mercoledì 30 giugno 2010

Super ma imperfette

Una simulazione al calcolatore del materiale espulso da una Supernova 10 secondi dopo l'inizio di un'esplosione asimmetrica. Crediti: F. Roepke, MPA Garching

Anche le Supernovae hanno i loro difetti. In particolare, ne possiedono uno che sembra comune a tutte quelle immani esplosioni cosmiche che vengono classificate dagli astronomi come “Tipo Ia”: infatti, il fenomeno che porta una stella di grande massa alla fine del suo ciclo evolutivo a disintegrarsi non termina con un’espansione sferica, regolare, come finora ritenuto, ma “spara” nello spazio il materiale stellare prevalentemente in alcune direzioni. Dando origine a quella che viene definita un’esplosione asimmetrica.

Il merito di questa scoperta, che per la sua importanza è stata pubblicata nell’ultimo numero della rivista Nature, è di un team internazionale di astronomi a cui hanno partecipato due astrofisici italiani dell’INAF, Stefano Benetti e Paolo Mazzali. Il risultato non è di poco conto, poiché questo tipo di Supernovae è da anni il principale strumento a disposizione degli astronomi per studiare l’Universo. Grazie ad esse è stato infatti scoperto negli anni scorsi che l’Universo non solo si sta espandendo, ma anzi sta accelerando la velocità con cui lo fa. Nonostante questi fondamentali successi, gli astronomi erano finora assai discordi nel ritenere che tutte le Supernovae Ia avessero davvero le stesse caratteristiche e quindi potessero essere confrontate le une con le altre. Vi erano infatti evidenze osservative che sembravano dimostrare il contrario.


Secondo i ricercatori, invece, il meccanismo di innesco di questo spaventoso fenomeno è identico in tutte le Supernovae Ia e, contrariamente a quanto pensato finora, il punto da dove ha origine l’immane esplosione non si trova esattamente nel centro geometrico della stella, ma in una posizione alquanto decentrata. Questa condizione darebbe origine ad una esplosione asimmetrica, responsabile delle differenze osservate tra Supernova e Supernova. Gli astronomi hanno così oggi una ulteriore conferma dell’affidabilità di questi fenomeni come “metri cosmici” per determinare le dimensioni dell’Universo. Ma non solo. In questo lavoro i ricercatori hanno dimostrato che le esplosioni sono differenti solo in apparenza. Quello che cambia in realtà è la direzione sotto cui è vista un’esplosione asimmetrica, che è identica in tutte le Supernovae di tipo Ia: è un po’ come un righello che continua a mantenere invariata la sua lunghezza anche se guardato sotto diverse prospettive.

Per ottenere questi importanti risultati i ricercatori hanno analizzato una enorme quantità di dati spettroscopici, sia di archivio che provenienti da nuove osservazioni, di 20 Supernovae di tipo Ia studiate negli ultimi 20 anni con i più importanti telescopi terrestri – tra i quali spiccano quelli dell’European Southern Observatory, ESO, e il Telescopio Nazionale italiano Galileo dell’INAF alle isole Canarie. “Quello che risalta immediatamente in questo lavoro è come l’incontro tra due filoni di ricerca osservativi sullo stesso argomento, condotti in modo indipendente e tramite una semplice ma elegante deduzione, ha portato alla descrizione dettagliata delle proprietà più nascoste di un’esplosione cosmica” commenta Stefano Benetti, dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Padova. “La definirei una vittoria del ragionamento e della logica umana. Su questi temi di ricerca, infatti, anche i più potenti calcolatori non sono ancora in grado di darci risposte definitive”.


Fonte: http://www.media.inaf.it/2010/06/30/super-ma-imperfette/


Quanto pesa la Via Lattea?



Quanto “pesa” la Via Lattea? Per esser precisi, qual è la massa complessiva delle centinaia di miliardi di stelle e sistemi stellari che brillano nella nostra galassia in compagnia del Sole? Se lo è chiesto un gruppo di astronomi dell’Osservatorio di Bamberg e dell’Istituto di Astrofisica di Potsdam, in Germania. La risposta, in via di pubblicazione sulla rivista Astrophysical Journal e disponibile in preprint su arXiv), ha fissato un limite inferiore. La massa galattica complessiva deve essere superiore a 1800 miliardi di masse solari. Un valore simile a quello di altre galassie vicine, che tuttavia ha stupito gli astronomi. Risulta infatti doppio rispetto alla stima fatta in base all’effetto Doppler per le stelle dell’alone. È in questo enorme alone che avvolge il luminoso disco galattico che si trova dispersa buona parte della massa della Via Lattea.

Come hanno ottenuto i ricercatori una stima così difforme rispetto ai calcoli fatti in precedenza? Questione di metodo. Hanno preso come riferimento una stella dell’alone, nota con la sigla SDSS J1539+0239 e ne hanno calcolato la velocità. Se la massa galattica fosse inferiore a quel limite, la stella, che appare molto vecchia (è arrivata nella fase in cui l’elio viene convertito in carbonio e idrogeno), sarebbe da tempo sfuggita alla Via Lattea. Invece è ancora lì che orbita, a una distanza da noi di circa 39.000 anni luce, nella direzione della costellazione del Serpente.

Rispetto al nucleo galattico la stella si muove a una velocità di circa 694 chilometri al secondo, tre volte più rapida del Sole e almeno 60 chilometri al secondo più veloce rispetto alla stella dell’alone che finora deteneva il record di velocità. Questa “sprinter” della galassia cede il passo solo alle stelle cosiddette “iperveloci” che per una sorta di effetto fionda vengono espulse dal centro della galassia a causa dell’interazione gravitazionale con il buco nero supermassiccio che vi si trova al centro e raggiungono velocità che permettono loro di sfuggire all’azione gravitazionale della galassia. Al contrario, la stella in questione non si sta allontanando dalla Via Lattea. Si sta invece dirigendo verso di noi.


Fonte: http://www.media.inaf.it/2010/06/29/la-via-lattea-sulla-bilancia/



Un gioviano caldo confermato attorno a stella come il Sole


Un pianeta di solo otto volte la massa di Giove è stata confermato in orbita attorno ad una stella simile Sole.
Il pianeta è il meno massiccio noto che orbita ad una così grande distanza dalla sua stella ospite. La scoperta è stata fatta utilizzando una tecnologia ottica ad alta risoluzione presso l'Osservatorio Gemini che ha ripreso direttamente le immagini e gli spettri del pianeta.

Nel settembre del 2008 il sistema planetario sospetto richiese ulteriori osservazioni per essere confermato dal un team guidato da David Lafreniere (presso l'Università di Toronto, ora presso l'Università di Montreal e il Centro per la Ricerca in Astrofisica del Quebec).




[L'immagine in alto del telescopio Gemini, ripresa nel 2008, è la prima immagine di un pianeta in orbita attorno ad una stella lontana simile al Sole.
L'oggetto (cerchiato in rosso) è circa 8 volte la massa di Giove. Credito: Osservatorio Gemini]


"Nel 2008 non si sapeva per certo che ci fosse questogiovane oggetto planetario accanto a una giovane stella simile al Sole", dice Lafreniere.

La vicinanza strettissima dei due oggetti suggeriva l'idea che essi fossero associati ma era ancora possibile (ma improbabile) che erano indipendenti e solo per caso allineati nel cielo.

Secondo Lafreniere, "Le nostre nuove osservazioni escludono tale possibilità e confermano pertanto che il pianeta e la stella sono collegati gli uni agli altri".

Con questa conferma, da parte Lafreniere e colleghi, il sistema, noto come 1RXS J160929.1-210.524 (o 1RXS 1609 in breve), offre agli scienziati con un esemplare unico che sfida le teorie di formazione planetaria a causa della sua estrema separazione dalla stella. Lo studio di 1RXS 1609 aggiungere nuove idee alle nostre conoscenze sulla formazione dei pianeti e aiuta gli astrobiologi a determinare dove cercare mondi abitabili intorno a stelle lontane.

"Questo mondo alieno potrebbe dirci che la natura ha più di un modo di fare pianeti", dice il co-autore Ray Jayawardhana dell'Università di Toronto.
"Oppure, potrebbe essere il segno di una gioventù violenta quando degli incontri ravvicinati tra i pianeti neonati scagliarono alcuni fratelli fuori verso l'interno", aggiunge.




[Nuove immagini di 1RXS J160929.1-210.524 a 3,05 micron e 3,8, rispettivamente a sinistra e a destra. Le immagini sono state ottenute con il Gemini Near Infrared Imager (Niri) con il sistema di Altair ottica adattiva. Questi dati sono stati utilizzati per determinare una stima migliore di massa del pianeta. Credito: Osservatorio Gemini / AURA / Lafrenière David (Università di Montreal), Ray Jayawardhana (Università di Toronto), e Kerkwijk Marten van (Università di Toronto)]

Con il suo primo rilevamento da parte del team con l'Osservatorio Gemini, nell'aprile del 2008, questo oggetto è diventato il primo pianeta conosciuto probabilmente in orbita una stella simile al Sole, che è stato rivelato da immagini dirette. Al momento della sua scoperta, il team ha anche ottenuto uno spettro del pianeta ed è stato in grado di determinare molte delle sue caratteristiche, che si confermano in questo nuovo lavoro.

"A posteriori, questo rende i nostri dati iniziali, il primo spettro di un pianeta extrasolare mai confermato!", dice Lafreniere. Lo spettro presenta caratteristiche di assorbimento dovute al vapore acqueo, monossido di carbonio e idrogeno molecolare.

Con le osservazioni dirette di Gemini era stato precedentemente scoperto un sistema di tre pianeti attorno alla stella HR 8799, tuttavia, orbitano molto più vicino alla loro stella ospite.

Il recente lavoro del team su 1RXS 1609 ha inoltre verificato che nessun ulteriore pianeta di grandi dimensioni (tra 1 e 8 masse di Giove) dovrebbe essere presente nel sistema. Le osservazioni future potrebbero far luce sull'origine di questo misterioso pianeta. In particolare, in pochi anni, dovrebbe essere possibile rilevare una lieve differenza di movimento tra il pianeta e la sua stella a causa della loro orbita reciproca.

Il Co-autore Marten van Kerkwijk (Università di Toronto) rileva che la differenza sarà "molto piccola", dato che il periodo orbitale è di oltre mille anni. Ma aggiunge che con Gemini dovrebbe essere possibile misurare la precisa velocità del pianeta rispetto al suo ospite. Questo mostrerà se esso è probabilmente su un'orbita quasi circolare, come ci si aspetterebbe se veramente formatosi lontano dalla sua stella, o se è in un ambiente molto non circolare o addirittura un'orbita non legata, come potrebbe essere nel caso che si sia formato più vicino alla sua stella, ma è stato cacciato in un incontro ravvicinato con un altro pianeta.




[Trame del moto dalle osservazioni Gemini di 1RXS J160929.1-210.524 a conferma che la stella e il pianeta formano un sistema vincolato. Credito: Osservatorio Gemini / AURA / Lafrenière David (Università di Montreal), Ray Jayawardhana (Università di Toronto), e Kerkwijk Marten van (Università di Toronto)]

La stella ospite si trova a circa 500 anni luce di distanza in un gruppo di giovani stelle chiamate Upper Scorpius che hanno circa cinque milioni di anni. L'indagine iniziale ha studiato più di 85 stelle in questo gruppo. Il pianeta ha una temperatura stimata di circa 1800 Kelvin (circa 1500 gradi Celsius) ed è molto più caldo di Giove, che ha una temperatura atmosferica di circa 160 Kelvin (-110 gradi Celsius).

