mercoledì 14 maggio 2014

Scoperto il fratello del nostro Sole



Un team di ricercatori della University of Texas at Austin guidati dall'astronomo Ivan Ramirez ha identificato una stella che quasi certamente è nata dalla stessa nuvola di gas e polveri che ha generato il nostro Sole.

Lo studio di Ramirez ci aiuterà a comprendere meglio la formazione solare e come il nostro Sistema Solare sia diventato ospitale per la vita. Lo studio verrà pubblicato sul numero 1 di giugno dell'Astrophysical Journal.

"Noi vogliamo sapere in quale parte della galassia esso si è formato che ci aiuterà a capire le condizioni del vecchio Sistema Solare e chi siamo noi realmente. Inoltre esiste una piccola possibilità che queste stelle abbiano pianeti che ospitino a loro volta la vita. Nei loro tempi primordiali le collisioni potrebbero aver espulso i pianeti o parti di essi da un sistema stellare all'altro e addirittura i requisiti per la vita con essi.
Questi parenti stretti del Sole potrebbero essere quindi candidati per la ricerca di vita extraterrestre", ha detto Ramirez.
Uno di questi è HD 162826, una stella il 15% più massiccia del Sole localizzata a 110 anni luce da noi nella costellazione di Hercules. La stella non è visibile ad occhio nudo ma facilmente identificabile con un binocolo essendo non lontana sulla volta celeste dalla stella Vega.

HD 162826 è stata studiata tra 30 stelle candidate alla parentela con il Sole da molti team di studiosi attorno sl mondo.
Il team di Ramirez ha studiato 23 di queste stelle a fondo mediante l'Harlan J. Smith Telescope al McDonald Observatory e le rimanenti stelle visibili dall'emisfero sud, grazie al Clay Magellan Telescope del Las Campanas Observatory in Chile.
Tutte queste osservazioni hanno richiesto uno spettroscopio ad alta risoluzione per fornire una profonda conoscenza della loro chimica.

Molti fattori tuttavia sono stati necessari per questo studio oltre all'analisi chimica, come ad esempio le informazioni sull'orbita stellare e la direzione in base al centro della Via Lattea.
Gli esperti del team in questo campo, sono A. T. Bajkova del Pulkovo Astronomical Observatory in St. Petersburg, Russia e V. V. Bobylev della St. Petersburg State University.
Combinando le informazioni chimiche di entrambi e le dinamiche delle candidate è uscita una con tutte le caratteristiche: HD 162826.

Grazie ad una serie di fortunate coincidenze, questa stella era già stata largamente studiata dal McDonald Observatory Planet Search team per oltre 15 anni per cercare attorno ad essa dei pianeti extrasolari.
Ramirez vorrebbe creare una mappa con tutte le stelle parenti del nostro Sole, formatesi dalla stessa nebulosa gassosa. Molte di queste potrebbero essere ancora vicine come ad esempio HD 162826.
Le stelle con queste caratteristiche, secondo Ramirez, potrebbero essere oltre 10,000 e andranno analizzate una per una, magari concentrando la ricerca su un dettaglio chimico comune, tra cui la presenz di Bario e dell'Ittrio.

Solo quando molte stelle del genere saranno state identificate, gli astronomi potranno fare un passo in avanti verso la comprensione di come anche il Sole si sia formato.
Per raggiungere questo obiettivo gli scienziati dovranno creare dei modelli simulando le orbite di tutte le stelle parenti del Sole note, portandole indietro nel tempo per scoprire dove fu il loro luogo di nascita.

Fonti:
- I. Raḿirez, A. T. Bajkova, V. V. Bobylev, I. U. Roederer, D. L. Lambert, M. Endl, W. D. Cochran, P. J. Macqueen, R. A. Wittenmyer. "Elemental Abundances of Solar Sibling Candidates. Astrophysical Journal, 2014

- MLA APA Chicago
University of Texas at Austin. "Astronomers find sun's 'long-lost brother,' pave way for family reunion."

