sabato 28 dicembre 2013

Stephen Hawking: Viaggi Spazio Temporali


La straordinaria mente di Stephen Hawking accompagna lo spettatore in un fantastico viaggio alla scoperta dei misteri dell’universo per dare risposta a una le più grandi domande che appassionano l’intero mondo scientifico. È possibile viaggiare nel tempo? Hawking analizza i traguardi sin qui raggiunti dalla scienza e prende in esame i diversi elementi della dimensione spazio-temporale per spiegarne le caratteristiche e ipotizzare le conseguenze di un viaggio nel tempo.

A cura di Arthur McPaul

Fonte:
Youtube.it










Scoperte Nane Brune Vicino al nostro Sole



Gli astronomi hanno individuato i segni di un possibile pianeta extrasolare in un sistema di stelle gemelle fallite. Se confermato, il mondo alieno sarebbe uno dei più vicini al nostro Sole mai trovato.

Gli scienziati hanno scoperto la coppia di nane brune, lo scorso anno a soli 6,6 anni luce dalla Terra, la coppia è il terzo sistema più vicino al nostro Sole.
In realtà è così vicino che "le trasmissioni televisive del 2006 stanno ormai arrivando", ha detto Kevin Luhman, del Centro di Penn State per i Pianeti extrasolari e i Mondi Abitabili, quando ha annunciato la loro scoperta nel mese di giugno.

Il sistema di nane brune, soprannominato da Luhman 16AB ed è ufficialmente classificato come WISE J104915.57-531906, ed è leggermente più distante della stella di Barnard, una nana rossa posta a 6 anni-luce di distanza, scoperta nel 1916. Ancora più vicino al nostro Sole c'é il sistema di Alpha Centauri, le cui due stelle principali formano un sistema binario posto a circa 4,4 anni luce di distanza. Il pianeta Alpha Centauri Bb in orbita ad una delle stelle nel sistema di Alpha Centauri, detiene attualmente il titolo di più vicino pianeta extrasolare al nostro sistema solare.

Le nane brune sono state avvistate nei dati di Wide-field Infrared Survey Explorer della NASA (WISE), che ha trasmesso a terra circa 1,8 milioni di immagini di asteroidi, stelle e galassie nel corso della sua ambiziosa missione di 13 mesi per scansionare l'intero cielo.

Henri Boffin dell'Osservatorio europeo meridionale (ESO) ha guidato un team di astronomi che cercano di saperne di più sui nostri vicini. Il gruppo ha utilizzato il sensibile strumento FORS2 montato sul Very Large Telescope dell'ESO al Paranal in Cile per prendere le misure astrometriche degli oggetti durante una campagna di osservazione di due mesi da aprile a giugno 2013. (L'astrometria comporta il monitoraggio dei movimenti precisi di una stella nel cielo.)





Questo diagramma illustra le posizioni dei sistemi stellari più vicini al Sole e gli anni della loro scoperta. Il sistema binario WISE J104915.57-531906 è il terzo sistema più vicino al Sole e il più vicino trovato in un secolo.

"Siamo stati in grado di misurare le posizioni di questi due oggetti con una precisione di pochi milli-secondi d'arco", ha detto Boffin in un comunicato. "È come una persona a Parigi in grado di misurare la posizione di qualcuno a New York con una precisione di 10 centimetri".

Il team ha scoperto che entrambe le nane brune hanno una massa dalle 30 alle 50 volte la massa di Giove. (A titolo di confronto, la massa del nostro Sole è di circa 1.000 masse di Giove.) Poiché la loro massa è così bassa, richiedono circa 20 anni per completare un'orbita intorno all'altra, gli astronomi hanno detto.
Il team di Boffin ha anche scoperto lievi perturbazioni nelle orbite di questi oggetti durante il loro periodo di osservazione di due mesi. Essi ritengono che un terzo oggetto, forse un pianeta attorno ad una delle due nane brune, potrebbe essere dietro a queste lievi variazioni.

"Ulteriori osservazioni sono necessarie per confermare l'esistenza di un pianeta", ha detto Boffin in un comunicato. "Il sistema potrebbe anche essere triplo!".

Finora, solo otto pianeti extrasolari sono stati scoperti intorno a nane brune, attraverso la microlensing e le imaging dirette. Il team ha aggiunto che il potenziale pianeta Luhman 16AB potrebbe essere il primo pianeta alieno scoperto tramite l'astrometria, se confermato.

La ricerca è stata pubblicata sulla rivista Astronomy and Astrophysics. È disponibile on-line sul sito Arxiv.

A cura di Arthur McPaul

Fonte:
http://space.com/23985-alien-planet-nearby-brown-dwarfs.html

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sabato 14 dicembre 2013

Su Europa Hubble Scopre Getti d'Acqua



L'Hubble Space Telescope della NASA ha rilevato vapore acqueo sopra la gelida regione polare a sud della luna di Giove, Europa, fornendo la prima forte evidenza di pennacchi d'acqua in eruzione dalla sua superficie.

