputato in superficie dalle eruzioni vulcaniche, il tutto circa 4 miliardi di anni fa. E questo spiega l’origine delle rocce studiate da Spirit. I meteoriti, al contrario, sarebbero rocce vulcaniche più giovani, emerse da profondità molto più grandi e in tempi più recenti, e quindi meno influenzate dal processo di ossidazione.

“Questo implica che Marte avesse un’atmosfera ricca di ossigeno circa 4 miliardi di anni fa, ben prima della comparsa dell’ossigeno atmosferico sulla Terra, che avvenne circa 2 miliardi e mezzo di anni fa. Dato che l’ossidazione è responsabile del caratteristico colore rosso di Marte, questo vuol dire che il pianeta era rosso, umido e caldo miliardi di anni prima che l’atmosfera della Terra diventasse ricca di ossigeno”.

A cura di Nicola Nosengo

Foto

Il cratere Gusev visto da Spirit (credit: NASA)

Fonte:
http://www.media.inaf.it/2013/06/19/quando-marte-divento-rosso/

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mercoledì 19 giugno 2013

Venti In Aumento Su Venere





I dati della sonda ESA Venus Express mostrano che in sei anni i venti che muovono le nubi di Venere sono passati da 300 a 400 km all'ora. Le cause non sono chiare.

Già sembravano velocissimi sette anni fa, quando la sonda Venus Express raggiunse l’orbita di Venere. Ma da allora i venti che percorrono l’atmosfera del pianeta sono aumentati costantemente, come rivela l’ultima analisi dettagliata dei movimenti delle nuvole condotta proprio da quella stessa missione. Nei sei anni terrestri (corrispondenti a 10 anni venusiani) coperti dall’analisi, la velocità media dei venti misurati sopra le nuvole, a latitudini di 50 gradi sopra e sotto l’equatore, è passata da 300 km all’ora a 400 km all’ora. Lo dimostrano due studi separati, entrambi basati sui dati di Venus Express, pubblicati su Icarus l’uno e su The Journal of Geophysical Research l’altro.

La rapida rotazione dell’atmosfera è una delle caratteristiche più peculiari di Venere: essa fa un giro completo attorno al pianeta in quattro giorni terrestri, mentre la rotazione del pianeta stesso richiede 243 giorni terrestri.

Gli autori dell’articolo su Icarus, guidati da Igor Khatuntsev dello Space Research Institute di Mosca, hanno misurato il movimento delle strutture nuvolose più riconoscibili nelle immagini di Venus Express: un lavoraccio, visto che hanno dovuto seguire a mano, frame per frame oltre 45 000 nuvole (altre 350 000 le hanno fatte tracciare automaticamente da un programma al computer). L’altro gruppo, giapponese, ha utilizzato un diverso sistema di tracciamento delle nuvole per calcolare la velocità dei venti che le spostano. Le due analisi concordano e fissano la velocità media a 400 km all’ora.

“E’ un aumento enorme di velocità che erano già molto alte. Una variazione così grande non si era mai osservata su Venere, e non capiamo perché sia avvenuta” ammette Khatuntsev.

Accanto all’aumento della velocità media sul lungo periodo, gli autori hanno però misurato anche variazioni regolari sul breve termine, dovute alle diverse fasi del giorno, l’altezza del Sole sull’orizzonte e la rotazione del pianeta. In particolare, c’è un’oscillazione regolare che si verifica ogni 4,8 giorni nelle zone equatoriali, probabilmente collegata a onde atmosferiche che si verificano a bassa quota.

A cura di Nicola Nosengo

Foto
Esempi di tracking di nuvole su Venere (from Khatuntsev et al, Cloud level winds from the Venus Express Monitoring Camera imaging, Icarus (2013); doi: 10.1016/j.icarus.2013.05.018)

Fonte:
http://www.media.inaf.it/2013/06/18/su-venere-il-vento-soffia-sempre-piu/

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sabato 15 giugno 2013

Osservata Atmosfera di Esopianeta Per La Prima Volta





Un gruppo di ricerca guidato da Akihiko Fukui (NAOJ), Norio Narita (NAOJ) e Kenji Kuroda (l'Università di Tokyo) ha osservato per la prima volta l'atmosfera della super-Terra "GJ3470b", utilizzando due telescopi (OAO Okayama Astrophysical Observatory, NAOJ).
Questa super-Terra è 14 volte la massa del nostro pianeta, ed è il secondo più leggero tra i pianeti extrasolari già esaminati. I dati delle osservazioni hanno rivelato che probabilmente è coperto da dense nubi.


È molto difficile misurare i raggi degli esopianeti, così in molti casi abbiamo informazioni solo sulle loro masse. Tuttavia, se un esopianeta ha una particolare orbita di "transito planetario (Transit Primario)" in cui passa davanti alla stella primaria (stella madre), si può stimare il suo raggio.
Durante il transito, la luminosità osservata della stella diminuisce leggermente a seconda della dimensione del pianeta. Quindi, si può stimare il raggio del pianeta misurando il tasso sbiadimento di luce, in modo molto preciso.

Il gruppo di ricerca ha effettuato osservazioni estremamente accurate sul transito del pianeta extrasolare GJ3470b utilizzando il Near-Infrared Imager/Spectrograph, una macchina fotografica montata sul telescopio riflettore di 188 centimetri e tre telecamere in luce visibile Multicolor Imaging Telescopes for Survey and Monstrous Explosions (MITSuME), tutte appartenenti al telescopio OAO.
Esse hanno misurato il tasso calante di luminosità delle stelle in 4 colori (dal visibile al vicino infrarosso). Le osservazioni hanno consentito di stimare per ogni colore il raggio del pianeta.
Come risultato, il raggio derivato dalla radiazione del vicino infrarosso (1,3 micrometro di lunghezza d'onda) è circa il 6% più corto di quello della luce visibile.
La differenza tra i colori dei raggi, probabilmente è il riflesso delle caratteristiche atmosferiche del pianeta. Quando la luce della stella primaria è trasmessa attraverso la spessa atmosfera del pianeta, la lunghezza della luce viene assorbita o dispersa dalle molecole atmosferiche, che potrebbero causare la differenza dei raggi apparente per ogni lunghezza d'onda di osservazione.

Finora, l'atmosfera di solo due super-Terre tra GJ3470b è stato studiato in dettaglio.
La stima del raggio di un pianeta extrasolare è un compito molto difficile. Generalmente, il tasso di sbiadimento della luce della stella causato dal transito della super-Terra è estremamente basso. Nel caso di GJ3470b, tuttavia, la dimensione della stella primaria è piccola, quindi il rapporto è relativamente grande.

Pertanto, il tasso di dissolvenza della luce della stella principale a causa del transito diventa più grande in modo che sia misurabile e osservabile con i telescopi a terra con un diametro di dimensioni medie.

Il raggio stimato del pianeta dalle osservazioni delle radiazioni del vicino infrarosso questa volta risulta essere circa 4,3 volte più grande di quella della Terra. Inoltre, i calcoli teorici basati sulla massa e sul raggio del pianeta stimano che il pianeta dovrebbe avere una enorme quantità di atmosfera.
Fukui ha commentato: "Supponiamo che l'atmosfera sia costituita da idrogeno ed elio, la massa dell'atmosfera sarebbe dal 5 al 20% della massa totale del pianeta. Confrontando col fatto che la massa dell'atmosfera terrestre è di circa un decimillesimo di percentuale (0,0001%) della massa totale della Terra, questo pianeta risulta che ha un'atmosfera molto densa".