- ScienceDaily. ScienceDaily, 10 May 2014. www.sciencedaily.com/releases/2014/05/140510151703.htm.

A cura di Arthur McPaul

sabato 10 maggio 2014

Un Meteorite Distrusse il Canada



Secondo i ricercatori del Geological Alberta e della University of Alberta, un'antica struttura ad anello nel sud dell'Alberta (Canada) potrebbe essere stato creato dall'impatto di un meteorite di otto chilometri di diametro.

Il team di geologi guidati da Doug Schmitt del Canada Research ha studiato l'area, un tempo ricoperta da antichi ghiacciai che che potrebbero aver sepolto e eroso gran parte delle prove, ostacolando l'accertamento della natura della struttura geologica.

Secondo il geologo Schmitt presso la Facoltà di Scienze e co-autore di un nuovo documento sulla scoperta:
"L'impatto potrebbe essersi verificato negli ultimi 70 milioni di anni e in quel momento furono erosi circa 1,5 km di sedimenti.
Tuttavia le "radici" del cratere, hanno lasciato una depressione semicircolare di otto chilometri con un picco centrale. Il cratere probabilmente raggiuse una profondità tra gli 1,6 e i 2,4 km, che secondo I calcoli di Wei Xie (uno studente laureato coinvolto nello studio) avrebbero avuto conseguenze devastanti per la vita nella zona.

"Un impatto di questa portata avrebbe ucciso tutto per una certa distanza" ha detto.
"Se fosse accaduto oggi, la città di Calgary (posta a 200 chilometri a nord-ovest ) sarebbe stata completamente distrutta e Edmonton (500 km a nord ovest ) , sarebbe stata soffiata fuori. Un oggetto di quelle dimensioni, lanciando detriti nell'atmosfera avrebbe potenzialmente causato conseguenze climatiche globali per decenni".

Il luogo dell'impatto è stato scoperto nel 2009 dal geologo Paolo Glombick, che all'epoca stava lavorando su una carta geologica della zona per il Geological Survey Alberta. Glombick basó i suoi dati di geofisici esistenti dall'industria petrolifera e del gas quando scoprì una struttura a forma di ciotola.
Il Geological Survey di Alberta contattó Schmitt per compiere ulteriori studi. L'allievo di Schmitt, Todd Brown, ha poi confermato una struttura a forma di cratere.

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2014/05/140507105023.htm

Foto in alto:
Questa mappa mostra la struttura e il contorno del cratere Bow City. Le variazioni di colore mostrano in particolare l'altimetria sul livello del mare.
Credit: Alberta Geographic Survey/University of Alberta

venerdì 9 maggio 2014

Fuori i vecchi, dentro i giovani

La nebulosa Fiamma e il suo ammasso stellare studiato da Chandra. Crediti: NASA

Astronomi della Penn State University hanno concentrato le loro osservazioni su due ammassi stellari per capire come si formino gruppi di stelle simili al nostro Sole. I risultati delle osservazioni hanno mostrato che le stelle localizzate nelle aree periferiche degli ammassi osservati, contrariamente a quanto fino ad oggi teorizzato, sono più vecchie di quelle che si trovano al centro.

Una ricerca condotta nell’ambito del Progetto “Massive Young Star-Forming Complex Study in Infrared and X-ray della Penn State University grazie ai dati forniti dall’osservatorio orbitante della NASA Chandra – studiato per l’osservazione dell’emissione di raggi-X da regioni ad alta energia dell’Universo – ha permesso di fare un passo in avanti nella comprensione del processo di formazione degli ammassi stellari. I dati raccolti dimostrano che le teorie finora sviluppate al riguardo non trovano conferma.