La stella di accoglienza ha una massa stimata di circa l'85% di quella del nostro Sole. La giovane età del sistema, spiega l'alta temperatura del pianeta. La contrazione del pianeta sotto la sua stessa gravità durante la sua formazione ha rapidamente aumentato la sua temperatura fino a migliaia di gradi. Una volta che questa fase di contrazione sarà finita, il pianeta si raffredderà lentamente irradiando luce infrarossa. Dopo miliardi di anni, il pianeta alla fine raggiungerà una temperatura simile a quella di Giove.

Le osservazioni hanno utilizzato il Near-Infrared Imager (Niri) e il sistema di ottica adattiva Altair sul Gemini telescopio Nord. L'ottica adattiva permette agli scienziati di eliminare gran parte delle distorsioni causate dalla nostra atmosfera per affinare la risoluzione come se fosse vista dello spazio.

"Senza l'ottica adattiva, non avremmo potuto vedere questo pianeta", dice Lafreniere. "L'atmosfera terrestre sfoca l'immagine di una stella, rendendo il pianeta non rilevabile. L'ottica adattiva rimuove questa sfocatura e fornisce una migliore visione di oggetti molto deboli vicini alle loro stelle ".

I risultati saranno pubblicati in un prossimo numero dell'Astrophysical Journal.


A cura di Arthur McPaul

Fonte: http://www.astrobio.net/pressrelease/3540/first-directly-imaged-planet-confirmed-orbiting-sun-like-star

martedì 29 giugno 2010

Le sonde Voyager, infinita avventura

Risolti i problemi di trasmissione dati con la Terra, continua senza sosta l'affascinante viaggio della sonde Voyager, giunte ormai ai confini del Sistema Solare
L'avventura della leggendaria coppia di navicelle della NASA sembra non avere fine. Dopo i problemi di trasmissione dei dati che avevano afflitto Voyager 2 un paio di mesi fa, tutto sembra adesso tornato alla normalità.

Per quasi 33 anni, le sonde hanno vagato nel Sistema Solare inviando a terra preziosissimi dati sui pianeti giganti esterni e sull'interazione del vento solare, una volta giunti oltre i pianeti.
Il programma Voyager (Voyager in inglese significa Viaggiatore) consistette in due sonde spaziali, la Voyager 1 e la Voyager 2, lanciate nel 1977. Il loro obiettivo era lo studio dei pianeti Giove e Saturno, usando un allineamento planetario vantaggioso che si verificò alla fine degli anni settanta. I progettisti della missione avevano però da tempo adocchiato una possibile estensione della missione verso i pianeti più esterni, anche loro allineati in modo favorevole, e il Voyager 2 proseguì per esplorare Urano e Nettuno.

Entrambe le missioni hanno prodotto grandi quantità di informazioni sui giganti gassosi del sistema solare.
Uno dei motivi del loro funzionamento seppur limitato, è adesso studiale l'interazione dell'eliopausa con lo spazio interstellare e valutare l'eventuale possibilità che esista un corpo di grandi dimensioni oltre Nettuno, il tanto cercato e ipotizzato "planet X".

I contatti con le sonde sono stati quindi mantenuti fino ad oggi, mentre stanno viaggiando verso l'esterno del sistema solare. Le loro batterie radioattive sono state utilizzate con parsimonia nella speranza che possano durare abbastanza per poter trovare l'eliopausa. Alla fine del 2003, il Voyager 1 ha mandato dei dati che potrebbero indicare l'attraversamento dell'eliopausa, ma non ve ne è certezza, mentre il 15 agosto 2006 ha raggiunto una distanza di 100 Unità Astronomiche dal sole.

Le due sonde sono state costruite al Jet Propulsion Laboratory, finanziato dalla NASA. A bordo di ognuna di esse si trova una copia del Voyager Golden Record, un disco registrato d'oro che contiene immagini e suoni della Terra, assieme a qualche istruzione su come suonarlo, nel caso qualcuno (o "qualcosa") lo trovasse.

Le due sonde Voyager sono i velivoli spaziali con il più lungo funzionamento continuo nello spazio profondo. Voyager 2 era stato lanciato il 20 agosto 1977, quando Jimmy Carter era presidente. Voyager 1 invece partì circa due settimane dopo, il 5 settembre. Le due sonde sono gli oggetti costruiti dall'uomo più distanti dalla Terra e sono giunti al bordo dell'eliosfera, la bolla che il Sole crea attorno al Sistema Solare.

I responsabili della missione Voyager 1 si aspettano che lasci il nostro Sistema Solare per entrare nello spazio interstellare nei prossimi cinque anni circa, con Voyager 2 che lo seguirà poco dopo.

Dopo aver percorso più di 21 miliardi di km (13 miliardi di miglia) il suo percorso si è snodato attraverso i pianeti verso lo spazio interstellare, ed è ormai quasi a 14 miliardi dikm (9 miliardi di miglia) dal Sole.
Un segnale da terra, viaggiando alla velocità della luce, impiega circa 12,8 ore di sola andata per raggiungere Voyager 2.

Voyager 1 raggiungerà questo traguardo di 12.000 giorni il 13 LUGLIO 2010 dopo aver percorso oltre 22 miliardi km (14 miliardi di miglia). Voyager 1 è attualmente a più di 17 miliardi di chilometri (11 miliardi miglia) dal sole.

Le sonde Voyager potranno anche contribuire nei prossimi anni ad individuare Nemesis, la presunta nana bruna binaria del Sole, recentemente ribattezzata come Tyche.
Se WISE (il telescopio ad infrarossi della NASA) individuasse davvero questo affascinate e lontanissimo corpo ai confini del Sistema Solare, le due sonde potrebbero essere utilizzate per reperire i dati ravvicinati prima di spegnersi per sempre.


A cura di Arthur McPaul

Fonte: http://www.jpl.nasa.gov/m/news/index.cfm?release=2010-214




lunedì 28 giugno 2010

Armi nucleari contri asteroidi in rotta di collisione

Se un asteroide massiccio stesse dirigendosi verso la Terra, minacciando di impattare rovinosamente sulla superficie, potrebbe essere neutralizzato con le bombe nucleari come in alcuni recenti film di Hollywood. Questa soluzione, secondo recenti ipotesi potrebbe essere una soluzione valida.
Una scelta simile potrebbe essere giustificata come scelta drastica, come per esempio in caso di un inaspettato e imminente impatto. Facendo saltare in aria un asteroide nello spazio si correrebbe però il rischio di creare ulteriori detriti di cui preoccuparsi in seguito, hanno aggiunto gli scienziati.

Se un asteroide, entrasse in rotta di collisione con la Terra entro i prossimi 50 anni, l'uso di esplosivi nucleari per deviarlo o disperderlo potrebbe essere l'alternativa migliore, ha spiegato David Dearborn, un fisico presso il Lawrence Livermore National Laboratory di Livermore, in California

"La bomba nucleare è la più forte bomba che conosciamo", ha detto Dearborn, che ha presentato il suo studio il mese scorso in occasione della riunione 216i dell'American Astronomical Society a Miami, FL. E' circa 3 milioni di volte più efficiente di bombe chimiche. La domanda è quindi come utilizzare sl meglio la sua energia.

Dearborn ritiene che potenti esplosivi nucleari potrebbero essere utilizzati anche per modificare l'orbita di un asteroide evitando un impatto potenzialmente devastante.

Ma l'opzione nucleare è più efficace nel caso in cui ci sono solo pochi anni di preavviso, ha detto David Morrison, direttore del NASA Lunar Science Institute e ricercatore senior del NASA's Ames Research Center di Moffett Field, in California, che ha fatto ricerche approfondite sui rischi d'impatto di asteroidi e comete.

"Se capitasse un asteroide veramente grande e non avessimo più di un paio anni di preavviso, il nucleare probabilmente sarebbe tutto quello che potremmo fare", ha detto Morrison a SPACE.com. "Se fosse del diametro di un miglio o più piccolo e avessimo 10 o 20 anni di tempo, probabilmente non sarebbe usato il nucleare".

In tali casi, gli scienziati potrebbero optare per l'impatto con l'asteroide utilizzando un razzo balistico, mettendo l'intruso cosmico fuori rotta.
Al momento, probabilmente c'è poca differenza in termini di precisione sia per il metodo balistico convenzionale che nucleare, ha detto Morrison. Ma se con missili balistici fosse possibile fare dei test è possibile che questa tecnica potrebbe essere più precisa.
In realtà, la capacità di testare questi metodi è una delle fonti principali di contesa.

"Uno dei problemi con l'alternativa nucleare è che nessuno potrà mai fare dei test", ha spiegato Morrison. "Penso che desterebbe una notevole opposizione da parte del pubblico, perché le persone sono molto contrarie al nucleare".

Un ostacolo ad alcune idee su come deviare asteroidi è derivato dai livelli estremamente bassi di gravita presente sugli asteroidi.
"Su un asteroide di un chilometro (0,62 miglia) di diametro, una persona di 200 chili peserebbe circa 1/10. Quindi, le proposte fatte per deviare un asteroide si sono poste il problema di come dare la spinta ad esso".

La NASA ha ora l'obiettivo di inviare astronauti per visitare un asteroide entro il 2025. La missione fa parte del piano proposto dal presidente Barack Obama per esplorare lo spazio.
Inoltre, un veicolo spaziale europeo, Rosetta, sorvolerà il 10 luglio l'asteroide Lutetia per ottenere dei passaggi ravvicinati e contribuire alla migliore conoscenza sugli asteroidi.

Secondo Dearborn, far saltare un asteroide in frammenti con potenti esplosivi nucleari potrebbe essere il modo più efficace di deviarlo.
La fusione nucleare è di gran lunga più efficace rispetto al carburante chimico. Quindi, dal punto di vista pratico, sarebbe più facile per il trasporto di questo tipo di energia nello spazio profondo per una missione di deviazione.
La potenza degli esplosivi nucleari lo rende un buon candidato per tale compito.

Dearborn ha discusso una precedente proposta di utilizzare un potente raggio laser al fine di alterare il suo corso. Anche se questo poteva essere una soluzione fattibile, i tempi necessari per effettuare tale operazione utilizzando la tecnologia attuale sono troppo lunghi.

Ad esempio, utilizzando un fascio di accensione della vettura National Facility, per fornire energia sufficiente avrebbe richiesto 5 milioni impulsi che dovrebbero essere consegnati nel corso di circa 6.000 anni.

Per deviare efficacemente un asteroide, la sua orbita deve essere spinta almeno un centimetro al secondo.
Per fare questo, sarebbero necessari da cinque a 10 kilotoni di energia a prescindere dal metodo.
Eppure, il problema non si esaurisce semplicemente facendo saltare in aria con un asteroide.

Frammentare un asteroide crea un campo di macerie, ed è importante per tenere conto di questi resti, in modo che solo una frazione dei detriti è in grado di passare attraverso l'atmosfera terrestre.