I risultati scientifici precedenti da altre fonti avevano già indicato l'esistenza di un oceano sotto la crosta ghiacciata di Europa. I ricercatori non sono ancora completamente certi che il vapore acqueo rilevato venga generato dall'eruzione di pennacchi di acqua sulla superficie, ma sono sicuri che questa sia la spiegazione più probabile.

In mancanza di osservazioni che supportano altre conclusioni, questo renderebbe Europa la seconda luna del Sistema Solare nota ad avere pennacchi di vapore acqueo. I risultati sono stati pubblicati nel numero online del 12 dicembre di Science Express, riferito alla riunione dell'American Geophysical Union a San Francisco.

"Di gran lunga la spiegazione più semplice per questo vapore acqueo è che erutti dalla sulla superficie di Europa, dai pennacchi", ha detto l'autore Lorenz Roth del Southwest Research Institute di San Antonio. "Se i pennacchi fossero collegati con l'acqua sotto la sua superfice, allora questo significa che le indagini future potranno indagare direttamente la composizione chimica dell'ambiente potenzialmente abitabile di Europa senza forare attraverso profondi km di strato di ghiaccio. Ed è tremendamente eccitante".

Nel 2005, l'obiter Cassini della NASA ha rilevato dei getti di vapore acqueo e polveri che fuoriescivano dalla superficie della luna di Saturno Encelado. Anche se le particelle di ghiaccio e polvere sono state successivamente trovati su Encelado, su Europa sono stati rilevati solo vapore acqueo.

Le osservazioni spettroscopiche di Hubble hanno fornito la prova dei pennacchi su Europa, nel dicembre del 2012. Il campionamento delle emissioni aurorali di Europa misurato dalle imaging spettrografiche di Hubble, ha permesso ai ricercatori di distinguere tra le caratteristiche create, le particelle cariche emesse dalla superficie magnetica di Giove, ed escludere spiegazioni più esotiche come un raro impatto meteorico.

Lo spettrografo di imaging ha rilevato la debole luce ultravioletta da un'aurora, alimentata da un intenso campo magnetico di Giove, vicino al polo sud lunare. L'ossigeno atomico e l'idrogeno producono un bagliore aurorale variabile e lasciano un segno rivelatore che sono i prodotti di molecole d'acqua, divisi da elettroni lungo le linee del campo magnetico.
"Abbiamo spinto l'Hubble al limite, per vedere queste deboli emissioni. Questi potrebbero essere i pennacchi in azione, poiché potrebbero essere tenui e difficili da osservare nella luce visibile", ha detto Joachim Saur dell'Università di Colonia, in Germania. Saur, è ricercatore principale della campagna di osservazione di Hubble e co-autore di Roth.

Roth ha suggerito che lunghe crepe sulla superficie di Europa, note come lineae, potrebbero essere la causa dello sfiato del vapore acqueo nello spazio. Cassini ha osservato fessure simili che generano i getti di Encelado.
Anche il team di Hubble ha scoperto che l'intensità dei pennacchi di Europa, come quelli di Encelado, variano con la posizione orbitale di Europa. Dei getti attivi sono stati visti solo quando la luna era lontana da Giove. I ricercatori non hanno rilevato alcun segno di sfogo quando imvece essa era più vicino.
Una spiegazione per la variabilità è che queste lineae vengano sottoposte ad un intenso stress e maree gravitazionali, che spingono e stirano la superficie sulla luna fino ad aprire le crepe a grandi distanze da Giove. Esse sono invece chiuse quando la luna è più vicina al gigante gassoso.

I pennacchi di Europa ed Encelado hanno abbondanze molto simili di vapore acqueo. Poiché Europa subisce un ha attrazione gravitazionale ben 12 volte maggiore rispetto ad Encelado, il vapore (a meno-40 gradi Celsius) per la maggior parte non sfugge nello spazio come su Encelado, ma ricade indietro sulla superficie dopo aver raggiunto un'altitudine di 201 km, secondo le misure Hubble. Questo potrebbe lasciare caratteristiche superficiali luminose vicino alla regione polare sud della luna.

"Se confermata, questa nuova osservazione, ancora una volta mostra la potenza del telescopio spaziale Hubble e apre un nuovo capitolo nella nostra ricerca di ambienti potenzialmente abitabili nel nostro Sistema Solare", ha dichiarato John Grunsfeld, un astronauta che ha partecipato alle missioni di manutenzione di Hubble e ora è amministratore associato della NASA per la scienza a Washington. "Lo sforzo e il rischio che abbiamo intrapreso per aggiornare e riparare Hubble ripaga proprio con scoperte come queste".

Traduzione a cura di Arthur McPaul

Foto in alto:
Rappresentazione artistica dei getti di acqua su Europa scoperti grazie alle immagini del telescopio spaziale Hubble. Credit NASA/ESA


Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2013/12/131212113349.htm

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sabato 7 dicembre 2013

Un Sistema Planetario Anomalo Pone Nuovi Quesiti Ai Ricercatori



La scoperta di un pianeta gigante in orbita attorno alla sua stella a 650 volte la distanza media Terra-Sole ha lasciato gli astronomi perplessi su come si possa essere formato.