La teoria fino ad oggi accettata sostiene che nel momento in cui una nube gigante di gas e polveri si condensa, la sua regione centrale attrae materiale fino a raggiungere la densità critica utile a dare l’innesco al processo di formazione stellare. Il fatto che tale processo abbia inizio dal centro della nube implicherebbe che le stelle localizzate in tale area dell’ammasso debbano essere le prime a formarsi e, dunque, le più anziane. Ma i dati raccolti attraverso le osservazioni di Chandra danno indicazioni differenti.

I ricercatori hanno concentrato l’attenzione su due ammassi stellari nei quali la formazione di stelle simili al nostro Sole è tutt’ora in corso, ovvero NGC 2024, ammasso osservabile al centro della Nebulosa Fiamma, e l’ammasso stellare nella Nebulosa di Orione. I dati raccolti indicano che le stelle più antiche, contrariamente alle aspettative, sono quelle localizzate nella “periferia” degli ammassi stellari osservati.

Secondo il ricercatore della Penn State University Konstantin Getman, alla guida dello studio, i risultati ottenuti dall’analisi dei dati raccolti sarebbero controintuitivi, implicando la necessità che vengano sviluppate ulteriori e differenti teorie riguardo la formazione di stelle negli ammassi.

Per stimare l’età delle stelle presenti negli ammassi osservati il team guidato da Getman ha sviluppato una metodologia in due fasi: prima si è proceduto a stabilire quale fosse la massa della stella attraverso la misurazione della sua luminosità nei raggi X grazie ai dati forniti da Chandra, successivamente se ne è determinata la luminosità attraverso l’osservazione nell’infrarosso dai telescopi a terra e dai dati forniti dallo Spitzer Space Telescope della NASA. Combinando queste informazioni i ricercatori hanno stimato l’età delle stelle presenti nei due ammassi analizzati.

Come detto i risultati sono stati opposti a quelli che ci si aspettava di raccogliere. L’età delle stelle situate al centro dell’ammasso NGC 2024 è risultata mediamente essere di circa 200.000 anni, mentre quelle situate alla periferia dell’ammasso sarebbero lì – per così dire – da 1 milione e mezzo di anni, due milioni ai margini più estremi.

Un altro ricercatore del team, Eric Feigelson, aggiunge che la conclusione fondamentale che si trae dallo studio è che la teoria sulla formazione degli ammassi stellari fino ad oggi seguita – quella per intenderci che modellizza un processo da dentro a fuori – è ormai superata e che quindi occorre sviluppare modelli più complessi sulla base dei dati che gli studi mettono a disposizione. Le argomentazioni che gli astronomi hanno sviluppato per motivare le ragioni dei risultati presentati nello studio della Penn State sono principalmente tre.

La prima teoria sviluppata al riguardo argomenta che la formazione di stelle continua nelle regioni interne dell’ammasso in ragione della maggiore densità dei gas presenti in tale area, densità che aggrega una quantità di materiale maggiore rispetto alle aree periferiche e che, come ricordato, è utile all’innesco del processo di formazione stellare. Nel tempo, se la densità scende sotto una soglia tale da permettere l’avvio di tale processo, la formazione di nuove stelle cesserà a partire dalle aree più esterne dell’ammasso, continuando nelle aree più interne e spiegando quindi la concentrazione in tale area di stelle più giovani.

Un’altra idea sostiene che le stelle più anziane abbiano avuto più tempo per allontanarsi dal centro dell’ammasso, magari a causa dell’interazione con le altre stelle dell’ammasso. L’ultima delle nuove teorie sviluppate al riguardo sostiene che i dati raccolti sarebbero spiegabili se la formazione delle giovani stelle avvenisse nei massicci filamenti gassosi che precipitano verso il centro della nube. Precedenti studi condotti sulla Nebulosa di Orione, anche se troppo limitati per essere significativi, avrebbero già fornito indizi di questa distribuzione delle stelle in modo inverso rispetto a quanto ci si aspettava. Lo studio condotto dal team della Penn State University fornisce la prima prova effettiva di questa distribuzione nella Flame Nebula. Il prossimo passo dovrà essere dunque quello di allargare le osservazioni ad altri giovani ammassi stellari per trovare conferma di quanto osservato e stabilire quale sia la spiegazione corretta.