Dearborn ha creato delle simulazioni per valutare la quantità di energia e di tempo necessario per la più efficace deviazione un asteroide e la dispersione del suo campo di detriti in modo tale da ridurre al minimo le collisioni con la Terra .

"Se è possibile colpire l'asteroide almeno 15 giorni prima, oltre l'orbita della luna, sarebbe un bene e dalle simulazioni il 97% dei detriti mancherebbero la Terra".

"Se l'esplosione si verificasse abbastanza lontano nello spazio, i residui non dovrebbero essere una preoccupazione", ha detto Morrison.
Dearborn sta continuando a sperimentare modelli e simulazioni che tentano di determinare la quantità di tempo necessario per agire su asteroidi di diverse dimensioni.

E se un disastroso impatto con la Terra è davvero possibile, le probabilità di un tale evento rimangono basse.
"Ci sarà un altro grande impatto con una conseguente catastrofe globale entro un milione di anni, ma è un tempo davvero lungo", ha detto Dearborn.

Lo Spaceguard Survey Report della NASA studia gli oggetti vicini alla Terra, ha fatto molto bene nel localizzare oggetti di grandi dimensioni che potrebbero causare l'estinzione di massa.

"Abbiamo trovato oltre il 90% di quegli oggetti", ha detto Morrison. "In più di qualche anno, saremo in grado di dire che non c'è niente là fuori per provocare una catastrofe globale. Ma, ci saranno un milione di oggetti abbastanza grandi per spazzare via un'intera città. Ci vorrà un molto tempo, per schivarli tutti e trovare loro e capire le loro orbita".

I progressi tecnologici dei telescopi terrestri e spaziali dovrebbero aiutare gli scienziati nel loro studio di oggetti vicini alla Terra e di altri potenziali pericoli, ma la minaccia sarà probabilmente onnipresente, dal momento che gli oggetti più piccoli saranno sempre più difficili da rintracciare.

"La linea di fondo è che potremmo essere colpiti da una di quelli piccoli in qualsiasi momento, senza alcun preavviso" ha detto Morrison. "In questo momento, posso dire che la probabilità che uno di quei piccoli oggetti ci colpisca è quasi nulla perché semplicemente non li abbiamo trovato tutti".

Eppure, nel caso in cui uno di essi fosse in collisione verso la Terra, con solo pochi anni di avvertimento, gli esplosivi nucleari possono essere la nostra scelta migliore.

"Con la tecnologia attuale e abbastanza tempo, dovremmo essere in grado di deviare corpi di grandi dimensioni" ha detto Dearborn. "In questo momento, è l'unica tecnologia in nostro possesso che ha l'energia per spostare grandi corpi".

Per concledere è importante far notare che oggetti di grandi dimensioni hanno di recente colpito Giove, che ci fa da scudo al centro del Sistema Solare. Ma potrebbe accadere che la forte gravità del Sole attiri questi oggetti dalle fascie asteroidali o dall'esterno senza che i giganti gassosi facciano scudo e la Terra potrebbe essere colpita in ogni istante senza grossi preavvisi.

Sarebbe una idea logica disporre di un piano di sicurezza mondiale, discusso e organizzato magari dai paesi dell'Onu. In casi vitali come questi, piu delle chiacchere servono i fatti.
In passato sono state numerose le estinzioni di massa che hanno resettato la vita animale e vegetale sulla Terra. Adesso l'uomo ha la tecnologia per difendersi e piuttosto che sperperare le risorse di uranio per creare armi d'offesa, sarebbe saggio utilizzarle per l'esplorazione delle spazio e la difesa del pianeta da asteroidi e comete.


A cura di Arthur McPaul

Fonte: http://www.space.com/scienceastronomy/diverting-asteroids-nuclear-explosives-100625.html




venerdì 25 giugno 2010

Nuove nane brune scoperte, la NASA ora vuole Nemesis e Tyche

 In occasione della presentazione di alcune nane brune superfredde scoperte dal telescopio Spitzer, la NASA ammette: stiamo cercando Nemesis e Tyche!

Gli astronomi hanno scoperto quelle che sembrano essere le 14 stelle più fredde mai conosciute nel nostro universo.
Queste stelle mancate, chiamate nane brune, sono così fredde e deboli che sarebbero impossibili da vedere con gli attuali telescopi nella luce visibile. La visione ad infrarossi di Spitzer è stata in grado di scorgere il loro debole bagliore.

I nuovi oggetti sono hanno temperature comprese tra circa 450 Kelvin e 600 Kelvin (350-620 gradi Fahrenheit), una temperatura che si avvicina più ai pianeti che alle stelle.

[Concept artistico che mostra i dati simulati delle centinaia di stelle fallite, o nane brune, che il NASA's Wide-field Infrared Survey Explorer (WISE) prevede di aggiungere alla popolazione di stelle conosciute nel nostro vicino spazio interstellare. Credito: AMNH / UCB / NASA / JPL-Caltech ]

Queste sfere sono rimaste da sempre nascoste ma grazie ai nuovi metodi di indagine agli infrarossi stanno iniziando a venire fuori dal loro gelido buio.
Il NASA Wide-field Infrared Survey Explorer (WISE) sta scansionando il cielo alle lunghezze d'onda infrarosse e dovrebbe trovare centinaia di oggetti simili in un volume di spazio 40 volte superiore a quello esaminato dallo Spitzer telescope, che si è concentrato su una regione nella costellazione di Boote. La missione di Spitzer è stata progettata per guardare parti mirate di cielo in dettaglio, mentre WISE sta osservando tutto il cielo.

Finalmente il team di WISE lascia trapelare alcune importanti dichiarazioni sulla ricerca di vicine nane brune attorno al nostro Sistema Solare:

"WISE sta cercando ovunque e in particolare le nane brune che potrebbero essere intorno a noi", ha dichiarato Peter Eisenhardt, lo scienziato del progetto WISE alla NASA's Jet Propulsion Laboratory di Pasadena, in California e autore di un recente documento sulle scoperte di Spitzer. "Potremmo anche trovare una nana bruna fredda che è più vicina a noi di quanto lo sia Proxima Centauri, la stella nota più vicina"

Le nane brune si formano come le stelle, dal collasso di globuli di gas e polvere, ma sono poca cosa al confronto, perché non hanno raggiunto una massa sufficiente per innescare la fusione nucleare per brillare come le stelle.
Le più piccole nane brune note sono circa da 5 a 10 volte la massa del nostro pianeta Giove, che è il più massiccio dei pianeti del Sistema Solare. Le nane brune producono un pò di calore nella loro fase iniziale ma poi con l'età, si raffreddano. La prima nana bruna scoperta, è stata annunciata nel 1995.

"Le nane brune sono come pianeti in qualche modo, ma sono in isolamento", ha detto l'astronomo Daniel Stern, co-autore della carta Spitzer al JPL.
"Questo li rende interessanti per gli astronomi, sono i laboratori perfetti per studiare corpi con masse planetarie".

La maggior parte delle nuove nane brune trovate da Spitzer si pensa che appartengano alla classe più fredda di nane brune note, chiamata T nani, con meno di 1500 Kelvin (2.240 gradi Fahrenheit). Uno degli oggetti sembra essere così freddo che può anche essere definito di classe Y, una nuova proposta classe di stelle ancora più fredda.

"I modelli indicano ci può essere una nuova classe di stelle là fuori, la Y nani, che non abbiamo ancora trovato", ha detto il co-autore Davy Kirkpatrick, co-autore dello studio e un membro del team scientifico WISE presso il California Institute of Technology di Pasadena, in California: "Se questi oggetti sfuggenti esistono, WISE li troverà".
Kirkpatrick è un esperto mondiale in nane brune, propose le classi L, T e Y per le stelle più fresche.

Lo stesso Kirkpatrick, ha affermato che è possibile che WISE scopra un gelido pianeta oltre Nettuno di dimensioni più grandi rispetto ad esso o in posti remoti del nostro sistema solare.
Vi è una certa speculazione tra gli scienziati che un tale corpo fresco, se esiste, potrebbe essere una nana bruna compagna per il nostro Sole. Questo oggetto è stato ipotetico soprannominato "Nemesis".
Fa un certo effetto che un membro di grande spessore del team NASA rilasci dichiarazioni del genere.
Da quando è iniziata la missione WISE è la prima volta che il team ammette pubblicamente che c'è la possibilità che Nemesis esista e che lo stesso telescopio ad infrarossi WISE la stia cercando. Ma Kirkpatrick va oltre, dando credito alla più probabile ipotesi dell'esistenza di Tyche, la nana bruna proposta dagli astrofisici John J. Matese e Whitmire dell'University of Louisiana, che Nemesis Project Research ha proposto alla stampa italiana e internazionale, in anteprima "quasi mondiale":

"Stiamo chiamando l'ipotetica nana bruna, Tyche, piuttosto che Nemesis", ha affermato Kirkpatrick. "Anche se vi è solo una limitata evidenza per suggerire un grande corpo in un ampia un'orbita stabile intorno al Sole, WISE dovrebbe essere in grado di trovarlo, o escluderlo del tutto".

I 14 oggetti trovati dai Spitzer sono a centinaia di anni luce di distanza, troppo lontani e deboli per essere visti dai telescopi a terra. Ma la loro presenza implica che ci sono un centinaio o più di nane brune nel giro di soli 25 anni luce dal nostro Sole. È possibile che WISE sarà anche in grado di trovare ulteriori nane brune entro 25 anni luce del Sole rispetto al numero di stelle conosciute.

"WISE sta per trasformare la nostra visione del vicino spazio extra solare" ha detto Eisenhardt. "Saremo in grado di studiare questi nuovi vicini oggetti nei minimi dettagli, che potrebbero contenere il sistema planetario più vicino al nostro".

Altri autori del documento Spitzer sono: Roger Griffith e Amy Mainzer del JPL, Ned Wright, AM Ghez e Quinn Konopacky di UCLA, Matteo e Marco Ashby Brodwin del dell'Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics, Cambridge, Mass., Michael Brown del Monash University , Australia; Bussmann RS della University of Arizona, Tucson; Dey Arjun del National Optical Astronomy Observatory, di Tucson, Arizona; Eilat Glikman del Caltech, Anthony Gonzalez e David Vollbach della University of Florida, Gainesville, e Shelley Wright della University della California, Berkeley.

Nota:
Dunque ormai la caccia è aperta, Nemesis e/o Tyche sono oggetto di profonda ricerca da parte di WISE e non c'è più alcun dubbio né segreto.
Seguendo la linea spesso vincente del "complotto", che da mesi voleva la NASA impegnata in questa ricerca, pur non avendolo mai dichiarato in precedenza, è lecito supporre che questo articolo, col pretesto di annunciare le nuove scoperte di Spitzer, sia in effetti un test di verifica per la stampa, per l'opinione pubblica e per il mondo accademico, in attesa di diramare nei prossimi mesi la grande notizia!