Un team internazionale di astronomi della University of Arizona hanno scoperto un pianeta extrasolare 11 volte la massa di Giove che orbita intorno alla sua stella a 650 volte la distanza media Terra-Sole.
Chiamato HD 106906 b è diverso da qualsiasi altro oggetto nel nostro Sistema Solare.
"Questo sistema è particolarmente affascinante perché nessun modello di una pianeta o formazione stellare puó spiegarlo", ha detto Vanessa Bailey, che ha guidato la ricerca.

Si pensa che i pianeti vicini alle loro stelle, come la Terra, si fondono da piccoli planetesimi nati nel disco primordiale di gas e polveri che circonda una stella in formazione. Tuttavia, questo processo agisce troppo lentamente per far crescere i pianeti giganti lontano dalla loro stella. Un altro meccanismo proposto è che i pianeti giganti si possano formare da un rapido collasso diretto di materiale del disco. Tuttavia, i dischi primordiali raramente contengono una massa sufficiente nei tratti esterni per consentire ad un pianeta come HD 106906 b di formarsi. Diverse ipotesi alternative sono state avanzate, tra cui la formazione di un mini sistema stellare binario.
"Un sistema binario può formarsi quando due ciuffi adiacenti di gas collassano più o meno indipendentemente per formare stelle abbastanza vicine per esercitare un'attrazione gravitazione reciproca e legarle insieme in una orbita" spiegato Bailey.

"È possibile che, nel caso del sistema di HD 106906 la stella e il pianeta collassano indipendentemente dai ciuffi di gas, ma per qualche motivo un ciuffo progenitore del pianeta era affamato di materiale e non è mai cresciuto abbastanza per accendersi e diventare una stella".
Secondo Bailey, il problema relativo a questo scenario è che il rapporto di massa delle due stelle in un sistema binario è tipicamente non più di 10 a 1.
"Nel nostro caso, il rapporto di massa è superiore di 100 a 1," ha spiegato. "Questo rapporto di massa estrema, non è previsto dalle teorie di formazione di stelle binarie, proprio come la teoria della formazione dei pianeti prevede che non si possano formare pianeti così lontani dalla stella ospite".

Questo sistema è inoltre di particolare interesse, perché i ricercatori possono ancora rilevare il residuo "disco di detriti" del materiale lasciato dal pianeta e dalla formazione stellare.
"Sistemi come questo, dove abbiamo ulteriori informazioni sull'ambiente in cui il pianeta si trova, hanno il potenziale di aiutarci a distinguere i vari modelli di formazione", ha aggiunto Bailey. "Future osservazioni del moto orbitale del pianeta e del disco di detriti della stella primaria potranno aiutarci a rispondere a questa domanda".

A soli 13 milioni di anni, questo giovane pianeta brilla ancora dal calore residuo della sua formazione. Perché con i suoi 2.700 gradi Fahrenheit (circa 1.500 gradi Celsius) il pianeta è molto più fresco rispetto alla sua stella ospite, emette la maggior parte della sua energia negli infrarossi piuttosto che nella luce visibile.
La Terra a confronto, si è formata 4,5 miliardi anni fa ed è quindi circa 350 volte più vecchia di HD 106906 b.

Le osservazioni con le imaging dirette richiedono immagini squisitamente nitide, simili a quelle fornite dal telescopio spaziale Hubble. Per raggiungere questa risoluzione della Terra è richiesta una tecnologia chiamata Adaptive Optics, o AO. Il team ha utilizzato i nuovi Magellan Adaptive Optics System (Magao) e la fotocamera dell'infrarosso termico Clio2, entrambe sviluppate presso l'UA e montate su un telescopio Magellan da 6,5 metri, nel deserto di Atacama in Cile.

Il prof. Laird Chiudi ha detto: "Magao era in grado di utilizzare la sua speciale Adaptive camera, con 585 attuatori, ogni movimento 1.000 volte al secondo, per eliminare la sfocatura dell'atmosfera. La correzione atmosferica ha consentito l'individuazione del debole calore emesso da questo esopianeta senza confusione dalla stella madre più calda".

"Clio è stato ottimizzato per le lunghezze d'onda infrarosse termiche, in cui i pianeti giganti sono più brillanti rispetto alle loro stelle di accoglienza, il che significa che i pianeti vengono più facilmente impressi a queste lunghezze d'onda", ha spiegato il prof. Philip Hinz, che dirige il Centro di UA per le Astronomicol Adaptive Optics.