Fonte: http://www.media.inaf.it/2014/05/09/fuori-i-vecchi-dentro-i-giovani/
a cura di: di Francesca Aloisio
venerdì 9 maggio 2014 @ 16:57

giovedì 8 maggio 2014

Illustris ci mostra il vero volto dell'Universo



Gli astronomi dello Smithsonian Center for Astrophysics hanno fornito una istantanea dell'aspetto reale dell'Universo grazie ad una simulazione al computer, chiamata IIllustris.

"Fino ad ora, nessuna simulazione era stata in grado di riprodurre l'Universo su grandi e piccole scale simultaneamente", ha detto l'autore Mark Vogelsberger (MIT / Harvard - Smithsonian Center for Astrophysics) che ha condotto il lavoro in collaborazione con i ricercatori presso diverse istituzioni, tra cui l'Istituto per gli studi teorici di Heidelberg in Germania.
Questi risultati sono stati riportati nel numero 8 maggio della rivista Nature.

I precedenti tentativi erano stati ostacolati dalla mancanza di potenza di calcolo e dalla complessità della fisica sottostante. Come risultato tali programmi avevano scarsa risoluzione o eravo costretti a concentrarsi su una piccola porzione dell'Universo.
Le simulazioni precedenti avevano anche difficoltà a modellare le complesse dinamiche della formazione stellare, le esplosioni di supernovae e buchi neri supermassicci. Illustris impiega un sofisticato software per ricreare l'evoluzione dell'Universo in alta fedeltà.
Esso comprende sia la materia normale che la materia oscura con 12 miliardi pixel in 3D, che ha richiesto ben cinque anni di studi.

I calcoli attuali hanno impiegato ben 3 mesi, utilizzando un totale di 8.000 CPU in esecuzione simultanea. Se avessero usato un computer di casa, i calcoli avrebbero richiesto oltre 2.000 anni di tempo percessere conpletati.
La simulazione al computer è iniziata solo 12 milioni di anni dopo il Big Bang. Alle attuali dimensioni gli astronomi hanno contato più di 41.000 galassie nel cubo di spazio simulato. È importante sottolineare che Illustris ha prodotto un mix realistico di galassie a spirale come la Via Lattea e le galassie ellittiche a forma di pallone.
Ha inoltre ricreato strutture su larga scala, come gli ammassi di galassie e le bolle e i vuoti della rete cosmica. Su piccola scala, ha invece ricreato con precisione la chimiche delle singole galassie.
Dal momento che la luce viaggia a una velocità fissa, una galassia di un miliardo di anni luce di distanza è vista com'era un miliardo di anni fa.
I telescopi come Hubble possono darci una vista dell'Universo primordiale, cercando a distanze maggiori.
Tuttavia, gli astronomi non possono utilizzare Hubble per seguire l'evoluzione di una singola galassia nel corso del tempo.
"Illustris è come una macchina del tempo. Possiamo andare avanti e indietro nel tempo.
Siamo in grado di mettere in pausa la simulazione e lo zoom in una singola galassia o ammasso di galassie per vedere cosa sta realmente accadendo", ha detto il co-autore Shy Genel del TUF.

Foto in alto:
Questa immagine realizzata da Illustris è centrata su una dei più massicci ammassi di galassie esistenti oggi
I filamenti blu porposa rappresentano la matera oscura che attrae la normale materia gravitazionalmente e aiuta le galassie e gli ammassi a restare uniti. Le bolle rosse, arancioni e bianche rappresentano invece il gas espulso dalle supernovae o i getti dai buchi neri super massicci.