A causa delle differenze nei raggi dei colori trovati da questa osservazione, è sicuro nell'affermare che le nuvole spesse non coprono GJ3470b.
Se dense nubi coprissero il pianeta, non dovrebbero esistere differenze di colore nei raggi.

Il gruppo di ricerca prevede di condurre osservazioni di precisione ancora maggiore utilizzando il telescopio Subaru o di altri grandi telescopi.
"L'orbita di GJ3470b dalla sua stella principale è molto vicina, a soli 0,036 UA (unità astronomiche), che è di circa 28 volte inferiore alla distanza tra il Sole e la Terra, e ruota in un breve ciclo di soli 3,3 giorni. Gli scienziati ancora non capiscono bene come si sia formato un tale pianeta.

GJ3470b è davvero forse non coperto da nuvole spesse, quindi crediamo che la composizione dell'atmosfera potrebbe essere rilevata senza essere bloccata dalle sue nuvole. Se trovassimo qualsiasi sostanza, come acqua o metano, che diventa ghiaccio a bassa temperatura, probabilmente significa che questo pianeta si formó originariamente a distanza (qualche unità astronomiche) dalla stella primaria, dove il ghiaccio potrebbe esistere muovendosi verso la stella primaria.

"Al contrario, se tale sostanza non fosse trovata nell'atmosfera, potrebbe essere possibile che si sia formato nei pressi della stella primaria. Ci aspettiamo di ottenere indizi importanti per capire come le super-Terre sono formate attraverso osservazioni della componente atmosferica di GJ3470b" ha detto Fukui.

Il tempo spesso favorevole ad Okayama è stato a nostro favore per ottenere i risultati delle osservazioni. Un continuo cielo sereno per diverse ore attraverso un tempo di transito previsto è fondamentale per misurare con precisione la distanza di un pianeta extrasolare.
I ricercatori continueranno le osservazioni con i telescopi a OAO, sperando di portare ulteriori progressi.

Traduzione e adattamento a cura di Arthur McPaul

Foto di apertura
Immagine della Super-Terra "GJ3470b". La dimensione del pianeta (parte anteriore) e stella primaria (indietro) rappresenta il rapporto effettivo. (Credit: NAOJ)

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2013/06/130612093544.htm

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giovedì 13 giugno 2013

Andromeda è piena di buchi neri!





Utilizzando di dati provenienti dal Chandra X-ray Observatory della NASA, gli astronomi hanno scoperto una miniera d'oro senza precedenti di buchi neri nella Galassia di Andromeda, una delle galassie più vicine alla Via Lattea.

Utilizzando più di 150 osservazioni di Chandra in 13 anni, i ricercatori hanno identificato 26 candidati buchi neri, il più grande numero mai noto in una galassia di fuori della nostra. Molti considerano che Andromeda e la Via Lattea si scontreranno tra diversi miliardi.

"Anche se siamo entusiasti di trovare così tanti buchi neri in Andromeda, pensiamo che sia solo la punta di un iceberg", ha detto Robin Barnard dell'Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics (CFA) a Cambridge, Mass., ed autore principale di un nuovo documento che descrive questi risultati.
"La maggior parte dei buchi neri non hanno compagni vicini e sono invisibile a noi".

I candidati buchi neri appartengono alla categoria di massa stellare, nel senso che si sono formati negli spasimi della morte di stelle molto massicce e in genere hanno masse da cinque a 10 volte quella del nostro Sole.
Gli astronomi possono rilevare questi oggetti altrimenti invisibili dal materiale tirata da una stella compagna e riscaldata fino a produrre la radiazione prima di scomparire nel buco nero.

Il primo passo per identificare questi buchi neri è stato quello di assicurarsi che fossero sistemi di massa stellare nella galassia di Andromeda, piuttosto che i buchi neri supermassicci al cuore di galassie più distanti.
Per fare questo, i ricercatori hanno utilizzato una nuova tecnica che si basa su informazioni relative alla luminosità e alla variabilità delle sorgenti di raggi X nei dati di Chandra.
In breve, i sistemi di massa stellare cambiano molto più velocemente di quanto lo facciano i buchi neri supermassicci.

Per classificare i sistemi di Andromeda come i buchi neri, gli astronomi hanno osservato che queste sorgenti di raggi X hanno caratteristiche particolari: cioè, erano più luminosi di un certo livello di raggi X e avevano anche un colore particolare.
Fonti contenenti stelle di neutroni, non mostrano entrambe queste caratteristiche simultaneamente. Ma le fonti contenenti buchi neri lo fanno.

Lo XMM-Newton X-ray Observatory dell'Agenzia Spaziale Europea ha aggiunto il supporto fondamentale per questo lavoro, fornendo agli spettri di raggi X, la distribuzione dei raggi X con l'energia, per alcuni dei candidati buchi neri.
Gli spettri sono importanti informazioni che consenteno di determinare la natura di questi oggetti.

"Osservando le istantanee che coprono più di una dozzina di anni, siamo in grado di costruire una visione unica utile di M31", ha detto il co-autore Michael Garcia, anche del TUF.
"Il risultato delle esposizioni molto lunghe ci permette di testare se le singole fonti siano buchi neri o stelle di neutroni."

Il gruppo di ricerca precedentemente ha identificato nove candidati buchi neri all'interno della regione coperta dai dati di Chandra e gli attuali risultati sono aumentare ad un totale di 35.
Otto di questi sono associati con gli ammassi globulari, le antiche concentrazioni di stelle distribuite in un modello sferico intorno al centro della galassia.
Questo differenzia anche Andromeda dalla Via Lattea, in cui gli astronomi non hanno ancora trovato un buco nero simile a uno degli ammassi globulari della Via Lattea.

Sette di questi candidati buchi neri si trovano a 1.000 anni luce dal centro della galassia Andromeda, che rappresentanl il maggior numero di candidati buchi neri con proprietà simili situati vicino al centro della nostra galassia.

Questa non è una sorpresa per gli astronomi a causa del maggior rigonfiamento delle stelle nel centro di Andromeda, permettendo ai buchi più neri di formarsi.
"Quando si tratta di trovare i buchi neri nella regione centrale di una galassia, c'è maggiore possibiltà se esso è grande", ha detto il co-autore Stephen Murray della Johns Hopkins University e TUF. "Nel caso di Andromeda abbiamo un rigonfiamento più grande e un buco nero supermassiccio più grande della Via Lattea, per cui ci aspettiamo che ci siano anche buchi neri più piccoli".

Questo nuovo lavoro conferma previsioni fatte in precedenza nella missione Chandra sulle proprietà delle sorgenti di raggi X vicino al centro di M31. Studi precedenti effettuati da Rasmus Voss e Marat Gilfanov del Max Planck Institute for Astrophysics di Garching, Germania, aveva utilizzato Chandra per indicare che c'era un numero insolitamente elevato di fonti di raggi X vicino al centro di M31.

Essi predissero che la maggior parte di queste sorgenti di raggi X in eccesso dovevano contenere buchi neri che avevano incontrato e catturato stelle di piccola massa. Questa nuova individuazione di sette buchi neri candidati neri vicino al centro di M31 dà un forte sostegno a queste affermazioni.
"Siamo particolarmente entusiasti di vedere così tanti candidati buchi neri presente vicino al centro galattico, perché ci aspettavamo di vederli e sono stati cercati per anni", ha detto Barnard.

Questi risultati saranno pubblicati nel numero del 20 di The Astrophysical Journal di giugno. Molte delle osservazioni su Andromeda sono state fatte all'interno del Programma Garantito di Chandra Time Observer.