Il team è stato in grado di confermare che il pianeta si sta muovendo insieme alla sua stella ospite, confutandoli con i dati del telescopio spaziale Hubble otto anni prima per un altro programma di ricerca. Utilizzando lo spettrografo FIRE, anch'esso installato sul telescopio Magellan, il team ha confermato la natura planetaria del compagno. "Le immagini ci hanno confermato la sua presenza e alcune informazioni sulle sue proprietà, ma solo uno spettro ci dà informazioni dettagliate sulla natura e composizione", ha spiegato il co-ricercatore Megan Reiter, presso il Dipartimento di Astronomia UA. "Tali informazioni dettagliate, raramente sono disponibile per pianeti extrasolari direttamente impressionate, rendendo HD 106906 un obiettivo prezioso per lo studio futuro".
"Ogni nuovo pianeta rilevato direttamente spinge la nostra comprensione di come e dove i pianeti si possono formare," ha detto il co-ricercatore Tiffany Meshkat, uno studente laureato presso il Leiden Observatory, nei Paesi Bassi. "Questa scoperta è particolarmente emozionante perché il pianeta è in orbita così lontano dalla sua stella madre. Questo porta a molte domande intriganti sulla sua storia di formazione e sulla composizione. Scoperte come HD 106906 b ci forniscono una comprensione più profonda della diversità degli altri sistemi planetari".

Il documento di ricerca, A Planetary-mass Companion Outside a Massive Debris Disk è stato accettato per la pubblicazione su The Astrophysical Journal Letters e apparirà in un prossimo numero.
lo sviluppo di Magao è stato finanziato dal programma principale Research Instrumentation del National Science Foundation, e il suo programma Telescope System Instrumentation Program and an Advanced Technologies and Instrumentation Award.

I membri del team scoperta sono Vanessa Bailey (UA), Tiffany Meshkat (Leiden Observatory [LO]), Megan Reiter (UA), Katie Morzinski (UA), Jared Maschi (UA), Kate YL Su (UA), Philip M . Hinz (UA), Matthew Kenworthy (LO), Daniel Stark (UA), Eric Mamajek (University of Rochester), Runa Briguglio (Arcetri Observatory [AO]), Laird M. Chiudi (UA), Katherine B. Follette (UA ), Alfio Puglisi (AO), Timothy Rodigas (UA, Carnegie Institute di Washington [CIW]), Alycia J. Weinberger (CIW), e Marco Xompero (AO).

Traduzione a cura di Arthur McPaul

Foto in alto:
Rappresentazione artistica del sistema planetario HD106906 (Credit: NASA/JPL-Caltech)


Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2013/12/131205141629.htm

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mercoledì 4 dicembre 2013

Lucchetti Quantistici sul Ponte di Einstein-Rosen



L’entanglement fra particelle e i cosiddetti ‘wormholes’, gli ipotetici tunnel spazio-temporali che unirebbero zone remote dell’universo, potrebbero essere diverse manifestazioni di un’identica realtà fisica. L’ipotesi su Physical Review Letters.

Cos’hanno in comune un fenomeno come l’entanglement quantistico, con i suoi bizzarri legami fra particelle gemelle, ed entità come i wormholes, le ipotetiche scorciatoie fra coppie di buchi neri ottenute scavando profondi cunicoli nelle viscere dello spazio-tempo? È tutta roba esotica, incomprensibile e contro-intuitiva, d’accordo. Almeno per la maggior parte di noi mortali.

Possiamo fare di meglio? Bhé, anzitutto non è difficile notare che in entrambi i casi si tratta di collegamenti: fra infinitesimali particelle nel caso dell’entanglement e fra smisurati buchi neri in quello dei cunicoli spazio-temporali (chiamati, non a caso, “ponti di Einstein-Rosen”), ma pur sempre collegamenti.

Reciclando poi qualche nozione dai fumetti e dal cinema di fantascienza, possiamo azzardare un passo ulteriore: in entrambi i casi si tratta di collegamenti lungo i quali non vige alcun limite di velocità, in quanto teoricamente in grado d’aggirare quell’antipatico vincolo dei 300 mila km/s che sempre ci riporta alla realtà ogni qual volta proviamo a sognare di trasferirci su un altro mondo.

Per avventurarsi in sicurezza al livello superiore, però, similitudini e metafore stradali non bastano più. Occorre armarsi di solidi strumenti matematici. Come hanno fatto < b>Kristan Jensen (University of Victoria, Canada), Andreas Karch (University of Washington, USA) e < b>Julian Sonner (MIT) – i primi due in coppia, il terzo in solitaria – con due studi pubblicati entrambi il 20 novembre scorso su Physical Review Letters. Due studi talmente teorici da far venire le vertigini solo a leggerne i titoli (Holographic Dual of an Einstein-Podolsky-Rosen Pair has a Wormhole è quello firmato da Jensen e Karch, Holographic Schwinger Effect and the Geometry of Entanglement, quello di Sonner), ma resi comprensibili a tutti da un ottimo articolo uscito lunedì scorso sul sito web di Science a firma di Katia Moskvitch.