A cura di Arthur McPaul

Fonte: http://www.spitzer.caltech.edu/news/1137-feature10-08-The-Coolest-Stars-Come-Out-of-the-Dark





L’Homo Sapiens forse si estinguerà entro 100 anni


Per Frank Fenner la prova del riscaldamento globale esiste già. Per lui il nostro destino è scritto. “Ci stiamo estinguendo”, dice l’eminente scienziato. “Qualunque cosa facciamo ora è troppo tardi”.
Fenner è un’autorità in fatto di estinzioni. Il professore emerito in microbiologia presso l’Australian National University ha svolto un ruolo guida nello studio del “Variola Virus” che provoca il vaiolo. Ha lavorato anche sul Mixoma Virus che soppresse le popolazioni del coniglio selvatico nei terreni agricoli dell’Australia sud-orientale nei primi anni cinquanta.

Recentemente ha rilasciato un’intervista nella sua casa in un sobborgo di Canberra. Ora 95enne rilascia raramente interviste. Ma fino a poco tempo si recava al lavoro ogni giorno presso la ANU (John Curtin School of Medical Research) di cui fu direttore dal 1967 al 1973.
Decenni dopo il suo ritiro ufficiale dal Centro per le Risorse e Studi Ambientali, che ha istituito nel 1973, ha continuato la routine stabilita quando stava lavorando con strutture di livello internazionale.
Si metteva a lavorare alle 6:30 del mattino e per un paio di ore scriveva libri di testo prima che il resto del personale fosse arrivato.
Fenner, membro della Australian Academy of Science e della Royal Society, ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti. Ha pubblicato centinaia di articoli scientifici e scritto o co-scritto 22 libri.
Recupera alcuni dei libri dalla sua biblioteca. Uno di quelli è sul vaiolo: pesa 3,5 kg. Un altro, sulla mixomatosi, è stato ristampato dalla Cambridge University Press l’anno scorso, 44 anni dopo della stampa della prima edizione. Fenner è al settimo cielo, ma deluso dal fatto che non potrebbe aggiornarlo con la ricerca confermando che i conigli selvatici hanno sviluppato la resistenza all’agente di controllo biologico.
Lo studio ha mostrato che la mixomatosi ha un tasso di mortalità molto inferiore nei conigli allo stato brado piuttosto che in quelli di laboratorio che mai erano stati esposti al virus.
“I conigli [selvatici] hanno mutato da soli”, dice Fenner.
“È stato un cambiamento evolutivo dei conigli”.

Il fascino per la sua profonda comprensione dell’evoluzione non è mai diminuito con l’osservazione sul campo. Tale comprensione fu modellata da studi a tutti i livelli, dal livello molecolare all’ecosistema ed ai livelli planetari.
Fenner originariamente voleva diventare un geologo ma, su consiglio del padre, studiò medicina, e si laureò presso l’Università di Adelaide nel 1938. Trascorse il suo tempo libero studiando crani con l’esperto preistorico Norman Tindale.
Subito dopo la laurea, si unì alla Royal Australian Army Medical Corps, servendo in Egitto e in Papua Nuova Guinea. Fu accreditato in parte con la vittoria dell’Australia in Nuova Guinea a causa del suo lavoro per controllare la malaria tra le truppe.
“Ciò cambiò il mio interesse dal guardanre teschi alla microbiologia e virologia”, dice. Ma le sue ricerche successive in virologia, concentrandosi sul virus del vaiolo, lo portarono allo studio delle dinamiche epidemiologiche e della popolazione ed egli avrebbe presto focalizzato le specie, tra cui la nostra, sotto il contesto ecologico.

Il suo punto di vista biologico è anche geologico.
Scrisse le sue prime carte sull’ambiente nei primi anni settanta, quando l’impatto umano stava emergendo come un grosso problema.
Fenner dice che la Terra è entrata nell’Antropocene. Anche se non è un’epoca ufficiale sulla scala cronologica geologica, l’Antropocene sta entrando nella terminologia scientifica. Questa si estende dall’industrializzazione, quando la nostra specie ha iniziato a rivaleggiare le ere glaciali e dell’impatto della cometa guida il clima su scala planetaria.
Fenner dice che il vero problema è l’esplosione demografica e il “consumo sfrenato”.
I numeri dell’Homo sapiens sono proiettati a superare i 6,9 miliardi di quest’anno, secondo l’ONU. Con i ritardi per un’azione decisa sul taglio delle emissioni di gas a effetto serra, Fenner è pessimista.
“Dovremo subire la stessa sorte del popolo sull’isola di Pasqua”, dice. “Il cambiamento climatico è solo all’inizio. Ma stiamo vedendo già notevoli cambiamenti nel tempo”.
“Gli aborigeni hanno dimostrato che senza la scienza e la produzione di biossido di carbonio e il riscaldamento globale, essi potrebbero sopravvivere per 40.000 o 50.000 anni. Ma non tutto il mondo. La specie umana rischia di finire allo stesso modo di molte specie che abbiamo visto scomparire.

“L’Homo Sapiens si estinguerà, forse entro 100 anni,” dice. “Sarà lo stesso per un sacco di altri animali. È una situazione irreversibile. Credo che sia troppo tardi. Cerco di non esternarlo perché ci sono persone che stanno cercando di fare qualcosa, ma continuano a rimandare.
“Attenuare il problema potrebbe rallentare le cose per un po’, ma già ci sono troppe persone”.
È un’opinione condivisa da alcuni scienziati ma soffocata tra gli scettici e i credenti del cambiamento climatico.
Il collega e amico di lunga vita di Fenner, Stephen Boyden, un professore in pensione presso l’ANU, dice che c’è profondo pessimismo tra alcuni ecologisti, ma altri sono più ottimisti.
“Frank può aver ragione, ma alcuni di noi ancora nutrono la speranza che si realizzerà una consapevolezza della situazione e, di conseguenza, il rivoluzionario cambiamento necessario per raggiungere la sostenibilità ecologica”, dice Boyden, un immunologo che alla fine della sua carriera si è dedicato alla ecologia umana.
“Ecco dove Frank ed io differiamo. Siamo entrambi consapevoli della gravità della situazione, ma non accetto che sia necessariamente troppo tardi. Dal momento che c’è un barlume di speranza vale la pena lavorare per risolvere il problema. Abbiamo la conoscenza scientifica per farlo ma non abbiamo la volontà politica”.

Fenner aprirà il Simposio “Healthy Climate, Planet and People” presso la Australian Academy of Science la settimana prossima, come parte di una serie di conferenze (AAS Fenner), destinate a colmare il divario tra scienza ambientale e politica.
Nel 1980, Fenner ha avuto l’onore di annunciare l’eradicazione globale del vaiolo all’Assemblea dell’ONU. La malattia è l’unica che è stata debellata.
Trent’anni dopo quell’occasione, la sua visione è notevolmente diversa e include il caos di una specie sull’orlo dell’estinzione di massa.
“Se la popolazione continuerà a crescere fino a sette, otto o nove miliardi, vi saranno molte più guerre per gli alimenti”, dice.
“I nipoti delle generazioni di oggi dovranno affrontare un mondo molto più difficile”.

Nuove prove a favore del passato umido di Marte

Nuove prove indicano la presenza di rocce formatesi in presenza di acqua, sul Pianeta Rosso

La scoperta di minerali nei crateri del nord di Marte suggerisce che una fase precoce della storia di Marte potrebbe aver ospitato condizioni favorevoli alla vita a livello globale.
[Foto in alto: Il Lyot Crater, nella foto, è uno degli almeno nove crateri nelle pianure settentrionali di Marte, con esposizioni di minerali idratati rilevati dagli orbiter NASA/ESA (Credit: NASA / ESA / JPL-Caltech / JHU-APL / IAS)]

L'emisfero settentrionale e meridionale di Marte differiscono di molto, tenendo aperto da decenni un dibattito tra i planetologi sulle cause di questa diversità.

Negli ultimi anni, il Mars Orbiter Express dell'ESA e il Mars Reconnaissance Orbiter della NASA hanno trovato minerali argillosi che rappresentano le tracce di un ambiente umido in migliaia di siti negli altopiani meridionali di Marte, dove le rocce della superficie hanno un'età di circa quattro miliardi di anni. Fino a questa settimana, nessun sito con tali minerali era stato segnalato nelle pianure del nord, dove l'attività vulcanica ha sepolto profondamente la vecchia superficie, nascondendo ogni prova.

Ricercatori francesi e americani hanno pubblicato un articolo sulla rivista Science in cui vengono mostratie le analisi delle rocce sovrastanti a grandi crateri nelle pianure del nord, che mostrano indizi minerali simili alle antiche condizioni, in cui era presente l'acqua.

"Ora possiamo dire che il pianeta ha subito una variazione a livello globale da acqua liquida circa quattro miliardi di anni fa", ha detto John Carter dell'Università di Parigi, principale autore del report.
Altri tipi di prove circa di acqua liquida in epoche più tardi su Marte tendono a puntare a più breve durata delle condizioni di umidità o di acqua che è stata più acidi o salati.
 
I ricercatori hanno usato il Compact Reconnaissance Imaging Spectrometer for Mars (CRISM), uno strumento sul Mars Reconnaissance Orbiter, per controllare 91 crateri nelle pianure del nord. In almeno nove, hanno trovato argille e minerali di argilla, detti fillosilicati, o altri silicati idrati che si formano in ambienti umidi in superficie o nel sottosuolo.
Le analisi svolte in precedenza con lo spettrometro OMEGA sul Mars Express avevano rilevato dei fillosilicati in alcuni crateri delle pianure del nord, ma i depositi sono piccoli e il CRISM può fare osservazioni più dettagliate sulle piccole aree rispetto a OMEGA.

"Avevamo bisogno di una migliore risoluzione spaziale per confermare le identificazioni", ha detto Carter. "I due strumenti hanno diversi punti di forza, per cui vi è un grande vantaggio utilizzandoli entrambi".

Scott Murchie della Johns Hopkins University Applied Physics Laboratory, co-autore del nuovo rapporto, ha detto che l'interpretazione dei risultati indicherebbe che gli ambienti umidi su Marte sono esistiti in lunghi periodi nella storia antica del pianeta.
La teoria prevalente per la modellazione della parte settentrionale del pianeta, ipotizza un impatto da parte di un gigantesco oggetto nel nord di Marte, trasformando quasi la metà della superficie del pianeta nel cratere da impatto più grande del Sistema Solare.

I nuovi risultati suggeriscono anche che la formazione di minerali legati all'acqua e il conseguente periodo umido, potrebbe essere stato favorevole alla vita.

"Questo forte impatto avrebbe eliminato qualsiasi prova antecedente nella superficie nel nord", ha detto Murchie. "Deve essere accaduto ben prima della fine del periodo umido".
Gli altri due autori sono Francois Poulet e Jean-Pierre Bibring, entrambi dell'Università di Parigi.