Credit: Illustris Collaboration

Fonte:
Materiali fornito dall'Harvard - Smithsonian Center for Astrophysics.

http://www.sciencedaily.com/releases/2014/05/140507142849.htm

Giornale di riferimento:
M. Vogelsberger, S. Genel , V. Springel , P. Torrey, D. Sijacki, D. Xu , G. Snyder, S. Bird, D. Nelson , L. Hernquist . Proprietà delle galassie riprodotte da una simulazione idrodinamica .
Nature , 2014; 509 (7499) : 177 DOI : 10.1038/nature13316

mercoledì 7 maggio 2014

Osservata per la prima volta la Materia DIM



Gli astronomi del Caltech Institute hanno ripreso le immagini inedite del mezzo intergalattico (IGM), il gas diffuso che collega le galassie in tutto l'Universo, con il Cosmic Web Imager (sviluppato dal professor Christopher Martin) posto sulla Hale da 200 pollici del telescopio Palomar Observatory.

Dalla fine degli anni '80 e primi del '90, i teorici hanno previsto che il gas primordiale del Big Bang non fosse distribuito uniformemente in tutto lo spazio ma che lo fosse in canali che attraversano le galassie e scorrono tra di loro.
Questa "rete cosmica" detta IGM è una rete di filamenti più piccoli e più grandi che si incrociano l'un l'altro attraverso la vastità dello spazio e indietro nel tempo fino ad un'epoca in cui le galassie si stavano ancora formando e le stelle venivano prodotte ad un ritmo vertiginoso.

Martin descrive il gas diffuso della IGM come "materia debole", per distinguerla dalla materia luminosa di stelle e galassie e dalla materia e dall'energia oscura che compongono la maggior parte dell'Universo.
Anche se si potrebbe non pensare così in una luminosa giornata di sole o anche una notte stellata, il 96% della massa e dell'energia nell'Universo è energia oscura e materia oscura (teorizzata da Caltech Fritz Zwicky nel 1930), la cui esistenza è nota solo a causa dei suoi effetti sul restante 4% del visibile.
Di questo 4% che è la materia normale, solo un quarto è costituito da stelle e galassie, gli oggetti luminosi che illuminano il nostro cielo notturno.

Il resto, è l'IGM o "materia dim" che è difficile da vedere. Prima dello sviluppo del Cosmic Web Imager , l'IGM è stata osservato principalmente tramite l'assorbimento in primo piano della luce, attraverso ad esempio la Terra e un oggetto distante come un quasar (il nucleo di una giovane galassia) .
"Quando si guarda il gas tra noi e un quasar, si ha una sola linea di vista", spiega Martin. "Sai che c'è qualche gas più lontano, c'è qualche gas più vicino e ci sono alcuni gas nel mezzo, ma non c'è alcuna informazione su come il gas sia distribuito nelle tre dimensioni".

Matt Matuszewski, un ex studente laureato presso Caltech che ha contribuito a costruire il Cosmic Imager Web ed è ora uno scienziato al Caltech, paragona questa visione come osservare un paesaggio urbano complesso attraverso alcune strette fessure in un muro. Solo aprendo la fessura si può vedere che ci sono edifici, grattacieli, strade, ponti, auto e persone a piedi per le strade. Solo scattando una foto si può capire come tutti questi componenti si incastrino e sapere che si sta guardando una città".
Martin e il suo team hanno ora visto il primo assaggio della città di materia dim. Non è piena di grattacieli e ponti ma è sia visivamente che scientificamente emozionante.

I primi filamenti cosmici osservati dal Cosmic Web Imager sono nelle vicinanze di due oggetti molto luminosi: un quasar etichettato QSO 1549 +19 e un cosiddetto < b>blob Lyman Alpha
in un ammasso di galassie emergente conosciuta come SSA22. Questi oggetti sono stati scelti da Martin per le osservazioni iniziali perché sono luminosi e permetteno all'IGM di rilevarne il segnale rilevabile .