Ricorrendo al cosiddetto “principio olografico”, in base al quale un mondo a n dimensioni può essere rappresentato dal mondo a n-1 dimensioni che ne segna i confini, i tre fisici teorici sono giunti a stabilire una sorta di corrispondenza fra wormholes ed entanglement. Semplificando brutalmente, il fenomeno dell’entanglement quantistico sarebbe una rappresentazione nell’universo a 3D (senza dunque considerare la gravità) di quello che sono i wormholes in un universo a 4D (con la gravità). Insomma, il cunicolo spazio-temporale che unisce una coppia di buchi neri situati agli estremi opposti dell’universo e l’ineffabile stringa che vincola in modo indissolubile le proprietà esibite da una coppia di particelle elementari non sarebbero altro che due facce della stessa medaglia. Una visione, val la pena osservare, che entrerebbe a gamba tesa nell’annosa querelle fra meccanica quantistica e relatività generale.

A rovinare i sogni di chi già s’immagina in viaggio nell’iperspazio verso i mondi di galassie remote, però, oltre alla difficoltà del tradurre in comodi veicoli da turismo spaziale modelli matematici che più eterei non si potrebbe, ci sono due considerazioni che minano il progetto alla base. Partiamo dall’entaglement quantistico: per quanto sia istantaneo, indipendentemente dalla distanza che separa la coppia di particelle, non può essere utilizzato nemmeno per inviare un’informazione elementare come lo stato di spin di una delle due. Questo perché, per definizione, lo si scopre solo nel momento in cui lo si osserva, quello stato, senza che lo si possa imporre. Insomma, il fenomeno è al di là del nostro controllo.

Ma ha un sapore di beffa anche l’ostacolo nel quale ci si andrebbe a imbattere volendo prendere un wormhole come scorciatoia per saltare in men che non si dica da un luogo all’altro dell’iperspazio: il problema, in questo caso, è che mentre è sin troppo facile addentrarsi nel cunicolo dal buco nero d’ingresso, quando si giunge a metà strada, dunque quando dovrebbe cominciare la salita a riveder le stelle, per quanto ci s’impegni l’impresa risulta impossibile. E qui l’allenamento non c’entra: di nuovo, da un buco nero non si esce per definizione.

D’altronde, proprio questa doppia impossibilità per definizione d’impiegare entanglement e wormholes come stratagemmi per aggirare il limite della velocità della luce costituisce un ulteriore punto in comune fra i due fenomeni.

A cura di Marco Malaspina

Fonte:
http://www.media.inaf.it/2013/12/04/entanglement-wormholes/

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La Crescita Esplosiva di una Giovane Stella



Utilizzando il radiotelescopio ALMA, un gruppo di ricerca guidato da ricercatori dell’istituto danese Niels Bohr ha analizzato una protostella nella Via Lattea, scoprendo che in fasi anteriori del suo sviluppo è stata circa cento volte più luminosa di quanto lo sia adesso.

Quella di protostella può essere considerata la fase embrionale nello sviluppo di una stella. Una fase di veloce crescita conseguente al collasso gravitazionale di gigantesche nubi di gas e polvere, un tumultuoso addensamento che precede la vera e propria accensione dell’astro, ovvero l’innesco delle reazioni termonucleari di fusione dell’idrogeno nel nucleo stellare.

Una crescita particolarmente vivace ed esplosiva ha contraddistinto IRAS 15398-3359, una protostella di massa ridotta che si è andata formando negli ultimi 100.000 anni all’interno della Via Lattea. Secondo un gruppo di ricerca a guida danese che l’ha studiata con il radiotelescopio ALMA dell’ESO in Cile, questa giovane stella è stata, nelle fasi iniziali del suo sviluppo, circa 100 volte più luminosa di quanto lo sia adesso. Lo studio è in via di pubblicazione sulla rivista Astrophysical Journal Letters.

“Abbiamo studiato la chimica del gas e della polvere che circondano la protostella”, spiega Jes Jørgensen dell’Istituto Niels Bohr all’Università di Copenaghen, leader della ricerca. “In questa densa nube si svolgono reazioni chimiche che portano alla formazione di varie molecole organiche complesse, compreso il metanolo. Ci aspettiamo di trovare queste molecole vicino alla stella, ma per una di esse abbiamo invece osservato una disposizione ad anello: qualcosa ha rimosso una specifica molecola, HCO+, da una vasta area attorno alla protostella.”

Jørgensen e colleghi ritengono che la scomparsa della molecola HCO+ sia da addebitare al vapore d’acqua, prodotto durante il processo di formazione stellare attraverso il riscaldamento del ghiaccio presente sui granelli di polvere. Seguendo poi le tracce della molecola mancante si possono conoscere i traumi che la stella ha incontrato nella sua crescita.

“Dalle dimensioni dell’area in cui la molecola HCO+ è stata dissolta dal vapore d’acqua possiamo calcolare quanto brillante sia stata la giovane stella – prosegue Jørgensen . E quello che salta fuori è che tale area è parecchio più grande di quanto ci si aspetterebbe rispetto alla luminosità attuale della stella: la protostella è stata fino a 100 volte più brillante di quanto lo sia la stella ora. Inoltre, dalla chimica implicata possiamo anche affermare che questo cambiamento è avvenuto negli ultimi 100-1000 anni, pochissimo tempo fa dal punto di vista astronomico.”