A cura di Arthur McPaul

Fonte: http://www.sciencedaily.com/releases/2010/06/100624141343.htm





giovedì 24 giugno 2010

Manufatto sumero in Sud America

I Sumeri viaggiarono fino al Sud America? Una prova schiacciante sembra confermare questa incredibile tesi


Uno dei reperti archeologici più controversi dell’intera America è la Fuente Magna, detta anche Vaso Fuente, un grande vaso di pietra, simile ad un recipiente per effettuare libagioni, battesimi o cerimonie purificatorie.
Secondo la versione ufficiale il vaso fu scoperto in Bolivia nel 1960, da un contadino, in un terreno privato che si dice sia appartenuto alla famiglia Manjon, situato a Chua, circa 80 chilometri da La Paz, nelle vicinanze del lago Titicaca.
Nella parte esterna il vaso riporta alcuni bassorilievi zoomorfi (di origine Tihuanacoide), mentre nell’interno, oltre a una figura zoomorfa o antropomorfa (a seconda dell’interpretazione), vi sono incisi due tipi di differenti scritture, un alfabeto antico, proto-sumerico, e il quellca, idioma dell’antica Pukara, civiltà antesignana di Tiwanacu.
Nel 1960 l’archeologo boliviano Max Portugal Zamora attuò alcuni piccoli lavori di restauro sul vaso di pietra, e tentò di decifrare senza successo la misteriosa scrittura che è incisa nella parte interna.
Il vaso fu consegnato da un membro della familia Manjon al municipio di La Paz nel 1960. In cambio la familia Manjon ottenne un terreno in una zona adiacente la capitale.
L’oggetto rimase in uno scantinato del “Museo de los metales preciosos” per 40 anni.

Fino alla fine del XX secolo nessuno sapeva in realtà da dove venisse la Fuente Magna, e nessuno poteva immaginare la straordinaria e affascinante storia che racchiude.
Nel 2000 due ricercatori di La Paz, l’argentino Bernardo Biados e il boliviano Freddy Arce, viaggiarono fino a Chua, luogo situato nel nord del lago Titicaca, e chiesero informazioni ai nativi di lengua aymara sul ritrovamento della Fuente Magna nel 1960.
Inizialmente nessuno sapeva dare informazioni, nè sul Vaso Fuente, nè sulla famiglia Manjon, che sembrava essere scomparsa nel nulla. Successivamente incontrarono un anziano di 92 anni, detto Maximiliano, che dopo aver osservato una foto della Fuente Magna, la riconobbe come sua, e la denominò in spagnolo “el plato del chanco”, ovvero il vaso dove mangiavano i maiali.

Maximiliano dichiarò che il vaso fu trovato molti anni prima nelle vicinanze del villaggio e non gli fu data alcuna importanza fino a quando alcuni uomini lo portarono via (forse pagando un corrispettivo), per poi consegnarlo al municipio di La Paz.
Proprio così: uno degli oggetti più importante dell’intera Storia umana era utilizzato da un campesino come recipiente per dar da mangiare ai maiali!

Bernardo Biados e Freddy Arce fotografarono e studiarono a fondo il celebre vaso, giungendo alla conclusione che era utilizzato nell’antichità per cerimonie religiose purificatorie. I due ricercatori inviarono le foto delle iscrizioni al famoso epigrafista statunitense Clyde Ahmed Winters, che decifrò le enigmatiche iscrizioni proto-sumeriche che si trovano all’interno della Fuente Magna.
Ecco la traduzione del pannello centrale dove vi sono i caratteri cuneiformi:

"Avvicinati nel futuro ad una persona dotata di grande protezione nel nome della grande Nia. Questo oracolo serve alle persone che vogliono raggiungere la purezza e rafforzare il carattere. La Divina Nia diffonderà purezza, serenità, carattere. Usa questo talismano (la Fuente Magna), per far germogliare in te saggezza e serenità.
Utilizzando il santuario giusto, il sacrario unto, il saggio giura di intraprendere il giusto camino per raggiungere la purezza e il carattere. Oh sacerdote, trova l’unica luce, per tutti coloro che desiderano una vita nobile."

Secondo alcuni ricercatori, la "rana" nella "Fuente" è la rappresentazione di Nia, la Dea dei Sumeri.

Secondo i testi antichi Ni-ash (Nammu o Nia), era la Dea che diede luce al Cielo e alla Terra, al tempo dei Sumeri. Il bassorilievo situato nella parte interna del vaso, che può richiamare ad una rana (simbolo di fertilità), secondo alcuni ricercatori è proprio la rappresentazione di Nia, la Dea dei Sumeri.
Gli altri simboli che si trovano ai lati del bassorilievo e nella parte adiacente alle incisioni proto-sumeriche, sono stati interpretati come quellca, idioma scritto della civiltà Pukara, ma non sono stati decifrati.
Nella parte esterna del vaso ci sono alcuni bassorilievi zoomorfi, che richiamano la cultura di Tiwuanacu: pesce e serpente. E’ molto probabile che la Fuente Magna venisse utilizzata come vaso sacro per cerimonie esoteriche, che richiamavano il culto della fertilità e la ricerca della purezza.

A questo punto sorge la domanda? Come è possibile che vi siano delle iscrizioni proto-sumeriche in un vaso ritovato presso il Titicaca, a ben 3800 metri d’altezza sul livello del mare, distante decine di migliaia di chilometri dal luogo di espansione della civiltà dei Sumeri?
A mio parere La Fuente Magna è autentica, ed è uno degli oggetti antichi più importanti del mondo, attraverso il quale si può venire a conoscenza del passato remoto dell’umanità e dei suoi viaggi interoceanici.
Innuanzitutto si deve ricordare che l’esistenza del Nuovo Mondo era perfettamente conosciuta ai Fenici e ai Cartaginesi che circumnavigarono l’Africa nel I millennio prima di Cristo. Ma le loro conoscenze derivavano dai Sumeri, il popolo che spesso si associa erroneamente con la “nascità della civiltà”.

E’ noto che i Sumeri navigavano sulle loro imbarcazioni attraverso i canali del Tigri e dell’Eufrate allo scopo di commerciare. E’ invece poco conosciuta la navigazione marittima dei Sumeri, che avevano come base l’attuale isola di Bahrein, dove recenti scavi hanno dimostrato l’esistenza di un porto commerciale che era in attività nel terzo millennio prima di Cristo. Nei testi Sumeri l’odierno Behrein era identificato come Dilmoun, e da quel punto le flotte sumere partivano per la foce dell’Indo da dove rimontavano il grande fiume, giungendo a Mohenjo-Daro, per intercambiare tessuti, oro, incenso e rame. Le imbarcazioni sumere erano lance che potevano dislocare fino a 36 tonnellate.

Secondo Bernardo Biados i Sumeri circumnavigarono l’Africa già nel terzo millennio prima di Cristo, ma, arrivati presso le isole di Capo Verde, si trovarono sbarrato il passaggio dai venti contrari che soffiano incesantemente verso sud-est. Si trovarono pertanto obbligati a fare rotta verso ovest, cercando venti favorevoli. Fu così che giunsero occasionalmente in Brasile presso le coste dell’attuale Piauì o Maranhao. Da quei punti esplorarono il continente risalendo gli affluenti del Rio delle Amazzoni, in particolare il Madeira e il Beni.

In questo modo arrivarono all’altopiano andino, che probabilmente nel 3000 a.C. non aveva un clima così freddo. Si mischiarono così alle genti Pukara che a loro volta provenivano dall’Amazzonia (espansione Arawak), e ai popoli Colla (i cui discendenti parlano oggi la lingua aymara). La cultura Sumera influenzò le genti dell’altopiano, non solo dal punto di vista religioso, ma anche lessicale. Molti linguisti infatti hanno trovato molte similitudini tra il proto-sumerico e l’aymara.
Alcuni Sumeri rientrarono nel Vecchio Mondo e vi trasportarono la coca, che fu trovata anche nelle mummie di alcuni faraoni egizi.

Ultimamente Bernardo Biados e Freddy Arce hanno analizzato e studiato a fondo il monolito di Pokotia, che riporta interessanti iscrizioni nella parte dorsale, che possono anch’esse essere relazionate con viaggi inter-oceanici avvenuti antecedentemente al terzo millennio a.C.
Solo con lo studio comparato di genetica, archeologia, linguistica e scienza epigrafica si potrà giungere in futuro alla reale comprensione delle relazioni tra gli antichi popoli del mondo, in modo da poter tracciare così una mappa dettagliata dell’intera evoluzione umana.
Se questa prova fosse confermata, avverrebbe la più grande rivoluzione archeologica di tutti i tempi e alcuni ricercatori/scrittori considerati scrittori di fantascienza, potrebbero drammaticamente aver ragione! (ndMcPaul)


Fonte: http://codenamejumper.wordpress.com/2010/03/02/la-fuente-magna-eredita-dei-sumeri-nel-nuovo-mondo/





21 dicembre 2012, ma è la data giusta?

Due archeologi americani, tra i massimi conoscitori della popolazione precolombiana, rivelano che in realtà la vera data dell’antica profezia è un’altra.
Arlen e Diane Chase ci illustrano come, grazie alla tecnologia spaziale fornita dalla Nasa, sono riusciti ad addentrarsi nei segreti e nei misteri dei Maya come nessuno era mai riuscito a fare prima. Il loro obiettivo era infatti realizzare la mappa dell’antica città di Caracol, in Belize, che è però coperta dalla giungla.

E in 25 anni, armati di machete, Arlen e Diane Chase erano riusciti a realizzare la mappa soltanto di 23 chilometri quadrati. Mentre con una tecnologia basata sull’uso del laser, detta LIDAR, montata su un aereo bimotore, sono riusciti in 24 ore a ricostruire tridimensionalmente a computer l’intera città di Caracol, per un’area totale di 177 chilometri quadrati. Il commento a caldo di Diana Chase è stato: «Siamo stupefatti. L’uso del Lidar rivoluzionerà l’archeologia Maya allo stesso modo in cui lo hanno fatto la datazione al carbonio negli anni ’50 e l’interpretazione dei geroglifici Maya negli anni ’80 e ’90».

Professori Arlen e Diane Chase, perché secondo voi il LIDAR rivoluzionerà le nostre conoscenze sui Maya?
Il LIDAR rivoluzionerà le nostre idee sui Maya per la sua capacità di rappresentare globalmente un territorio antico. Finora, i ricercatori dovevano limitarsi a campioni parziali senza poter contestualizzare pienamente i dati archeologici. Il LIDAR ci permette ora di vedere l’intero insediamento e il territorio circostante e ci consentirà di individuare le differenze territoriali tra i Maya e i confini tra le antiche entità politiche.

E’ vero che gli astronomi dei Maya hanno predetto che il mondo finirà il 21 dicembre 2012?
La profezia sul 2012 è una costruzione della moderna «new age». L’attuale ciclo temporale maya finirà attorno all’anno 4.946 del nostro calendario. Il 22 dicembre del 2012 per il calendario maya sarà il 13.0.0.0.1 (cioè una data qualsiasi senza nessun valore simbolico, Ndr) e quel giorno quindi nel mondo tutto sarà tranquillo.


L’astronomia maya, cui di recente sono stati dedicati diversi libri e film, era davvero così avanzata come si pensa?
L’astronomia maya era molto avanzata. I loro scienziati praticavano osservazioni dirette e dettagliate del cielo e le loro rilevazioni dei cicli dei vari pianeti erano registrate nei loro codici cartacei e nei geroglifici sulla pietra.

Per la comunità scientifica, qual è la cosa più difficile da spiegare sulla civiltà maya?
La cosa più difficile da spiegare è quanto questa civiltà fosse grande e complessa. Dato che finora avevamo avuto a che fare solo con campioni del loro passato, ma mai con una visione globale, gli scienziati hanno creato diversi modelli per spiegare come la loro società sia scomparsa. Le informazioni del LIDAR ci aiuteranno a perfezionare la nostra conoscenza di questo antico popolo, proprio perché fornisce un contesto completo.