Traduzione e adattamento a cura di Arthur McPaul

Foto di apertura
I dati del Chandra X-ray Observatory della NASA sono stati utilizzato per scoprire 26 candidati buchi neri nel vicino galattico della Via Lattea, Andromeda. (Credit: X-ray: NASA / CXC / SAO / R Barnard, Z. Lee et al, Ottico:.. NOAO / AURA / NSF / REU Program / B. Schoening, V. Harvey e Descubre Foundation / CAHA / OAUV / DSA / V. Peris)

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2013/06/130612154019.htm

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Variazioni di temperature anomale su Marte





I ricercatori che utilizzano il NASA Mars Reconnaissance Orbiter, hanno scoperto che le temperature nell'atmosfera marziana salgono e scendono regolarmente non una ma due volte al giorno

"Vediamo un massimo di temperatura nel mezzo della giornata, ma vediamo anche una temperatura massima poco dopo la mezzanotte", ha detto Armin Kleinboehl del NASA Jet Propulsion Laboratory di Pasadena, autore principale dello studio.

Le temperature oscillano di ben 58 gradi Fahrenheit (32 kelvin) in questo strano modello, per due volte al giorno, come rilevato dal Mars Climate Sounder a bordo della sonda NASA MRO.
La nuova serie di osservazioni del Mars Climate Sounder a bordo di esso ha campionato una serie di momenti del giorno e della notte in tutto Marte. Le osservazioni hanno scoperto che il modello è dominante a livello globale e per tutto l'anno. Il rapporto è stato pubblicato sulla rivista Geophysical Research Letters.

Oscillazioni globali del vento, temperatura e pressione che si ripetono ogni giorno o frazione di giorno sono chiamate maree atmosferiche.
In contrasto con le maree, esse sono guidate da variazione del riscaldamento tra il giorno e la notte. La Terra ha delle maree atmosferiche, ma producono poca differenza di temperatura nella bassa atmosfera dal suolo.
Su Marte, che ha solo circa l'uno per cento dell'atmosfera della Terra, esse dominano le variazioni di temperatura a breve termine in tutta l'atmosfera.

Le maree che vanno su e giù una volta al giorno sono chiamate "diurne". Quelle due volte al giorno sono chiamate "semi-diurne". Il modello semi-diurno su Marte è stato scoperto per la prima volta nel 1970, ma fino ad ora si riteneva avvenisse solo nelle stagioni polverose, legato al riscaldamento da parte della luce solare della polvere presente nell'atmosfera.
"Siamo stati sorpresi di trovare questa forte struttura che si ripete due volte al giorno nelle temperature dell'atmosfera non-polverosa di Marte", ha detto Kleinboehl.
"Mentre la marea diurna, come risposta della temperatura dominante per il ciclo di riscaldamento solare giorno-notte era nota da decenni, la scoperta di una risposta persistente semi-diurna, anche al di fuori delle grandi tempeste di polvere, è stata abbastanza inaspettata, e ha posto la domanda sul cosa la causi".

Lui e i suoi quattro co-autori hanno scoperto la risposta tra le nuvole d'acqua di ghiaccio di Marte. L'atmosfera di Marte ha delle nuvole d'acqua di ghiaccio per gran parte dell'anno. Tali nuvole nella regione equatoriale sono poste tra circa 6-19 miglia (da 10 a 30 km) sopra la superficie di Marte, assorbendo la luce infrarossa emessa dalla superficie durante il giorno.

Queste sono le nuvole relativamente più trasparenti, sottili come i cirri sulla Terra. Inoltre, l'assorbimento di queste nubi è sufficiente per riscaldare la media atmosfera, ogni giorno.
Il modello di temperatura semi-diurno osservata, con i suoi sbalzi di temperatura massimi che si verificano lontano dai tropici, era inatteso, ma è stato replicato con successo quando nei modelli climatici su Marte, sono stati inseriti gli effetti radiativi delle nubi di ghiaccio d'acqua.

"Pensiamo a Marte come un mondo freddo e secco con poca acqua, ma vi è in realtà più vapore acqueo nell'atmosfera marziana che negli strati superiori dell'atmosfera terrestre", ha detto Kleinboehl. "Le nuvole di ghiaccio di acqua sono note per formarsi nelle regioni con temperature fredde, ma le valutazioni di queste nubi sulla struttura della sua temperatura non erano stati apprezzati.

Oggi sappiamo che dovremo prendere in considerazione la struttura delle nubi, se vogliamo capire davvero l'atmosfera di Marte. Ciò è paragonabile agli studi scientifici riguardanti l'atmosfera della Terra, in cui dobbiamo capire meglio le nubi per valutare la loro influenza sul clima".

Traduzione e adattamento a cura di Arthur McPaul

Foto di apertura
Questo grafico descrive lo strumento Mars Climate Sounder sul NASA Mars Reconnaissance Orbiter, che misura la temperatura di una sezione trasversale dell'atmosfera marziana, quando l'orbiter passa sopra la regione polare sud. (Credit: NASA / JPL-Caltech)

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2013/06/130612155834.htm

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martedì 11 giugno 2013

Anche I Pianeti Migrano...