I ricercatori ritengono che non si sia trattato necessariamente di una singola esplosione di luce e calore, ma di un fenomeno che si può essere ripetuto diverse volte durante il processo di formazione stellare. Fenomeno che è interessante comprendere anche perché può avere un’influenza decisiva sull’abbondanza delle molecole organiche complesse che, in uno stadio successivo dell’evoluzione stellare, saranno incorporate nei sistemi planetari. Ma al momento non sappiamo se queste “eruzioni” siano un fenomeno comune tra le protostelle, oppure se IRAS 15398-3359 costituisca una notevolissima eccezione.

A cura di Stefano Parisini

Fonte:
http://www.media.inaf.it/2013/12/04/la-crescita-esplosiva-di-una-giovane-stella/

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La Spettacolare Aurora Su Saturno



Siamo tutti affascinati dalle aurore boreali sulla Terra, ma ancora più spettacolari sono quelle che si osservano nel resto del Sistema solare. Come sul gigante gassoso, dove l'aurora può durare anche diversi giorni. Si formano ai poli quando il vento solare interagisce con i gas presenti nell'alta atmosfera.

È uno degli eventi più affascinanti e attesi dell’anno. L’aurora di Saturno, osservata per la prima volta nel 1979 (quando Pioneer 11 osservò i poli del pianeta illuminati in ultravioletto), stupisce per la sua bellezza ancora a distanza di decenni. Siamo abituati a osservare sulla Terra le aurore boreali, che si formano a causa dell’interazione delle particelle cariche provenienti dal Sole con la ionosfera terrestre.

Le aurore, però, sono un fenomeno tipico anche in altri pianeti del Sistema solare, come appunto Saturno. In questo caso il gigante gassoso presenta analogie con la Terra: anche in questo caso le aurore si formano ai poli quando il vento solare interagisce con i gas presenti nell’alta atmosfera. I gas fluorescenti, emettendo lampi di luce a diverse lunghezze d’onda. Come si vede nell’immagine della NASA, l’aurora è molto alta, cioè si entra di diverse centinaia di chilometri oltre i poli del pianeta. A differenza della Terra, dove il magnifico spettacolo dura solo poche ore, su Saturno l’aurora può brillare anche per diversi giorni.

Su Saturno si ha abbondanza di idrogeno (a differenza della Terra, che ha un’atmosfera in cui prevale ossigeno e azoto) e quindi il miglior modo per osservare le sue emissioni aurorali è utilizzare gli occhi elettroni di telescopi spaziali e sonde nelle lunghezze d’onda infrarosso ed ultravioletto. Le prime immagini delle aurore ultraviolette di Saturno furono poi ottenute dal telescopio spaziale Hubble nel 1994/95 e poi le 1997.

A cura di Eleonora Ferroni

Fonte:
http://www.media.inaf.it/2013/12/04/lo-spettacolo-dellaurora-di-saturno/

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Il Terremoto che ha cambiato la Gravità



Dai dati inviati dal satellite dell'ESA si evince che il sisma del 2011 quasi sicuramente è riuscito a modificare il letto del mare, con conseguente cambiamento del livello medio dell'acqua, che a sua volta ha influenzato la gravità locale. I dati di GOCE potranno così essere utilizzati per una comprensione maggiore dell'attività sismica sulla Terra.

Il potente terremoto del 2011 che ha colpito il Giappone è riuscito a modificare la gravità locale. Questo è quanto hanno scoperto i ricercatori che lavorano con il satellite dell’Agenzia Spaziale Europea GOCE, che per quattro anni ha mappato con estrema precisione la gravità terrestre, mostrando dettagli anche superiori a quanto si pensasse. In base alle ultime rilevazioni del satellite i gradi terremoti non solo deformano la crosta terrestre, ma possono provocare anche piccoli cambiamenti nella gravità locale.

Analizzando attentamente i dati, gli esperti hanno notato, infatti, una disomogeneità del campo gravitazionale terrestre, conseguenza della differente composizione della Terra da zona a zona. I movimenti tellurici sotto la superficie sono in grado di spostare rocce e materiali anche per chilometri portando così ad una variazione della gravità terrestre locale. Eventi sismici sotto gli oceani, come quello del 2011, possono anche cambiare la forma del letto del mare. Questo sposta l’acqua cambiando il livello del mare, influendo, a sua volta, anche sulla gravità.

Il satellite dell’ESA non è ormai più in orbita da qualche settimana, avendo esaurito il suo carburante. I ricercatori, però, hanno a disposizione una miriade di dati da poter analizzare prima di porre davvero la parola fine alla missione di GOCE. Il satellite ha già gettato nuova luce su diversi aspetti della Terra, dalla densità atmosferica e ai venti, alla mappatura del confine tra la crosta e il mantello superiore, ai processi geodinamici che si verificano in questi stratiA inizio di quest’anno GOCE ha avvertito, tramite il suo accelerometro e propulsore di ioni, le onde sonore del terremoto giapponese, mostrando come il sisma abbia chiaramente rotto il campo gravitazione locale.