Avete scoperto qualcosa di nuovo sullo sviluppo tecnologico dei Maya?
Tutto il paesaggio attorno a Caracol è stato completamente modificato dall’azione dell’uomo, detta anche antropogenica. Gli antichi abitanti dovevano avere una relazione intima con l’ambiente circostante e gestivano molto attentamente i terreni e i flussi di acqua nel territorio.

In queste rilevazioni o in precedenti studi, avete scoperto qualche prova di sacrifici umani presso i Maya?
Sì, a Caracol abbiamo rinvenuto delle prove archeologiche dei sacrifici umani realizzati dai Maya. I sacrifici umani facevano parte della loro antica religione, come è stato confermato da un punto di vista archeologico.

IL LIDAR può aiutarci a capire le ragioni della scomparsa della civiltà Maya?
I dati ricavati con il LIDAR ci aiuteranno a comprendere quanto intensamente i Maya abbiano utilizzato e modificato il loro territorio. Questo, a sua volta, potrà aiutarci a capire perché abbiano abbandonato certe aree. E’ importante specificare, tuttavia, che la loro decadenza non fu un processo uniforme e si sviluppò su più di 150 anni. I dati del LIDAR ci consentiranno di individuare come hanno influito su questo processo le differenze territoriali. Inoltre, in alcune zone non vi fu alcuna scomparsa dei Maya.

Caracol si estendeva per 177 Km quadrati, quasi come Boston (232,2 Km quadrati). Perché era così grande?
Caracol era così grande perché questa era la caratteristica dell’urbanistica Maya. A differenza delle moderne città occidentali, i Maya incorporavano la loro agricoltura nelle città, e Caracol può essere definita una forma di urbanismo «a bassa densità». Questa definizione di urbanismo è stata usata da Roland Fletcher per la città di Angkor Wat, in Cambogia, che si estende per oltre 1000 Km quadrati. Le dimensioni di Caracol non sono anomale per le città Maya: Tikal, Calakmul e Coba erano all’incirca della stessa grandezza. Tuttavia, nessuna aveva la popolazione delle città moderne e Caracol, probabilmente la più grande città Maya, aveva circa 115.000 abitanti.

Perché Caracol è stata definita una «città sostenibile»?
La definizione di Caracol come città sostenibile deriva dalla presenza di terrazzamenti e serbatoi all’interno della città. I primi permettevano agli abitanti di far crescere il cibo di cui avevano bisogno e i numerosi serbatoi consentivano di immagazzinare l’acqua necessaria. Così l’intera città era «sostenibile».

Perché il comunicato stampa definisce il LIDAR una «tecnologia spaziale»?
Il LIDAR è definito «tecnologia spaziale» perché la ricerca è stata finanziata dal Programma di Archeologia Spaziale della NASA. La ricerca comprendeva sia la rappresentazione IKONOS dai satelliti, sia quella LIDAR dai sorvoli; i risultati di quest’ultima si sono dimostrati molto superiori a quelli ottenuti da IKONOS.

Chi ha permesso la realizzazione della vostra ricerca sulla città di Caracol?
Il progetto archeologico su Caracol della University of Central Florida, che abbiamo diretto personalmente, rappresenta una collaborazione di lungo termine con l’Istituto di Archeologia del Belize. I fondi per la ricerca LIDAR a Caracol nel Belize, nel 2009 sono stati stanziati dalla Nasa a favore di John F. Weishampel, Arlen F. Chase e Diane Z. Chase. Il lavoro è stato facilitato dalla collaborazione dell’Istituto di Archeologia del Belize, e specialmente di Jaime Awe e Brian Woodye. Ramesh Shrestha, K. Clint Slatton, Michael Sartori e William E. Carter del National Center for Airborne Laser Mapping, che hanno effettuato le rilevazioni aeree dell’area di Caracol e hanno elaborato i dati raccolti con Lidark.




Fonte: http://codenamejumper.wordpress.com/2010/05/21/la-vera-data-della-profezia-maya-non-e-il-2012/




Tempesta su un esopianeta



Prima supertempesta su un pianeta extrasolare, quella registrata dagli astronomi grazie al VLT, su HD209458b, un gioviano caldo. Grazie all’altissima precisione del VLT e dello spettrografo CRIRES nella rilevazione di monossido di carbonio nella sua atmosfera gli astronomu hanno verificato come questo gas si sposti a grandissima velocità dalla zona rovente del pianeta, quella illuminata dalla sua stella, a quella della fredda notte. Le osservazioni hanno anche permesso di ottenere un’altra “prima”, la misurazione della velocità orbitale dell’esopianeta, che rende possibile determinare direttamente la sua massa.

I risultati di questo studio sull’ultimo numero di Nature.

“HD209458b non è un posto per deboli di cuore. Dallo studio accurato dell’atmosfera velenosa fatta di monossido di carbonio del pianeta abbiamo trovato prove della presenza di un super vento, che soffia ad una velocità compresa tra i 5.000 e i 10.000 km orari”, dice Ignas Snellen, che ha guidato il team di astronomi.

HD209458b è un esopianeta con una massa pari al 60% quella di Giove e orbita intorno alla sua stella, che si trova a 150 anni luce dalla Terra, in direzione della costellazione di Pegaso. Orbitando ad una distanza di solo un ventesimo di quella che separa il Sole dalla Terra, il pianeta è scaldato intensamente dalla sua stella, tanto che nella parte calda la temperature alla superficie raggiunge i 1000 gradi Celsius. Ma poiché il pianeta offre sempre la stessa “faccia” al suo sole, una parte è estremamente calda, mentre l’altra è molto più fredda. “Sulla Terra, le grandi differenze di temperature producono forti venti e, come le nostre nuove rilevazioni mostrano, la situazione non è differente su HD209458b”, dice Simon Albrecht, altro membro del team.

HD209458b è stato il primo esopianeta ad essere stato scoperto con la metodologia detta “del transito”: ogni 3/5 giorni il pianeta passa davanti alla sua stella ospite, bloccando una piccola porzione della sua luce per circa tre ore. Durante questo periodo una esigua quantità di luce filtra attraverso l’atmosfera del pianeta, lasciando un’“impronta digitale” della sua composizione chimica. Un team di astronomi della Università di Leida, dell’Istituto Olandese per la Ricerca Spaziale (SRON), e del MIT negli Stati Uniti, hanno usato il Very Large Telescope dell’ESO e il suo potente spettrografo CRIRES per registrare e analizzare questa debole impronta , osservando il pianeta per circa cinque ore, durante il passaggio davanti alla sua stella. “CRIRES è il solo strumento al mondo che può analizzare lo spettro con una precisione tale da determinare la posizione delle linee di monossido di carbonio con una risoluzione di uno su centomila,” dice un altro componente del team, Remco de Kok. “Questa alta precisione ci permette di misurare per la prima volta la velocità del monossido di carbonio gassoso usando l’effetto Doppler”.

Gli astronomi hanno ottenuto numerosi altri primati. Hanno misurato direttamente la velocità del pianeta extrasolare mentre orbita attorno alla sua stella. “In generale, la massa di un pianeta extrasolare è determinata misurando l’oscillazione della stella e assumendo una massa per essa, che sia in accordo con le regole derivanti dalla teoria. Da qui si è in grado di misurare il movimento del pianeta, come anche la sua massa e quella della stella stessa”, dice il coautore Ernst de Mooij.

Ancora per la prima volta gli astronomi hanno misurato la quantità di carbonio presente nell’atmosfera di questo pianeta. “In realtà sembra che H209458b sia ricco di carbonio come Giove e Saturno. Ciò potrebbe indicare che si è formato nello stesso modo” dice Snellen. In futuro, gli astronomi potrebbero essere in grado di utilizzare questo genere di osservazioni per lo studio dell’atmosfera di pianeti simili alla Terra, per determinare se la vita esista anche altrove, nell’universo.




Fonte: http://www.media.inaf.it/2010/06/23/la-supertempesta-dellesopianeta/



Un antico oceano anche su Venere?

La sonda dell'Agenzia spaziale europea, Venus Express, sta aiutando gli scienziati planetari ad indagare sulla possibilità che Venere, possa aver avuto in passato degli oceani.
Se così fosse, potrebbe essere stato un pianeta abitabile simile alla Terra.

Nella nostra epoca, la Terra e Venere sembrano completamente diversi da un punto di vista climatico e biologico. La Terra è un lussureggiante mondo brulicante di vita, mentre Venere è un inferno, la sua superficie è sottoposta a temperature superiori a quelle di un forno da cucina.
Foto in alto: Venere ha perso grandi quantità di acqua. L'immagine è stata presa nell'ultravioletto (0,365 micrometri), da una distanza di circa 30 000 km e mostra numerose caratteristiche ad alto contrasto, causate da una sostanza chimica sconosciuta tra le nuvole che assorbe la luce ultravioletta, creando le zone chiare e scure. Con i dati di Venus Express, gli scienziati hanno compreso che le zone equatoriali di Venere, che appaiono scure in luce ultravioletta sono regioni ad alta temperatura, dove gli intensi moti convettivi portano in primo piano materiale scuro dal basso. Al contrario, le regioni luminose alle medie latitudini sono zone dove la temperatura nell'atmosfera diminuisce con la profondità. La temperatura raggiunge il minimo sopprimendo le nubi in alto con un mescolamento verticale. Questo anello di aria fredda, soprannominato il 'collare freddo', appare come una banda luminosa nelle immagini ultraviolette. (Credit: ESA / MPS / DLR / IDA).

Ma, nonostante ciò, i due pianeti condividono una serie di somiglianze. Essi sono quasi identici per dimensioni e ora, grazie all'orbiter dell'ESA Venus Express, gli scienziati planetari stanno scoprendo anche altre analogie.

"La composizione chimica di base tra Venere e la Terra è molto simile", afferma Håkan Svedhem, ESA Venus Express Project Scientist.
I planetologi di tutto il mondo ne discuteranno ad Aussois, in Francia, dove si stanno radunando in questa settimana per una importante conferenza.

Una differenza distingue drasticamente Venere: ha pochissima acqua. Se avesse avuto la stessa quantità di acqua presente negli oceani della Terra, la superficie sarebbe stata sommersa uniformemente con uno strato di 3 km di profondità. Se si dovesse condensare la quantità di vapore acqueo dell'atmosfera di Venere sulla sua superficie, si creerebbe una pozzanghera globale a soli 3 cm di profondità.

Eppure c'è un altro somiglianza importante. Miliardi di anni fa, probabilmente Venere aveva molta più acqua. Venus Express ha certamente confermato che il pianeta ha perso una grande quantità di acqua nello spazio, perché le radiazioni ultraviolette provenienti dal Sole che bombardano l'atmosfera di Venere, rompono le molecole di acqua in due atomi di idrogeno e uno di ossigeno. Questi poi si volatilizzano e disperdono nello spazio.

Venus Express ha misurato la velocità di questa fuga e ha confermato che l'idrogeno è molto più volatile di due volte rispetto all'ossigeno.
Si ipotizza che sia l'acqua, la fonte molecale da cui si slegano questi ioni.
E' stato anche dimostrato che una forma pesante di idrogeno, chiamato deuterio è progressivamente arricchito nelle alte sfere dell'atmosfera di Venere, perché l'idrogeno pesante è più difficile che possa sfuggire dal pianeta.