Le stelle attirano verso di sè i gioviani caldi che si formano lontano, ma la migrazione verso l'interno spesso poi si ferma. Perché
Un nuovo studio utilizzando i dati ricevuto dal telescopio spaziale Keplero della NASA, mostra che gioviani caldi, non vengono regolarmente consumati dalle loro stelle, ma anzi, restano in orbite stabili per miliardi di anni, fino a quando poi vengono inglobati.
"Tutti i pianeti gioviani caldi si avvicinano sempre più alle loro stelle, ma questo studio dimostra che il processo si arresta prima che lo facciano troppo", ha detto Peter Plavchan dello Exoplanet Science Institute della NASA presso il California Institute of Technology, Pasadena, California. "I pianeti stabilizzano le loro orbite soprattutto quando esse diventano circolari".
Lo studio è stato pubblicato recentemente sulla rivista Astrophysical Journal.
"Quando erano noti solo pochi pianeti gioviani caldi, c'erano diversi modelli che potevano spiegare le osservazioni," ha dichiarato Jack Lissauer, scienziato per Keplero presso l'Ames Research Center della NASA, Moffet Field in California, non affiliato con lo studio.
"Ma successivamente, osservando popolazioni intere di questi pianeti ci ha mostrato che le maree, in combinazione con le forze gravitazionali di pianeti spesso invisibili e con compagni stellari, possono portarli vicino alla loro stella".
I gioviani caldi sono palle giganti di gas che assomigliano a Giove, in massa e composizione. Essi non brillano come un Sole, e si formano in ampie zone fredde, come fece Giove nel nostro Sistema Solare.
In definitiva, i gioviani caldi migrano lentamente verso le loro stelle, in un processo relativamente raro e ancora poco conosciuto.
Il nuovo studio risponde alle domande circa la fine del viaggio dei pianeti gioviani caldi".
In passato, sono state formulate alcune teorie circa il fenomeno e le sue cause.
Una di queste proponeva che il campo magnetico della stella impedisse ai pianeti di andare oltre. Quando una stella è giovane, infatti, è circondata da un disco di polvere planetaria, il materiale ricade continuamente nella stella, in un processo che gli astronomi chiamano accrescimento, ma quando colpisce la bolla magnetica attorno ad esso, chiamata magnetosfera, il materiale viaggia intorno ad essa, ricadendo sulla stella dalla parte superiore e inferiore. Questa bolla potrebbe fermare i pianeti migratori risultanto pertanto insoddisfacente a spiegare il fenomeno.
Un'altra teoria ha ritenuto che i pianeti cesserebbero di migrare quando colpiscono la fine della parte polverosa del disco di formazione planetaria.
"Questa teoria ha detto in sostanza che la strada di polvere su cui un un pianeta viaggia, finisce prima che il pianeta scenda fino in fondo alla stella", ha detto il co-autore Chris Bilinski della University of Arizona, Tucson.
"Si forma un vuoto tra la stella e il bordo interno del suo disco polveroso, dove i pianeti si ipotizza che arrestino la loro migrazione".
Esiste una terza teoria, quella che i ricercatori hanno scoperto essere corretta, in cui un pianeta che migra, si arresta quando le forze di marea della stella hanno completato il loro lavoro di circolarizzare l'orbita.
Per provare questi e altri scenari, gli scienziati hanno esaminato 126 pianeti confermati e più di 2.300 candidati. La maggioranza dei candidati e alcuni dei pianeti conosciuti sono stati identificati tramite la missione Keplero, della NASA.
Keplero ha trovato i pianeti di tutte le dimensioni e tipi, compresi quelli rocciosi che orbitano dove le temperature sono abbastanza calde per ospitare l'acqua liquida.
Gli scienziati hanno esaminato come la distanza dei pianeti dalla loro stella vari a seconda della massa della stella.
Si scopre che le varie teorie che spiegano l'arresto dei pianeti migranti, si differenziano per le loro previsioni su come la massa di una stella colpisca l'orbita del pianeta.
Le "forze di marea" in teoria prevedono che i pianeti gioviani caldi attorno a stelle più massicce avrebbero un'orbita più lontano, in media.
L'indagine risulta abbinata alla teoria delle "forze di marea" e ha anche ha mostrato più di una correlazione tra le stelle massicce e le orbite più distanti da essa più del del previsto.
Ció potrebbe rappresentare la fine del mistero di ciò che blocca la migrazione pianeti, ma il viaggio stesso pone ancora molti interrogativi.
Poiché i pianeti giganti gassosi viaggiano verso l'interno, si ipotizza che che a volte colpiscano i più piccoli pianeti rocciosi deviandoli dalle loro orbite, estirpando su di essi ogni possibilità di vita.
Fortunatamente per noi, il nostro Giove non ha compiuto il sui viaggio verso il Sole e la nostra Terra non è stata coinvolta nel processo di mograzione.
Altri studi come questo aiuteranno a spiegare questi e altri segreti della migrazione planetaria.
Traduzione e adattamento a cura di Arthur McPaul
Foto di apertura
I ricercatori che utilizzano i dati provenienti da telescopio spaziale Keplero della NASA hanno dimostrato che i pianeti cessano il loro viaggio verso l'interno prima di raggiungere le loro stelle, come illustrato nel concetto di questo artista.
I giganti gassosi come Giove, chiamati "pianeti gioviani caldi" sono noti per migrare dalle gelide retrovie dei sistemi stellari verso l'interno.
Decine di pianeti gioviani caldi sono stati scoperti in orbita ristretta vicino alle loro stella. (Credit: NASA / JPL-Caltech)
Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2013/06/130606134722.htm
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venerdì 7 giugno 2013

Nuova Scoperta Sulla Formazione Planetaria





Gli astronomi che utilizzando il nuovo Atacama Large Millimeter / submillimeter Array (ALMA), hanno ripreso una regione attorno ad una giovane stella, in cui le particelle di polvere crescono per aggregazione. Questa è la prima volta che una "trappola per la polvere" è stata chiaramente osservata.

Si risolve dunque un mistero di lunga data su come le particelle di polvere nei dischi protoplanetari accrescano per dimensioni, in modo che possano eventualmente formare comete, pianeti e altri corpi rocciosi.

Gli astronomi sanno che i pianeti intorno ad altre stelle sono abbondanti. Ma non è ancora ben noto parte della loro formazione primaria.
Tuttavia, le nuove osservazioni che sfruttano la potenza di ALMA stanno rispondendo ad una delle più grandi domande: come possano dei minuscoli granelli di polvere attorno ad una giovane stella, accrescere sempre più, fino a diventare massi ben oltre un metro di diametro.

I modelli al computer suggeriscono che i grani di polvere crescono quando entrano in collisione e restano uniti. Tuttavia, quando questi grani più grandi si scontrano di nuovo ad alta velocità, sono spesso fatti a pezzi e anche quando questo non accade, i modelli mostrano che i chicchi più grandi dovrebbero muoversi rapidamente verso l'interno a causa dell'attrito tra la polvere e di gas e la ricaduta sulla stella madre, lasciando nessuna possibilità per poter crescere ancora di più.

In qualche modo la polvere ha bisogno di un porto sicuro in cui le particelle possano continuare a crescere fino a quando non sono abbastanza grandi per sopravvivere da sole [1]. Tali "trappole di polvere" sono state proposte dagli scienziati, ma non vi era alcuna prova osservativa della loro esistenza.

Nienke van der Marel, uno studente di dottorato presso il Leiden Observatory, nei Paesi Bassi ed autore principale dell'articolo, stava usando ALMA con i suoi collaboratori, per studiare il disco in un sistema chiamato Oph IRS-48 [2]. Hanno scoperto che la stella è circondata da un anello di gas con un foro centrale che probabilmente è stato creato da un pianeta non visibile o da una stella compagna.

Le osservazioni precedenti, utilizzando il Very Large Telescope dell'ESO hanno già dimostrato che le piccole particelle di polvere formano una struttura ad anello simile. Ma la nuova vista di ALMA ha scovato particelle di polvere più grandi di alcuni millimetri.
"In un primo momento la polvere è stata una sorpresa per noi", ha detto van der Marel. "Invece dell'anello che ci aspettavamo di vedere, abbiamo trovato una chiara forma ad anacardo, e abbiamo dovuto convincerci che questa caratteristica fosse reale, ma il segnale forte e la nitidezza delle osservazioni di ALMA non hanno lasciato dubbi circa la sua struttura. Avevamo di fronte una regione in cui i granelli di polvere più grandi erano rimasti intrappolati e potevano crescere tranquillamente. É probabile che siamo di fronte a una sorta di fabbrica di comete, in cui ci sono le condizioni per le particelle di crescere da un millimetro alle dimensioni di una cometa.
La polvere non riesce probabilmente a formare pianeti di dimensioni a questa distanza da la stella, ma nel prossimo futuro ALMA sarà in grado di osservare le trappole di polvere più vicine alle loro stelle madri, dove gli stessi meccanismi sono al lavoro.
Tali trappole di polvere sarebbero davvero le culle per i pianeti appena nati".

La trappola di polvere si forma nelle regioni di maggiore pressione. La modellazione al computer ha mostrato che una tale regione ad alta pressione può originare dei moti di gas proprio come quello trovato in questo disco.
"La combinazione del lavoro di modellazione e le osservazioni di alta qualità di ALMA rendono questo progetto unico", dice Cornelis Dullemond presso l'Istituto di Astrofisica Teorica di Heidelberg, in Germania, che è un esperto di evoluzione della polvere e modellazione del disco, e un membro del team . "Nel periodo in cui sono state ottenute queste osservazioni, abbiamo lavorato su modelli che predicono esattamente questi tipi di strutture: una coincidenza molto fortunata".

Le osservazioni sono state effettuate, mentre ALMA era ancora in fase di costruzione. Hanno fatto uso della banda ALMA, 9 ricevitori [3] di fabbricazione europea che permettono di ottenere le più nitide immagini possibili.