Questi risultati sono inoltre coerenti con le osservazioni più “grossolane” effettuate dal satellite GRACE della NASA. I dati di GOCE verranno utilizzati utilizzati per migliorare i modelli già esistenti e permettere quindi una comprensione maggiore dell’attività sismica terrestre.

A cura di Eleonora Ferroni

Fonte:
http://www.media.inaf.it/2013/12/04/il-terremoto-del-giappone-ha-cambiato-la-gravita-terrestre/

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Un Orto Sulla Luna


Un piccolo team al centro di ricerca Ames della NASA vuole verificare la possibilità di coltivare piante sulla Luna. L’impresa diventerà forse possibile entro il 2015 grazie al Google Lunar X Prize e alla partecipazione delle scolaresche statunitensi.

Potrebbe essere vicino il momento in cui vedremo germogliare la prima piantina sulla Luna. Ne è convinto il team del Lunar Plant Growth Habitat, un gruppo di ricerca costituito da scienziati NASA, consulenti esterni, studenti e volontari, operanti presso l’Ames Research Center della NASA nella Silicon Valley californiana.

La possibilità di coltivare vegetali per integrare l’alimentazione degli astronauti sarà una parte importante dell’esplorazione spaziale in un futuro non tanto distante, un futuro in cui la NASA sta pianificando missioni di lunga durata sulla Luna. Mentre vari esperimenti di coltivazione in serre spaziali sono stati già condotti, ad esempio sulla Stazione Spaziale Internazionale, la NASA pensava da tempo alla possibilità di verificare sul campo le difficoltà che avrebbero incontrato gli agricoltori lunari. Ma una missione dedicata solamente a questo scopo risultava troppo costosa.

L’occasione propizia si è ora presentata grazie al Google Lunar X Prize, la competizione che mette in palio complessivamente 30 milioni di dollari per le impresa private in grado di lanciare una sonda robotica che atterri sulla Luna, ne percorra un tratto di superficie e trasmetta sulla Terra immagini e video in alta definizione entro il 31 dicembre 2015.

Secondo il Lunar Plant Growth Habitat, la sonda che alla fine vincerà questa competizione potrà ospitare a bordo i particolari vasi di germinazione che il gruppo di ricerca sta preparando. Si tratta di contenitori che dovranno funzionare da veri e propri habitat di crescita per le sementi selezionate per l’esperimento: mostarda selvatica, basilico, girasole, rapa. Habitat che dovranno essere in grado di regolare autonomamente la propria temperatura e grado di umidità per fronteggiare il durissimo clima lunare.

Scopo dell’esperimento è di verificare se le piante possono sopravvivere alle radiazioni, germogliare in condizioni di gravità parziale e svilupparsi in un ambiente ridotto e controllato. Le stesse difficoltà che si dovrebbero superare per costruire una serra sulla Luna ma anche, in un futuro immaginario, creare la vita su Marte.

Naturalmente i contenitori saranno dotati divideocamere – sport-cam commerciali opportunamente modificate – per seguire in diretta l’eventuale crescita delle pianticelle. Al di là di ogni altra considerazione scientifica, l’idea di potere vedere a breve un’immagine dai forti toni evocativi scalda l’entusiasmo dei ricercatori. “La prima fotografia di una pianta che sta crescendo in altro mondo, ecco: quell’immagine vivrà per sempre. Sarà tanto iconica quanto quella della prima orma umana sul suolo lunare”, afferma con entusiasmo Pete Worden, direttore dell’Ames Research Center.

Nell’attesa della storica immagine, si può dire che la NASA un successo l’abbia già ottenuto. Nello sviluppo dei contenitori per la crescita delle piante (Lunar Plant Growth Chamber) l’agenzia spaziale americana ha coinvolto un gran numero di studenti delle scuole. Ad alcune classi saranno poi affidate delle mini-serre identiche a quelle lunari per verificare i parametri di crescita delle piante in contemporanea all’esperimento spaziale. Una buona idea per appassionare gli studenti alla ricerca scientifica.

Foto in altoUn modello di plastica stampata in 3D di una mini camera climatica per la coltivazione di piante sulla Luna. Crediti: Hemil Modi / Lunar Plant Growth Habitat team

A cura di Stefano Parisini

Fonte: http://www.media.inaf.it/2013/11/26/un-orto-sulla-luna/


La NASA cerca acqua su Venere




Gli esperti sono sicuri che in passato sul secondo pianeta del Sistema solare sia esistita una grande quantità di acqua, tanto da formare oceani, laghi e fiumi. Il Venus Spectral Rocket è stato lanciato ieri e per 8 minuti, a un'altitudine di 110 km, ha osservato la parte più altra dell'atmosfera venusiana in cerca di idrogeno e deuterio (alla base della formula chimica dell'acqua).

È passata solo una settimana dal lancio diMAVEN, la nuova sonda che orbiterà fra nove mesi attorno a Marte, e la NASA ha già mandato in orbita un razzo per studiare l’atmosfera di Venere. Si chiama Venus Spectral Rocket (VeSpR) ed è stato lanciato ieri dalla base di White Sands.