"Tutto sta ad indicare che non dovevano esserci grosse quantità di acqua su Venere in passato, ma questo non significa necessariamente che ci siano stati degli oceani sulla superficie del pianeta", ha affermato Colin Wilson, dell'Università di Oxford, UK.

Eric Chassefière, dell'Université Paris-Sud, in Francia, ha sviluppato un modello al computer che suggerisce che l'acqua era in gran parte presente nell'atmosfera e esisteva solo durante i primissimi tempi, quando la superficie del pianeta era completamente fusa. Poiché le molecole di acqua vennero separate in atomi dalla luce del Sole e fuggirono nello spazio, la successiva flessione delle temperature, probabilmente deve aver innescato la solidificazione della superficie. In altre parole: nessuna presenza di oceani.

Anche se è difficile verificare questa ipotesi, si tratta di una questione fondamentale. Se Venere abbia mai posseduto delle acque superficiali, il pianeta potrebbe forse avere innescato una fase iniziale abitabile.
Anche se fosse vero, il modello Chassefière non esclude la possibilità che le comete in collisione abbiano portato altra acqua su Venere dopo che la superficie si fosse cristallizzata, e questi oggetti potrebbero aver creato acqua stagnante in cui la vita può essere stata in grado di nascere e svilupparsi.

Ci sono molte domande aperte. "La modellazione molto più estesa del sistema oceano-atmosfera/magma e della sua evoluzione è necessario per capire meglio l'evoluzione del giovane Venere", dice Chassefière.
Durante la creazione di questi modelli al computer, i dati forniti da Venus Express, si sono rivelati essenziali.


A cura di Arthur McPaul

Fonte: hhttp://www.sciencedaily.com/releases/2010/06/100624091753.htm



Il dispositivo caccia alieni


Esiste una qualsiasi altra forma di vita sugli altri pianeti? La risposta arriva da uno nuovo strumento messo a punto da un team di ricercatori argentini, coordinato dal professor Ximena Abreyava, il quale, in un'intervista a Technology Review, ha annunciato la realizzazione di una cella combustibile capace di rilevare la presenza di vita aliena.

Il dispositivo a caccia di extraterrestri, non richiede altro che la forma di vita in questione possegga un processo metabolico, di qualsiasi tipo, che riceva energia chimica dall’esterno e la riusi per produrre energia all’interno di se stessa. Costituita da un anodo e da un catodo, la cella scopre le reazioni del metabolismo che, a loro volta, generano elettroni e protoni.

Questo il meccanismo: un anodo viene incorporato nella cella e viene analizzato. Dopodichè cattura gli elettroni generati nel processo metabolico, mentre i protoni passano attraverso una membrana, completando il circuito. La quantità di corrente che fluisce attraverso la cella è una diretta indicazione di vita.


I nuovi 'ghostbusters' , osservano dunque che "se esiste una forma di vita aliena, non necessariamente essa deve avere il nostro stesso metabolismo". E confrontando i risultati della cella pordotti su di un terreno con la presenza di forme di vita, con quelli di un altro terreno interamente sterile, gli esperti hanno appunto constatato una maggiore densità di corrente quando l’anodo veniva racchiuso in un'area contenente vita. Al contrario, invece, nei campioni sterili la cellula non dava lo stesso responso.

Tuttavia, Tech Review, è alquanto scettica a riguardo. Infatti, secondo quanto riporta la rivista, "la cella combustibile potrebbe generare falsi risultati positivi solo modificando la chimica del terreno analizzato, riducendo la potenza del flusso attraverso di essa".

Anche se l'innovazione firmata Abreyava uno spiraglio di speranza lo apre. Specialmente considerando le prime esplorazioni su Marte, negli anni ‘70, quando gli scarsi risultati conseguiti in merito alla ricerca di vita extraterrestre spinsero gli esperti a concentrarsi sulla ricerca esclusiva di acqua e di altri materiali, considerati essenziali alla vita.

Federica Vitale

 
 
Articolo segnalato da SidereusNuncius 

mercoledì 23 giugno 2010

Super molecole organiche scoperte nel mezzo interstellare

Un team di scienziati dell'Instituto di Astrofisica delle Canarie (IAC) e l'Università del Texas è riuscita ad identificare una delle più complesse molecole organiche mai trovate nel materiale tra le stelle, il cosiddetto "mezzo interstellare".
La scoperta di antracene potrebbe contribuire a risolvere un mistero vecchio di decenni in materia di produzione di molecole organiche nello spazio. I ricercatori segnalano i loro risultati sugli avvisi mensili della rivista della Royal Astronomical Society. [Foto in alto: immagine della banda di antracene recentemente identificata nella regione di formazione stellare Perseo dai ricercatori IAC e l'Università del Texas. Questa molecola è formata da tre anelli esagonali di atomi di carbonio circondato da atomi di idrogeno. Credito: Gaby Perez e Susana Iglesias-Groth]

"Abbiamo rilevato la presenza di molecole di antracene in una densa nube in direzione della stella Cernis 52 in Perseo, a circa 700 anni luce dal Sole", spiega Susana Iglesias Groth, il ricercatore IAC che ha guidato lo studio.

A suo parere, il passo successivo è quello di indagare la presenza di amminoacidi. Le molecole come l'antracene sono prebiotiche, così quando sono sottoposte a radiazioni ultraviolette e combinate con acqua e ammoniaca, potrebbero produrre amminoacidi e altri composti essenziali per lo sviluppo della vita

"Due anni fa' abbiamo trovato la prova dell'esistenza di un'altra molecola organica, il naftalene, nello stesso luogo, indicando che abbiamo scoperto una regione di formazione stellare ricca di molecole prebiotiche" spiega Iglesias.

Fino ad ora, l'antracene era stato rilevato solo nei meteoriti e mai nel mezzo interstellare.
Forme ossidate di questa molecola sono comuni nei sistemi viventi e sono biochimicamente attivi.

Sul nostro pianeta, l'antracene ossidato è un componente fondamentale dell'aloe e ha proprietà anti-infiammatorie.
La nuova scoperta suggerisce che una buona parte degli elementi chiave nella chimica prebiotica terrestre potrebbero essere presenti nella materia interstellare.

Dal 1980, centinaia di bande trovate nello spettro del mezzo interstellare , noto come bande spettroscopiche, sono note per essere associate con la materia interstellare, ma la loro origine non è stata identificato fino ad ora. Questa scoperta indica che potrebbero derivare da forme molecolari basate sull'antracene o naftalina. Dato che sono ampiamente distribuite nello spazio interstellare, potrebbero aver giocato un ruolo chiave nella produzione di molte delle molecole organiche, presenti al momento della formazione del Sistema Solare.

I risultati si basano sulle osservazioni effettuate presso il William Herschel Telescope a Roque de los Muchachos a La Palma alle Canarie e con il telescopio Hobby-Eberly in Texas negli Stati Uniti.


A cura di Arthur McPaul

Fonte: http://www.astrobio.net/pressrelease/3534/astro-anthracene

Cosa c'è di sbagliato nel Sole?


Le macchie solari vanno e vengono, ma recentemente per lo più se ne sono andate. Per secoli, gli astronomi hanno registrato l´emergere di queste macchie scure sulla superficie solare, solo per vederle scomparire nuovamente dopo pochi giorni, settimane o mesi.

Ma negli ultimi due anni, le macchie solari sono state in parte mancanti. La loro assenza, la più prolungata da quasi cento anni, ha preso gli osservatori del Sole di sorpresa. “Questo è un comportamento solare che non abbiamo visto a memoria d’uomo”, dice David Hathaway, fisico della NASA.
Il sole è sotto controllo come mai prima grazie a una flotta di telescopi spaziali. I risultati ci hanno fatto vedere un Sole piú da vicino sotto una nuova “luce” cosí come la sua influenza sulla Terra. Le macchie solari e altri indizi indicano che l’attività magnetica del sole è in diminuzione e che il sole può anche essere in una fase di profondo declino. 

Insieme ai risultati, questi indizi ci dicono che qualcosa di profondo sta accadendo all’interno del sole. La grande domanda è cosa?
"La posta in gioco non è mai stata così alta. I gruppi di macchie solari preavvisano le gigantesche tempeste solari che possono scatenare un miliardo di volte più energia di una bomba atomica. I timori sono che queste eruzioni solari giganti potrebbero creare il caos sulla Terra, e anche le controversie sul ruolo del sole nel cambiamento climatico, ci indicano l´urgenza di nuovi studi. Quando la NASA e l’Agenzia spaziale europea hanno lanciato il SOHO quasi 15 anni fa, la comprensione del ciclo solare non era uno dei suoi obiettivi scientifici", afferma Bernhard Fleck, scienziato della missione. “Ora è una delle questioni chiave”.
Il Sole si ta comportando male.
Le macchie solari sono le finestre dell’anima magnetica del sole. Qualsiasi modifica del numero delle macchie solari riflettono i cambiamenti all’interno del sole. “Durante questa transizione, il sole ci dà un assaggio vero e proprio del suo interno” dice Hathaway.
Ecco un bel video del Sole:
Quando il numero di macchie solari cade alla fine di ogni ciclo di 11 anni, le tempeste solari si spengono e tutto diventa molto più calmo. Questo “minimo solare” non dura a lungo. Entro sei mesi o un anno al massimo, le macchie e le tempeste iniziano un crescendo verso il nuovo prossimo massimo solare.
C’è di speciale in questo ultimo cambiamento di ciclo il fatto che il sole sta avendo problemi con l’avvio del ciclo. Il sole ha cominciato a calmarsi a fine 2007, così nessuno si aspettava molte macchie solari nel 2008. Ma i modelli di computer avevano previsto che quando le macchie sarebbero ricomparse lo avrebbero fatto con grande forza. Hathaway pensava che il ciclo solare 24 sarebbe stato “pazzesco”: più macchie solari, piú tempeste solari e più energia nello spazio. Altri avevano predetto che sarebbe stato il ciclo record come attivitá.

Il problema é stato che nessuno ha detto al Sole di queste previsioni secondo cui il ciclo 24 avrebbe dovuto avere un record della sua attivitá.
Il primo segno che la previsione era sbagliata è venuto quando anche il 2008 si è rivelato più tranquillo del previsto. Quell’anno, il sole é stato senza macchie per 73% del tempo, un calo estremo anche per un minimo solare. Solo il minimo del 1913 è stata più pronunciato, con l’85% senza macchie. Ma a differenza del 1914 quando é ricominciata la normale attivitá, il 2009 é arrivato e i fisici si aspettavano la ripresa del Sole. E invece l´attivitá ha continuato a languire fino a metà dicembre 2009, quando un grande gruppo di macchie solari é finalmente emerso. Finalmente si sono detti in molti é ripartito.  

Un ritorno alla normalità? Non proprio.
Anche con il ciclo solare “ripartito” il numero di macchie solari è stato finora ben al di sotto delle aspettative.