"Queste osservazioni mostrano che ALMA è in grado di trasformare la scienza, anche con meno della metà della gamma completa in uso", dice van EWINE Dishoeck dell'Osservatorio di Leida, che ha fornito stato importante contributo per il progetto ALMA da oltre 20 anni.

"Il salto incredibile sia nella sensibilità che nella nitidezza dell'immagine in Band 9 ci dà l'opportunità di studiare gli aspetti fondamentali della formazione dei pianeti in modi che non erano semplicemente possibili prima".

Note:
[1] La causa della trappola di polvere, in questo caso un vortice nel gas del disco, ha una durata tipica di centinaia di migliaia di anni. Anche quando la trappola di polvere cessa di funzionare, la polvere accumulata nella trappola necessita milioni di anni per l'accrescimento dei grani di polvere.

[2] Il nome è una combinazione del nome della costellazione della regione di formazione stellare dove si trova il sistema e il tipo di fonte, così Oph sta per la costellazione di Ofiuco (The Bearer Serpente), e l'IRS significa sorgente infrarossa . La distanza dalla Terra al Oph IRS-48 è di circa 400 anni luce.

[3] ALMA può osservare in diverse bande di frequenza. Fascia 9, operanti a lunghezze d'onda di circa 0,4-0,5 mm, è la modalità che finora fornisce le immagini più nitide.

I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Science del 7 giugno 2013.

Traduzione a cura di Arthur McPaul

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2013/06/130606140527.htm

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giovedì 6 giugno 2013

Dagli Impatti Cometari Si Formarono gli Elementi Pre-Biotici





Una nuova ricerca di Nir Goldman della Lawrence Livermore e Isaac Tamblyn dell'Università di Ontario Institute of Technology, hanno scoperto che le comete ghiacciate schiantesi sulla Terra milioni di anni fa, avrebbero potuto produrre i composti organici, compresi i mattoni delle proteine ​​e le coppie di basi azotate dell'DNA e dell'RNA.

Le comete contengono una varietà di semplici molecole, come l'acqua, l'ammoniaca, il metanolo e l'anidride carbonica e un impatto con una superficie planetaria fornirebbe un abbondante approvvigionamento di energia per guidare le reazioni chimiche.

"Il flusso di materia organica sulla Terra attraverso le comete e gli asteroidi durante i periodi di pesante bombardamento potrebbe ever pesato per 10.000 miliardi di chilogrammi all'anno, offrendo fino a diversi ordini di grandezza di massa di sostanze organiche rispetto a quello che probabilmente preesisteva sul pianeta" ha detto Goldman.

I primi lavori di Goldman si basano sui modelli di calcolo intensivo, che, in passato, non potevano che catturare 10-30 picosecondi di un evento di impatto cometario. Tuttavia nuove simulazioni, sviluppate ai supercomputer del LLNL, Rzcereal e Azteca, hanno usato modelli molto più efficienti ed è stato in grado di catturare centinaia di picosecondi degli impatti, molto più vicini ad un equilibrio chimico.

"Come risultato, ora osserviamo una gamma molto diversa e ampia di prodotti chimici di idrocarburi che, al momento dell'impatto, avrebbero potuto creare un materiale organico che alla fine ha portato alla vita", ha detto Goldman.
Le comete possono variare nel formato da 1,6 km fino a 56 km. Le comete che passano attraverso l'atmosfera terrestre sono riscaldate esternamente, ma rimangono fredde internamente.
Al momento dell'impatto con la superficie planetaria, viene generata un'onda d'urto a causa dell'improvvisa compressione.

Le onde d'urto possono creare improvvise e intense pressioni, che potrebbero influenzare le reazioni chimiche all'interno di una cometa prima che essa possa interagire con l'ambiente planetario. Una collisione obliqua dove un corpo ghiacciato extraterrestre urta un'atmosfera planetaria potrebbe generare le condizioni termodinamiche favorevoli alla sintesi organica.

Questi processi potrebbero apportare in concentrazioni significative le specie organiche sulla Terra.
Il team ha scoperto che moderate pressioni d'urto e temperature (circa 360.000 atmosfere di pressione e di 4.600 gradi Fahrenheit) in una miscela di biossido di carbonio ricco di ghiaccio hanno prodotto una serie di eterocicli contenenti azoto, che si dissociano per formare idrocarburi aromatici funzionalizzati su di espansione e raffreddamento.
Questi sono considerati precursori prebiotici al DNA e alle coppie di basi di RNA.

In contrasto, le elevate condizioni d'urto (da circa 480.000 a 600.000 atmosfere di pressione e dai 6,200-8,180 gradi Fahrenheit) hanno portato alla sintesi del metano e del formaldeide, così come ad alcune molecole di carbonio a catena lunga.
Questi composti sono noti per agire come precursori degli amminoacidi e della sintesi organica complessa.
Tutte le simulazioni di compressione shock per queste condizioni hanno prodotto notevoli quantità di nuovi, semplici composti di carbonio e azoto che sono noti precursori prebiotici.

"Gli impatti cometari potrebbero causare la sintesi delle molecole prebiotiche, senza bisogno di altre condizioni " speciali ", come ad esempio la presenza di catalizzatori, radiazioni UV, o particolari condizioni pre-esistenti su un pianeta", ha detto Goldman.

"Questi dati sono fondamentali per comprendere il ruolo degli eventi di impatto nella formazione di composti costruttori della vita sia sulla Terra che su altri pianeti e nel guidare le future ricerche".

La ricerca appare sulla copertina del numero del 20 di The Journal of Physical Chemistry di giugno 2013.

Foto in alto
Il doppio sistema di stelle T Pyxidis, o T Pisside, nel corso di un periodo di quattro mesi.
NASA, ESA, A. Crotts, J. Sokoloski, e H. Uthas (Columbia University), e S. Lorenzo (Hofstra University))

Traduzione a cura di Arthur McPaul

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2013/06/130605144326.htm

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Mappa in 3D di una Nova





Un lampo di luce da una esplosione stellare, ha fornito un rarissimo sguardo della struttura in 3-D del materiale espulso da una nova eruzione.

Gli astronomi hanno usato l'Hubble Space Telescope della NASA per osservare la luce emessa dal vicino sistema a doppia stella T Pyxidis, o T Pisside, una nova ricorrente, durante il suo ultimo sfogo ad aprile 2011.
Una stella nova, esplode quando il nucleo di una una nana bianca viene irrirata dall'idrogeno di una stella compagna, innescando una reazione nucleare.
Poiché l'idrogeno si accumula sulla superficie della nana bianca, la rende più calda e più densa fino ad esplodere come una colossale bomba all'idrogeno, aumentando di ben 10.000 volte la sua luminosità in poco più di un giorno. Le esplosioni di novae sono estremamente potenti, pari ad uno scoppio di un milione di miliardi di tonnellate di dinamite.

T Pisside erutta ogni 12/50 anni.
Contrariamente ad alcune previsioni, gli astronomi sono rimasti sorpresi di trovare il materiale espulso da esplosioni precedenti soggiornate in prossimità della stella, formando un disco di detriti attorno ad essa. La scoperta suggerisce che il materiale continui ad espandersi verso l'esterno lungo il piano orbitale del sistema, ma non sfugge al sistema stesso.
"Ci si aspettava che questo formasse un guscio sferico", dice Arlin Crotts della Columbia University, membro del team di ricerca.
"Questa osservazione dimostra che esiste un disco popolato da materiale espulso in rapido movimento da esplosioni precedenti".