Le osservazioni mostrano un filamento sottile, lungo un milione di anni luce che scorre nel quasar, forse alimentando la crescita della galassia che ospita il quasar.
Nel frattempo, vi sono tre filamenti che circondano il blob Lyman Alpha, con una rotazione che mostra come il gas da questi filamenti defluisca verso il blob alterandone le dinamiche.

Il Cosmic Web Imager è un imager spettrografico, che scatta foto a molte lunghezze d'onda differenti simultaneamente. Questa è una tecnica potente per indagare oggetti astronomici, in quanto rende possibile vederli ma anche conoscerne la loro composizione, la massa e la velocità.
Nelle condizioni previste per i filamenti della rete cosmica, l'idrogeno è l'elemento dominante ed emette luce alla lunghezza d'onda ultravioletta chiamate Lyman alpha.
Il blocco dell'atmosfera terrestre per la luce a lunghezze d'onda ultraviolette, obbliga ad essere al di fuori di essa per osservarli, come ad esempio da un satellite o da un palloncino ad alta quota.
Tuttavia, se l'emissione Lyman Alfa risulta molto più lontano da noi, cioè, ci viene da un tempo precedente nell'Universo, poi arriva ad una lunghezza d'onda maggiore (un fenomeno noto come redshifting m) . Questo porta il segnale alfa Lyman nello spettro visibile tale da poter passare attraverso l'atmosfera ed essere rilevato da telescopi terrestri come il Cosmic Web Imager.

Gli oggetti osservati dal Cosmic Web Imager sono posti a circa 2 miliardi di anni dopo il Big Bang, un tempo di rapida formazione stellare nelle galassie.
"Nel caso della blob Lyman Alpha" dice Martin, "Penso che stiamo guardando un disco protogalattico gigante di quasi 300.000 anni luce di diametro, tre volte le dimensioni della Via Lattea".

Il Cosmic Web Imager è stato finanziato dalle sovvenzioni dal NSF e Caltech. Dopo aver implementato con successo lo strumento presso l'Osservatorio Palomar, il gruppo di Martin sta sviluppando una versione più sensibile e versatile dell'Imager Web Cosmic per l'uso sul WM Keck Observatory di Mauna Kea alle Hawaii. I filamenti gassosi e le strutture che vediamo intorno al quasar e al blob Lyman Alpha sono insolitamente brillanti. Il nostro obiettivo è quello di essere finalmente in grado di vedere il mezzo intergalattico ovunque", dice Martin .
I piani sono in corso anche per le osservazioni della IGM da un telescopio a bordo di un pallone d'alta quota, il FIREBALL ( Faint Intergalactic redshift Emission Balloon ) e da un satellite l'ISTOS (Imaging Telescope spettroscopica Origins Survey).

In virtù di bypassare la maggior parte della nostra atmosfera i due strumenti permetteranno di osservare l'emissione Lyman Alpha e quindi l' IGM che sono più vicini a noi, cioè che provengono da epoche più recenti dell'Universo.

Fonte:
La storia di cui sopra si basa su materiali forniti dal California Institute of Technology. L'articolo originale è stato scritto da Cynthia Eller.
http://www.sciencedaily.com/releases/2014/04/140429185005.htm

Foto d'apertura:
Immagine del blob Lyman Alpha osservato dal Cosmic Web Imager e una simulazione della rete cosmica basata sulle previsioni teoriche.
Credit: Christopher Martin, Robert Hurt

Traduzione e adattamento a cura di Arthur McPaul

Foto di apertura
I dati del Chandra X-ray Observatory della NASA sono stati utilizzato per scoprire 26 candidati buchi neri nel vicino galattico della Via Lattea, Andromeda. (Credit: X-ray: NASA / CXC / SAO / R Barnard, Z. Lee et al, Ottico:.. NOAO / AURA / NSF / REU Program / B. Schoening, V. Harvey e Descubre Foundation / CAHA / OAUV / DSA / V. Peris)

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2013/06/130612154019.htm