Qualcosa sembra essere cambiato all’interno del sole, qualcosa che i modelli non hanno anticipato. Ma che cosa?
L’alluvione di osservazioni dallo spazio e i telescopi terrestri suggeriscono che la risposta sta nel comportamento dei due nastri trasportatori all´interno del Sole che permettono al magnetismo di “uscire” verso la superficie. In media ci vogliono 40 anni per i nastri trasportatori per completare un circuito.
Quando il team di Hathaway guardò le osservazioni per scoprire dove i loro modelli erano sbagliati, hanno notato che i flussi di gas verso la superficie del Sole sono stati accelerati dal 2004.

La circolazione in profondità del sole racconta una storia diversa. Rachel Howe e Frank Hill National Solar Observatory di Tucson, in Arizona, hanno utilizzato le osservazioni dei disturbi di superficie, causati dall´equivalente delle onde sismiche nel Sole, e hanno dedotto le condizioni interne del Sole. Analizzando i dati a partire dal 2009, hanno trovato che mentre i flussi di superficie avevano accelerato, quelli interni avevano rallentato andando a “passo d’uomo”.

Questi risultati hanno gettato i modelli computerizzati dell´andamento del sole nel caos. “E ‘certamente impegnativo per le nostre teorie”, spiega Hathaway, “ma la cosa si faceva bella e interessante”.

Non è solo la nostra comprensione del sole che si trova a beneficiare di questo lavoro. Anche la misura in cui l’evoluzione dell´attività del sole può influenzare il nostro clima è estremamente preoccupante e molto controversa. Ci sono coloro che cercano di dimostrare che la variabilità solare è la causa principale dei cambiamenti climatici, un’idea che avrebbe lasciato gli esseri umani e il loro gas ad effetto serra fuori dai guai. Altri sono ugualmente evangelici nella loro affermazioni che il sole ha solo un minuscolo ruolo nel cambiamento climatico.

Se questa controversia potrebbe essere risolta da un esperimento, la strategia ovvia sarebbe quella di vedere che cosa succede quando si spegne una delle cause potenziali dei cambiamenti climatici e lasciare l’altro da solo. Il crollo esteso dell´attività solare di questi ultimi due anni potrebbe essere proprio il giusto tipo di prova, nel senso che ha modificato notevolmente la quantità di radiazione solare che bombarda il nostro pianeta. “Come esperimento naturale, questa è la migliore cosa che poteva accadere”, dice Joanna Haigh, un climatologo presso l’Imperial College di Londra. “Ora dobbiamo vedere come reagisce la Terra”.

Mike Lockwood presso l’Università di Reading, Regno Unito, potrebbe già aver individuato una risposta – “l’inverno insolitamente freddo europeo del 2009/10″. Ha studiato un registro di dati che risalgono al 1650 , e ha rilevato che freddi inverni europei sono molto più probabili durante i periodi di bassa attività solare (New Scientist, 17 aprile, p 6) . Questo si inserisce in un quadro emergente di attività solare dando luogo a un piccolo cambiamento del clima globale complessivo, ma con grandi effetti a livello regionale.
Un altro esempio è il minimo di Maunder, il periodo 1645-1715 durante il quale le macchie solari praticamente scomparvero e l’attività solare crollò. Se una simile di inattività solare sta per iniziare con questo ciclo 24 e proseguire fino al 2100, potrebbe mitigare qualsiasi aumento di temperatura da riscaldamento globale di 0,3 ° C in media , secondo i calcoli da Georg Feulner e Stefan Rahmstorf del Potsdam Institute for Climate Impact Research in Germania. Tuttavia, qualcosa amplificò l’impatto dei minimo di Maunder nel nord Europa, inaugurando un periodo noto come Piccola Età Glaciale, quando gli inverni furono mediamente più freddi e la temperatura media in Europa cadde tra l1 e 2 ° C.
Un impulso corrispondente sembra essere associato con picchi in uscita solare. Nel 2008, Judith Lean del Naval Research Laboratory di Washington DC ha pubblicato uno studio che mostra che l’alta attività solare causa uno sproporzionato riscaldamento sul nord Europa ( Geophysical Research Letters, vol 35, p L18701 ).

Allora perché l’attività solare hanno questi effetti? I modellisti possono già essere sulla strada per dare una risposta. Dal 2003, gli strumenti spaziali misurano l’intensità della irradiazione del sole a varie lunghezze d’onda e alla ricerca di correlazioni con l’attività solare. I risultati indicano che la emissione nel sole della luce ultravioletta è molto variabile molto, molto di più di quanto ci aspettavamo, dice Lockwood.
La luce ultravioletta è fortemente legata all’attività solare: i brillamenti solari sono nell’ultravioletto, e aiutano a portare l’energia esplosiva dei flare lontano nello spazio. Questo potrebbe essere particolarmente significativo per il clima della Terra dato che la luce ultravioletta viene assorbita dallo strato di ozono nella stratosfera.
Più luce ultravioletta raggiunge la stratosfera e più di ozono si forma. E più di ozono nella stratosfera fa assorbire più luce ultravioletta. Così in tempi di accresciuta attività solare, la stratosfera si riscalda e questo influenza i venti in quello strato. “L’ingresso di calore nella stratosfera è molto più variabile di quanto pensassimo”, dice Lockwood.
Concludendo, il riscaldamento della stratosfera potrebbe essere l’effetto accentuato sentito in Europa delle variazioni di attività solare. Già nel 1996, Haigh ha mostrato che la temperatura della stratosfera influenza il passaggio della corrente a getto, il vento d’alta quota che passa da ovest a est per tutta Europa.
Lockwood nel suo più recente studio mostra che quando l’attività solare è bassa, la corrente a getto si rompe in giganteschi meandri che bloccano i caldi venti occidentali che non raggiungono l’Europa, permettendo ai venti artici dalla Siberia di dominare il meteo dell’Europa.

La lezione per la ricerca sul clima è evidente. “Ci sono così tante stazioni meteo in Europa che, se non stiamo attenti, questi effetti solari potrebbero influenzare la nostra media globale”, afferma Lockwood.In altre parole, la nostra comprensione dei cambiamenti climatici globali potrebbero essere falsati se non si tiene conto degli effetti del Sole sul clima europeo.

Proprio quando un mistero comincia a schiarirsi, un altro mistero arriva. Dal suo lancio di 15 anni fa, la sonda SOHO ha guardato due minimi solari, un ciclo solare, e parti di altri due cicli – quello che si è concluso nel 1996 e quello che c’ è adesso. Per tutto quel tempo il suo strumento VIRGO ha misuratol’irradianza solare totale (TSI), cioé l’energia emessa dal sole. Le sue misurazioni possono essere unite insieme con i risultati di precedenti missioni per fornire cosí un registro di 30 anni di produzione di energia del sole. Ciò dimostra che, durante l’ultimo minimo solare, la produzione di sole è stata dello 0,015 per cento inferiore a quella durante il minimo precedente. Potrebbe non sembrare molto, ma è un enorme risultato significativo.
Eravamo soliti pensare che la produzione di sole era incrollabile. Questa tesi ha cominciato a cambiare dopo il lancio nel 1980 della NASA del satellite Solar Maximum Mission. Le sue osservazioni mostrano che la quantità di energia che il sole emette varia di circa il 0,1% su un periodo di giorni o settimane nel corso di un ciclo solare.


Restringimento della stella
Nonostante questa variazione, la STI ha avuta lo stesso livello durante i 3 minimi precedenti mentre così non é successo nel corso di questo minimo allungato. Nonostante il calo osservato sia piccolo, il fatto che è successo è senza precedenti.  
“Questa è la prima volta che abbiamo misurato una tendenza a lungo termine nella irraianza solare totale”, spiega Claus Fröhlich del World Radiation Centre di Davos, in Svizzera, principale investigatore dello strumento VIRGO.

Se l’output dell’energia solare sta cambiando, allora la sua temperatura deve essere troppo fluttuante. Mentre i brillamenti solari riscaldano il gas in superficie, i cambiamenti nel nucleo del sole avrebbero un influsso più importante della temperatura, anche se i calcoli dimostrano che possono passare centinaia di migliaia di anni per vedere gli effetti nella superficie del Sole. Qualunque sia il meccanismo, la minore energia fa “gonfiare” il sole.
Già nel 17 ° secolo l´astronomo francese Jean Picard ha misurato il diametro del sole. Le sue osservazioni sono state effettuate durante il minimo di Maunder, ed ha ottenuto un risultato che mostra come il diametro del Sole fosse stato piú grande del diametro attuale. È stato semplicemente un errore da parte di Picard, o potrebbero realmente che il Sole si sia ridotto da allora?

“Ci sono state un sacco di discussioni animate, e il problema non è ancora risolto”, afferma Gérard Thuillier di Pierre e Marie Curie di Parigi, in Francia.

Osservazioni con telescopi terrestri non sono sufficientemente precisi per risolvere la questione, per l’effetto distorsivo dell´atmosfera terrestre. Così l’agenzia spaziale francese ha progettato una missione, giustamente intitolata Picard , per prendere lemisure precise del diametro del sole e cercare le sue modifiche.
Il lancio del satellite ancora non é avvenuto a causa del disaccordo politico tra Russia e Kazakhstan. Fino a quando la controversia non è risolta, il veicolo spaziale deve attendere. Ogni giorno di ritardo significa perdere dati importanti.

Molti astronomi pensano che il ciclo solare procederà, ma a livelli significativamente minori rispetto alla attività vista nel 19° secolo. Tuttavia, vi è anche la prova che il sole sta inesorabilmente perdendo la sua capacità di produrre macchie solari. Entro il 2015, potrebbero sparire del tutto, al che ci si tuffa in un nuovo minimo di Maunder e forse in una nuova Little Ice Age.

È fondamentale comprendere la mutevolezza del sole e il modo in cui influenza i vari modelli regionali di clima sulla Terra. Gli scienziati del clima saranno quindi in grado di correggere i loro modelli, non solo per interpretare le misurazioni moderne, ma anche quando si cerca di ricostruire il clima che risale a secoli. È solo in questo modo che si può raggiungere un consenso inattaccabile e vero su quanto il Sole influenza a Terra e il suo clima.

La previsione delle macchie solari
Anche se le macchie solari stannopian piano tornando dopo il minimo solare prolungato, i segni sono che non tutto va bene. Per decenni, William Livingston di National Solar Observatory di Tucson, in Arizona, ha misurato la forza dei campi magnetici della superficie del sole. L’anno scorso, lui e la collega di Matt Penn hanno sottolineato che la forza media dei campi magnetici delle macchie solari è diminuita drammaticamente dal 1995.
Se la tendenza continua, in soli cinque anni il campo magnetico non sará piú in grado di formare macchie solari.
Come è probabile che questo accada? Mike Lockwood presso l’Università di Reading, Regno Unito, ha guardato i dati storici cercando simili periodi di inattività solare in determinati isotopi nelle carote di ghiaccio e negli anelli degli alberi. Ha trovato 24 casi simile all´attuale nelle ultime migliaia di anni. In due di queste occasioni, le macchie solari erano del tutto scomparsa da decenni. Lockwood mette la possibilità che ciò accada di nuovo a soli 8%.
Nello studio si vede come per la maggior parte dei casi il sole ha continuato a produrre macchie anche se a livelli significativamente più depressi. Sembra che il filone d’oro delle macchie solari del secolo scorso è finito.

A cura di SAND-RIO

Fonte: http://daltonsminima.wordpress.com/