Il membro del team, Stephen Lawrence della Hofstra University di Hempstead, NY, presenterà i risultati Martedì al convegno dell'American Astronomical Society a Indianapolis.
Il membro del Team Jennifer Sokoloski della Columbia University e co-ricercatore sul progetto, suggerisce che questi dati indicano che la stella compagna ha un ruolo importante nel plasmare il materiale che viene espulso, presumibilmente lungo il piano orbitale del sistema, creando il disco a forma di frittella. Il disco è inclinato di circa 30 gradi verso la Terra.
Utilizzando la camera di Hubble. la Wide Field Camera 3, il team, ha sfruttato l'esplosione di luce emessa dall'eruzione della nova per tracciare il percorso della luce che illuminava il disco e il materiale espulso precedentemente.

Il disco è così vasto, circa un anno luce, che la luce della nova, non può illuminare tutto il materiale in una volta. Invece, la luce spazia sul materiale, illuminandolo sequenzialmente in un fenomeno chiamato "eco di luce".

La luce rivela le parti del disco più vicine alla Terra e le sezioni più distanti. Tracciando la luce, il team ha assemblato una mappa in 3-D della struttura, intorno alla nova.
"Sappiamo tutti come la luce dei fuochi d'artificio esplode durante il gran finale lasciando il fumo e la fuliggine nello spettacolo", ha detto Lawrence. "In modo analogo, stiamo usando la luce dell'ultimo sfogo di T Pisside e la sua propagazione alla velocità della luce per sezionare i suoi fuochi d'artificio dei decenni passati".

Anche se gli astronomi sono stati testimoni della propagazione della luce attraverso il materiale circostante di altre novae, questa è la prima volta che l'ambiente immediatamente circostante in una stella in eruzione è stato studiato in tre dimensioni.
Gli astronomi hanno studiato gli echi di luce da altre novae, ma quei fenomeni di materiale interstellare illuminato attorno alle stelle invece di materiale espulso da loro.
Il team ha utilizzato anche l'eco di luce per raffinare le stime della nova distanza dalla Terra. La nuova distanza è di 15.600 anni luce. Le stime precedenti erano comprese tra i 6.500 e i 16.000 anni luce.

T Pisside si trova nella costellazione Pyxis meridionali, o la bussola del Mariner.
Il team sta continuando ad analizzare i dati di Hubble per sviluppare un modello di deflusso. T Pisside ha una storia di esplosioni nota.
Oltre l'evento d 2011, altre eruzioni note precedenti si verificarono nel 1890, 1902, 1920, 1944 e 1966.

Gli astronomi chiamano'eruzione delle stelle "novae", dal latino "nuovo", perché appaiono improvvisamente nel cielo. Una nova comincia a svanire in alcuni giorni o settimane, mentre l'idrogeno si esaurisce e sfugge nello spazio.

Il team comprende anche Helena Uthas della Columbia University. I risultati del team sono stati pubblicati il 5 giugno online e saranno pubblicati su carta il 20 Giugno 2013 sull'Astrophysical Journal Letters. Sokoloski è l'autore principale del documento.

Foto in alto
Il doppio sistema di stelle T Pyxidis, o T Pisside, nel corso di un periodo di quattro mesi.
NASA, ESA, A. Crotts, J. Sokoloski, e H. Uthas (Columbia University), e S. Lorenzo (Hofstra University))

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2013/06/130604121511.htm

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lunedì 3 giugno 2013

Weinberg: Online Nasce Una Nuova Cultura





David Weinberger è uno dei maggiori studiosi dell'impatto della Rete e della network society sulla cultura e la conoscenza. Il Cluetrain Manifesto, di cui Weinberger è stato uno dei firmatari, ha influenzato nel profondo la Internet culture. Nel suo talk al Wired Next Fest, Weinberger ha parlato, seguendo il filo conduttore che lega il suo ultimo libro Too Big To Know, delle caratteristiche che la conoscenza assume nel passaggio dal mondo offline della carta a quello connesso e networked della Rete.

"Tendiamo a collegare la conoscenza ai libri perché siamo stati abituati a dare alla conoscenza la forma dei libri", ha esordito Weinberger parlando alla platea del festival di Wired. Ma i libri, per loro stessa definizione, hanno limiti, sono la produzione di una mente unica e generano conseguentemente una cultura filtrata dalle scelte editoriali degli autori, degli editori e delle elite che essi rappresentano. E una volta pubblicata su carta, la conoscenza non può più essere modificata.

Questo paradigma, secondo David Weinberger, è stato completamente stravolto dall'approdo della Rete che "ha dato alla conoscenza la forma della Rete", donandole anche una forma più vicina alla sua natura. La networked knowledge, trasmessa dalla Rete, è connessa, costruita sui link ed è, a tutti gli effetti, un network. "I link", ha aggiunto Weinberger, "contrariamente alle pagine di un libro, non hanno fine né limiti". Contrariamente ai limiti imposti dalle autorità del mondo della carta, inoltre, la networked knowledge è un "costante disaccordo" ed è fondata su "un dibattito costante" che la rende automaticamente più credibile, proprio perché fallibile. E la conoscenza, attraverso il network, diventa più solida proprio quando riconosce i suoi propri errori. Inoltre, ha concluso Weinberger nel descrivere le caratteristiche della conoscenza in Rete, un'altra novità è il sense of humour, mutuato, ancora una volta dalla cultura della Rete. Secondo Weinberger, questi cambiamenti radicali sono del medium con cui approcciamo la cultura che, come conseguenza di questo mutamento, si è resa più "umana e naturale della conoscenza tradizionalmente intesa".

La visione di Weinberger, però, non è utopica e lo studioso riconosce alcuni problemi che emergono anche in questo scenario per via della natura umana. Nonostante la netta democraticizzazione della conoscenza emersa grazie alla Rete, sarebbe sbagliato pensare che non esistano più, per esempio, concentrazioni di potere e di sapere: "alcuni siti Web hanno un numero enorme di clic, mentre una vasta maggioranza di altri domini ne hanno pochissimi", ha precisato Weinberger. Inoltre, online, la cultura spesso perde il suo contesto originario: basti pensare a un tweet che può essere ritwittato in un altro contesto o da un altro autore, perdendo la sua originale significanza. Inoltre, online, spesso tendiamo a sovrastimare i contenuti o la portata delle notizie. E infine, in Rete, tendiamo a polarizzarci attorno alle opinioni e alle credenze con cui siamo già d'accordo, rifiutando l'incontro con altre posizioni. E siamo conformisti, ha spiegato Weinberger.

Per lo studioso di Harvard, questi limiti della networked knowledge non sono nuovi e nascono ben prima e, come abbiamo visto, fanno parte della natura umana. "Sì, spesso online la conoscenza perde il suo contesto", ha spiegato Weinberger, ma "credere in qualcosa solo per buon senso ha sempre portato a ingiustizie", anche offline. "La Rete, inoltre, non è mai perfettamente equa, ma è meno centralizzata di qualsiasi altro medium abbiamo mai conosciuto" ha puntualizzato Weinberger. E se anche in Rete è presente senza dubbio la tendenza all'esagerazione, non si può certo dire che i giornali di carta non abbiano questa caratteristica. E se si pensa alla polarizzazione delle opinioni, i media tradizionali - il calzantissimo esempio usato da Weinberger è stato Fox News - hanno sempre creato "casse di risonanza di opinioni", molto più che i new media.