Perché due lanci così ravvicinati? Kelly Fast, ricercatrice anche del progetto MAVEN, ha detto che “è appropriato che le due sonde siano state lanciate a una distanza di tempo ravvicinata proprio perché entrambe studieranno l’atmosfera di un pianeta”. L’unica differenza è che, mentre MAVEN orbiterà attorno al Pianeta rosso, VeSpR rimarrà sopra la Terra.

VeSpR è un sistema a due fasi che combina un missile Terrier – originariamente costruito come un missile terra-aria e poi riproposto per sostenere le missioni scientifiche – e un razzo Black Brant Mk1 al cui interno è stato montato un telescopio. L’integrazione dei due razzi è stata realizzata presso la NASA Wallops Flight Struttura in Virginia. La sonda ha analizzato l’atmosfera di Venere tramite iraggi ultravioletti emessi dal pianeta stesso. In questo modo gli esperti potranno ricostruire buona parte della storia di Venere.

Questo tipo di rilevamenti sono stati finora impossibile con le strumentazioni a terra perché la nostra atmosfera assorbe la maggior parte dei raggi UV provenienti dallo spazio. Proprio per questo motivo il razzo ha portato la sonda a 110 chilometri da altezza dalla superficie terrestre, dove la nostra atmosfera è decisamente più sottile.

Cosa cercano gli esperti della NASA? I ricercatori sanno che l’atmosfera di Venere contiene una piccola quantità di acqua, ma sono convinti che in passato sul pianeta ce ne fosse tanta da formare un oceano. Per questo il team cercherà di determinare se l’acqua si trovi solo negli strati alti dell’atmosfera (dove le temperature sono decisamente inferiori) o sia evaporata dalla superficie del pianeta nel corso di migliaia di anni. Gli studiosi ipotizzano che possano essere esistiti fiumi, laghi e, addirittura, acqua allo stato solido (quindi ghiaccio).

La chiave della ricerca sta tutta nella quantità di idrogeno e deuterio (una versione più pesante dell’idrogeno) che è rimasta nell’atmosfera. Entrambi, ovviamente, in presenza di ossigeno possono creare l’acqua sia sotto forma di H2O che come HDO. La ricerca non sarà facile perché i raggi UV provenienti dal vicino Sole hanno perlopiù sbrindellato l’atmosfera venusiana e proprio perché le molecole di idrogeno sono leggere sono anche le più volatili. I ricercatori hanno scoperto che la quantità di idrogeno e deuterio possono variare a diverse altezze nell’atmosfera, il che potrebbe cambiare i loro calcoli. Per risolvere l’incertezza, VeSpR farà misurazioni in particolare nella parte alta dell’atmosfera.

La NASA in passato aveva già provato a studiare l’atmosfera di Venere con la missione del 1978 Pioneer. Già allora gli studiosi avevano ipotizzato la presenza di acqua in abbondanza sul pianeta. Adesso si cercano prove certe. Il telescopio montato su VeSpR ha osservato il pianeta per 8 minuti e i dati sono stati trasmessi in tempo reale sulla Terra. Il razzo poi è stato recuperato con un paracadute e verrà utilizzato per successioni osservazioni in orbita attorno al nostro pianeta.


A cura di Eleonora Ferroni

Fonte: http://www.media.inaf.it/2013/11/26/la-nasa-cerca-lacqua-su-venere/









lunedì 2 dicembre 2013

Cometa ISON: è mistero fitto sulla sua fine



Dopo diversi giorni di osservazioni continue, gli scienziati continuano a lavorare per stabilire e comprendere il destino della cometa ISON: Non c'è dubbio che si sia ridotta di dimensione durante il passaggio ravvicinato con il Sole.
Rimane da capire se il puntino luminoso visto allontanarsi dal Sole fosse semplicemente composto da detriti, o se rappresentasse parte del nucleo.


La cometa ISON, che ha iniziato il suo viaggio dalla Nube di Oort circa 3 milioni di anni fa, ha fatto il suo massimo avvicinamento al Sole il 28 novembre 2013. La cometa era visibile dagli strumenti del Solar Terrestrial Relations Observatory della NASA, o meglio compsciuto come STEREO e dal Solar and Heliospheric Observatory, o più brevemente SOHO, attraverso le immagini dei coronografi.

I coronografi bloccano la luce del Sole creando un'eclisse artificiale utile ad per osservare meglio le sue fioche strutture dell'atmosfera solare nella corona.
Per questo motivo non è stato possibile osservare la cometa per diverse ore, facendo supporre agli scienziati che la cometa si fosse era completamente disintegrata.

Tuttavia, qualcosa di molto meno brillante è stato ripreso da SOHO e STEREO.
È di fatto poco chiaro se quella macchia di luce fosse solo una nuvola di polvere dei resti della cometa o soltanto parte del nucleo originale.
A svelare il mistero sarà il telescopio spaziale Hubble, che cercherà di osservarla nei prossimi giorni.

Traduzione a cura di Arthur McPaul

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2013/12/131202171930.htm

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