Ma questi limiti, in Internet, possono essere aggirati molto più facilmente: se qualche contenuto perde contestualizzazione, possiamo sempre ricostruirlo affinando le ricerche; e se abbiamo online grandi concentrazioni, abbiamo anche la coda lunga dei contenuti; se qualche contenuto viene sopravvalutato, abbiamo strumenti - come Snopes - per fare fact-checking e, infine, se la polarizzazione delle opinioni sono certamente un problema è altrettanto vero che su Internet abbiamo la possibilità di discutere apertamente e in pieno rispetto come mai prima.

"Ci sono problemi che persistono anche quando la tecnologia della conoscenza cambia", ha aggiunto Weinberger, "ma questo avviene perché questi non sono problemi tecnologici, ma umani" per i quali servono soluzioni umane. Per superarli, dobbiamo acettare la nostra responsabilità nei confronti della conoscenza, essere sempre più partecipi e coinvolti e difendere apertamente i fondamenti che la reggono, facendoli sempre più nostri. Fondamentale è riconoscere il "ruolo umano" presente nella conoscenza. Online, possiamo costruire la conoscenza insieme. Online, la conoscenza, nonostante tutti i limiti esposti, "è davvero nostra".

Fonte:
http://wired.it/daily/news/internet/2013/06/01/weinberger-wired-next-fest-53259.html

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Hubble Mostra La Collisione di due Galassie!





Una nuova immagine dal telescopio spaziale Hubble della NASA / ESA coglie una collisione cosmica in corso tra due galassie, una galassia a spirale è in procinto di entrare in collisione con una galassia lenticolare.

La collisione sembra quasi come esplodere fuori dello schermo in 3-D, con parti delle braccia a spirale chiaramente che abbracciano il rigonfiamento della galassia lenticolare.

L'immagine rivela anche un'ulteriore prova della collisione. C'è un flusso luminoso di stelle che fuoriescono dalle galassie in fusione, estendendosi verso la parte superiore dell'immagine. Il punto luminoso al centro del pennacchio, noto come ESO 576-69 è ciò che rende unica questa immagine. Questo punto è ritenuto il nucleo della ex galassia a spirale, che è stato espulso dal sistema durante la collisione e ora viene triturato dalle forze di marea per produrre la corrente stellare visibile.

Traduzione A cura di Arthur McPaul

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2013/06/130601123954.htm

Foto:
Galassia a spirale nel processo di collisione con una galassia lenticolare. (Credit: ESA / Hubble & NASA, conferma: Luca Limatola)

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domenica 2 giugno 2013

Tempeste Su Titano





Due modelli al computer appena pubblicati sulla rivista Icarus cercano di prevedere l'evoluzione del tempo sul più grande satellite di Saturno, dove sta arrivando l'estate sull'emisfero nord. Previste grandi onde sui mari e veri e propri uragani. Entrambi i modelli basati su dati di Cassini.

Se è difficile il mestiere dei meteorologi sulla Terra (chi l’aveva prevista, la gelida tarda primavera di quest’anno?) figuratevi quello di chi cerca di prevedere il tempo su Titano, la più grande delle lune di Saturno. Eppure c’è chi ci prova, e se due modelli al computer sviluppati dal team della missione Cassini sono corretti, la stagione estiva che si sta avvicinando su Titano porterà eventi estremi: uragani e grandi onde spazzeranno i suoi mari di idrocarburi. I modelli servono a programmare meglio il lavoro di Cassini, permettendogli di concentrarsi con un po’ di preavviso su fenomeni atmosferici particolarmente interessanti. “Sappiamo che su Titano ci sono processi atmosferici simili a quelli terrestri”, spiega Scott Eddington, deputy project scientist di Cassini alla NASA, “ma ci sono anche grandi differenze dovute alla presenza di liquidi insoliti come il metano. Non vediamo l’ora di scoprire se le nostre previsioni si riveleranno esatte.

Sulla parte nord di Titano sta iniziando la primavera: dall’agosto del 2009, data dell’equinozio, questa regione, che era al buio quando la sonda Cassini iniziò a studiarla, riceve la luce del Sole. Le stagioni di Titano prendono circa sette anni terrestri. Entro il 2017, data della fine della missione Cassini, Titano arriverà al solstizio settentrionale, e l’emisfero nord sarà quindi in piena estate.

Vista la quantità di dune osservate su Titano, gli scienziati si chiedevano perché non avessero ancora visto onde spinte dal vento sui suoi laghi e mari. Un team guidato da Alex Hayes, membro del team radar di Cassini, ha provato a spiegare quanto vento sarebbe necessario per generare onde. Il loro modello è stato appena pubblicato sulla rivista Icarus. “Ora sappiamo che le velocità del vento finora erano al di sotto della soglia necessaria per generare onde”, ha detto Hayes. “Quello che è emozionante, però, è che la velocità del vento prevista durante la primavera e l’estate del nord si avvicinano a quelle necessarie per generare onde eoliche nell’etano liquido e nel metano”.

Il nuovo modello dice che venti da 2-3 chilometri all’ora sono necessari per generare onde sui laghi di Titano, una velocità che non è ancora stato raggiunta da quando Cassini studia il pianetino. Ma ora che sull’emisfero nord si avvicinano la primavera e l’estate, altri modelli predicono che i venti arrivare a 3 chilometri all’ora o più. A seconda della composizione dei laghi, quei venti potrebbero produrre onde da 0,15 metri di altezza in su.

L’altro modello è dedicato agli uragani, ed è sempre pubblicato su Icarus. Prevede che il riscaldamento dell’emisfero nord potrebbe produrre anche uragani, simili ai cicloni tropicali che sulla Terra traggono energia dall’accumulo di calore derivato dall’evaporazione dell’acqua di mare. Il lavoro di Tetsuya Tokano dell’Università di Colonia, in Germania, dimostra che gli stessi processi potrebbe essere al lavoro su Titano, con il metano al posto dell’acqua. Il periodo più propizio per questi uragani sarebbe il solstizio d’estate settentrionale di Titano, quando la superficie dei mari diventa più calda e il flusso di aria vicino alla superficie diventa turbolento. L’aria umida, girando in senso antiorario sulla superficie di uno dei mari del nord, potrebbe produrre venti fino a circa 70 chilometri all’ora.

Per saperne di più:
Leggi lo studio su The Astrophysical Journal: The Lyman Alpha Reference Sampe: extended Lyman Alpha halos produced at low dust content, di Matthew Hayes e al.

A cura di Nicola Nosengo

Fonte:
http://www.media.inaf.it/2013/05/24/tempeste-in-arrivo-su-titano/

Foto:
Il mare Lygeria, il secondo più grande su Titano, ripreso da Cassini (NASA/JPL-Caltech/ASI/Cornell)

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Quante TAC per andare su Marte?





Raggi cosmici e particelle energetiche solari. Un brodo di microscopici proiettili che popolano lo spazio e con le loro elevate energie possono attraversare pressoché indisturbati anche gli scafi più spessi delle navicelle spaziali, creando danni ai tessuti biologici degli astronauti al loro interno. Uno studio pubblicato online sulla rivista Science presenta i dati raccolti dallo strumento RAD a bordo del rover Curiosity della NASA che ha monitorato queste particelle nel suo lungo viaggio dalla Terra a Marte, indicando che, per un futuro equipaggio umano verso il Pianeta rosso, questo tragitto non sarà privo di rischi.

Quando andremo finalmente su Marte? Difficile ancora dirlo. Di sicuro però c’è la lunga durata della missione per portare un equipaggio umano sul Pianeta rosso, rimanere per una breve esplorazione e ritornare. Le stime indicano che il tutto possa svolgersi nell’arco più o meno di un anno. Quasi quattrocento giorni in cui i temerari astronauti si troveranno lontanissimi dalla Terra ma saranno soprattutto orfani dei suoi preziosissimi ‘ombrelli’ naturali, ovvero l’atmosfera e la magnetosfera, che ci proteggono con grande efficienza da invisibili quanto pericolosi nemici. Sono le particelle di alta e altissima energia, prodotte ad esempio dalle esplosioni di supernova o da getti emessi dai buchi neri nella nostra Galassia (i raggi cosmici galattci o GCR, acronimo di Galactic Cosmic Rays), ma anche – guardando nel nostro vicinato – protoni, neutroni, elettroni e nuclei atomici ‘sparati’ dal Sole (i cosiddetti SEP, dall’inglese Solar Energetic Particles) soprattutto durante i periodi di massima attività della nostra stella.

Un brodo di proiettili invisibili che scorrazzano nello spazio interplanetario e che possono facilmente penetrare anche gli scafi più robusti delle navette spaziali, creando seri problemi a chi le abita.
Sono noti infatti gli effetti dannosi di queste particelle sui tessuti biologici che, cumulandosi, possono innalzare in modo sensibile il rischio di contrarre forme letali di cancro.

Per questo, progettando una missione umana su Marte, è molto importante conoscere quanto e di che tipo saranno i pericoli per l’incolumità della salute dei futuri viaggiatori spaziali. Un importante passo avanti in questo senso arriva dalla missione Mars Science Laboratory della NASA, per capirci quella che ha rilasciato il 6 agosto scorso il rover Curiosity sulla superficie di Marte. Tra i vari strumenti a bordo del robot semovente c’è quello che prende il nome di RAD, ovvero Radiation Assessment Detector. Un vero e proprio laboratorio miniaturizzato per monitorare in dettaglio le particelle presenti nell’ambiente dove si trova il rover, registrandone il flusso, il tipo e la loro energia. RAD è stato quasi sempre acceso durante il lungo viaggio di Curiosity dalla Terra a Marte, raccogliendo così informazioni molto accurate sulle radiazioni assorbite dal veicolo.

“Parlando di dosi accumulate in tutto il viaggio, possiamo equiparare le radiazioni che hanno investito RAD a quella di una TAC su tutto il corpo di un essere umano ogni cinque o sei giorni” spiega Cary Zetlin, del South West Research Institute nel Texas, dove è stato realizzato e viene monitorato RAD, nonché primo autore di un articolo sull’analisi dei dati raccolti dallo strumento pubblicato online sulla rivista Science. “Avere un quadro completo delle radiazioni presenti a bordo di un veicolo spaziale in rotta verso Marte è fondamentale nella programmazione di una missione umana verso il Pianeta rosso. Le misure di RAD indicano una dose giornaliera di radiazioni assorbite durante il viaggio pari a circa 1.8 milliSievert. Questo porterebbe a un valore complessivo di circa 0,66 Sievert per un viaggio di andata e ritorno da Marte con le tecniche di propulsione attuali, a cui andrebbe aggiunta la dose accumulata dagli astronauti nel loro periodo di permanenza e attività sulla superficie del pianeta.

Il valore totale non dovrà però superare quello di un Sievert, che secondo gli standard di sicurezza di molte Agenzie Spaziali è il limite massimo di radiazioni che un astronauta può assorbire senza rischiare un aumento significativo di problemi biologici”.

A cura di Marco Galliano

Fonte:
http://www.media.inaf.it/2013/05/30/quante-tac-per-un-viaggio-su-marte//

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Le Masse Nascoste Della Luna





Usando i dati della missione NASA Grail, i ricercatori sono riusciti a mappare con grande precisioni le anomale concentrazioni di massa sotto la superficie lunare che alterano il campo gravitazionale del satellite. Una nuova missione sulla Luna potrebbe ora navigare con maggiore precisione e meno rischi.

Per i ricercatori era una specie di mistero. Per i satelliti che orbitano attorno alla Luna, o gli astronauti che in futuro dovessero tornarci, era persino un pericolo. Grandi e anomale concentrazioni di massa che si annidano invisibili sotto la superficie lunare, che alterano bruscamente il campo gravitazionale e possono tirare o spingere fuori rotta un veicolo spaziale di passaggio.

Il “mistero” delle mascon (contrazione delle parole inglesi mass e concetration), scoperto dalle prime missioni Apollo, è stato ora risolto da un team di scienziati guidati dall’Università Purdue come parte della missione GRAIL della NASA.

“Nel 1968 le concentrazioni di massa sono state una scoperta sgradita, e sono rimaste un mistero da allora”, ha detto Jay Melosh, un membro del Gravity Recovery and Interior Laboratory, o GRAIL, team scientifico che ha condotto la ricerca. “GRAIL ha mappato tutte le concentrazioni di massa lunari, e abbiamo anche una migliore comprensione di come si sono sviluppate. Se dovessimo tornare sulla luna, potremmo ora navigare con grande precisione.”

Una migliore comprensione di queste caratteristiche aggiunge anche indizi sull’origine della Luna e sulla sua evoluzione e sarà utile nello studio di altri pianeti, in quanto sappiamo che analoghe concentrazioni di massa sono presenti anche su Marte e Mercurio.

Il team ha confermato pienamente la teoria che le concentrazioni di massa sono state causate da impatti di enormi asteroidi avvenuti miliardi di anni fa e che questi impatti hanno cambiato la densità del materiale sulla superficie della luna, e il suo campo di gravità. Lo studio è pubblicato sulla rivista Science.

“Ora sappiamo che la luna in passato era molto più calda di quanto lo sia ora e che la crosta era più sottile di quanto pensassimo”, ha detto Melosh. “Per la prima volta siamo in grado di capire le dimensioni degli asteroidi che hanno colpito la luna, cercando bacini lasciati dagli impatti. Ora abbiamo gli strumenti per capire di più sul pesante bombardamento di asteroidi avvenuto sulla Luna e ciò che la Terra avrebbe potuto avere di fronte. ”

Le concentrazioni di massa hanno tipicamente una forma simile ad un bersaglio, con un eccesso di gravità nel centro, circondato da un anello di deficit di gravità e da un anello esterno ancora di eccesso. Il team ha scoperto che questo pattern è la naturale conseguenza della sequenza di scavo del cratere, crollo e raffreddamento a seguito di un impatto.

Il team ha spiegato che l’aumento di densità di massa e di forza gravitazionale nel centro è causato dal materiale lunare sciolto a causa del calore emanato dall’impatto dell’asteroide. La fusione ha fatto sì che il materiale diventasse più forte e più denso, attirando a sé materiale aggiuntivo dalle zone circostanti.

Il team ha analizzato i bacini delle concentrazioni di massa Freundlich-Sharanov e Humorum. Utilizzando il set di dati GRAIL, che offre una mappa dettagliata della distribuzione delle masse nella luna senza precedenti. Durante le loro missioni, le due sonde GRAIL hanno trasmesso segnali radio che indicano con precisione le minime variazioni nella distanza tra le due sonde, a sua volta legata alla maggiore o minore gravità delle zone che stavano sorvolando. Gli scienziati di GRAIL stanno utilizzando questi dati per ottenere informazioni dettagliate sulla struttura interna della Luna e sulla sua composizione.

A cura di Antonio Marro

Fonte:
http://www.media.inaf.it/2013/05/30/le-masse-nascoste-della-luna/

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