Così doveva apparire la stella, secondo i ricercatori dell’università di Warwick, quando un buco nero al centro d’una galassia a 3.8 miliardi di anni luce di distanza ha iniziato a distruggerla, producendo l’esplosione battezzata Sw 1644+57. Crediti: University of Warwick / Mark A. Garlick
Sulla sedia del regista c’è seduta solo lei, la fisica. Ma la sceneggiatura che le sue asettiche leggi hanno concepito, ripercorsa in due articoli in uscita domani su Science, è degna d’un film di Quentin Tarantino. Un horror che ha inizio 3.8 miliardi d’anni fa, quando una stellina incauta – grande grosso modo come il nostro Sole – vìola la soglia fra il quotidiano tran tran dei tempi cosmici e la catastrofe. È un’invisibile linea rossa, e demarca la zona di sicurezza attorno all’enorme buco nero situato al centro d’una galassia remota. Nell’esatto istante dello sconfinamento, scattano silenziosi i meccanismi inesorabili della forza di gravità. E per la malcapitata stellina non c’è più scampo. La morte è di quelle atroci, più da antilope nella savana che da palla di gas infocato nel vuoto interstellare: lacerata, fatta a pezzi e infine divorata dall’insostenibile attrazione gravitazionale del buco nero. Il quale, a banchetto ancora in corso, ha pensato bene di rigurgitare una parte del pasto in forma di radiazione gamma, generando un fascio collimato di potenza inimmaginabile rivolto esattamente verso la Terra.
Gli scienziati non ne hanno la certezza assoluta, ma dovrebbe essere andata più o meno così. «Al momento, la sola ipotesi che abbiamo per spiegare la dimensione, l’intensità, la scala temporale e il livello di fluttuazioni dell’evento che abbiamo osservato», dice infatti Andrew Levan, dell’Università di Warwick, primo autore di uno dei due paper, «è che un buco nero massiccio, nel cuore di quella galassia, abbia attratto una stella di grandi dimensioni e l’abbia fatta a pezzi per effetto della marea gravitazionale. Il buco nero rotante, a quel punto, ha generato due getti, uno dei quali puntato dritto dritto verso la Terra».
Quel che è certo è che il 28 marzo scorso, dopo un viaggio durato quasi quattro miliardi di anni, il gamma-ray flash Sw 1644+57 – questo il nome in codice del “proiettile” – ha colpito in pieno i sensori del satellite Swift della NASA (con partecipazione italiana e inglese), mettendo in stato d’allerta i cacciatori di lampi gamma di mezzo mondo. A quel punto è partita l’indagine, spiega Gianpiero Tagliaferri, ricercatore all’INAF-Osservatorio astronomico di Brera e responsabile italiano di Swift: «All’inizio è stato classificato come un GRB, un gamma-ray burst, l’atto finale della morte d’una stella massiccia. Ma dopo un paio di giorni si è notato che la sorgente rimaneva molto attiva, sia nella banda gamma sia soprattutto nella banda X. Quindi si è capito che non poteva essere un lampo di raggio gamma. Si è pensato, allora, che potesse essere un transiente nella nostra galassia. Successive osservazioni, però, hanno stabilito che si trattava di un evento avvenuto in un’altra galassia, lontana dalla nostra miliardi di anni luce».
I dati raccolti in un secondo tempo dallo Hubble Space Telescope e dall’osservatorio spaziale per raggi X Chandra hanno infatti rafforzato l’ipotesi, già suggerita dall’astrofisico di Berkeley Joshua Bloom ad appena tre giorni dalla prima rilevazione del flare, che non si trattava d’un classico GRB, bensì d’una porzione (circa il 10%) della massa d’una stella trasformata in energia da un buco nero, e irradiata in banda X dal suo disco d’accrescimento, o sotto forma di jet relativistico X e gamma allineato con il suo asse di rotazione. «Un evento esplosivo completamente diverso da tutti quelli visti prima», commenta ora Bloom, alla guida del team che ha curato il secondo paper uscito su Science.
Pur trovandoci esattamente al centro del mirino, in quest’occasione noi terrestri non abbiamo però corso alcun pericolo, garantisce Tagliaferri: «Con i gamma-ray burst, riceviamo fasci simili tutti i giorni, ma arrivano da distanze troppo grandi per comportare rischi. Certo, se un evento simile si fosse verificato con il buco nero al centro della nostra galassia, e fosse stato indirizzato verso di noi, avrebbe potuto anche distruggere la vita sulla Terra. Ma la probabilità che ciò avvenga è irrisoria». Così com’è completamente implausibile che sia il nostro Sole a far da antipasto al buco nero che si trova nel cuore della Via Lattea. «Il centro della galassia dista da noi circa diecimila parsec. Ora, un singolo parsec è più di tre anni luce, dunque stiamo parlando di distanze enormi. Pur muovendosi all’interno della galassia a velocità molto elevata, il Sole non andrà mai a finire vicino al buco nero centrale».
A cura di Marco Malaspina
Sulla sedia del regista c’è seduta solo lei, la fisica. Ma la sceneggiatura che le sue asettiche leggi hanno concepito, ripercorsa in due articoli in uscita domani su Science, è degna d’un film di Quentin Tarantino. Un horror che ha inizio 3.8 miliardi d’anni fa, quando una stellina incauta – grande grosso modo come il nostro Sole – vìola la soglia fra il quotidiano tran tran dei tempi cosmici e la catastrofe. È un’invisibile linea rossa, e demarca la zona di sicurezza attorno all’enorme buco nero situato al centro d’una galassia remota. Nell’esatto istante dello sconfinamento, scattano silenziosi i meccanismi inesorabili della forza di gravità. E per la malcapitata stellina non c’è più scampo. La morte è di quelle atroci, più da antilope nella savana che da palla di gas infocato nel vuoto interstellare: lacerata, fatta a pezzi e infine divorata dall’insostenibile attrazione gravitazionale del buco nero. Il quale, a banchetto ancora in corso, ha pensato bene di rigurgitare una parte del pasto in forma di radiazione gamma, generando un fascio collimato di potenza inimmaginabile rivolto esattamente verso la Terra.
Gli scienziati non ne hanno la certezza assoluta, ma dovrebbe essere andata più o meno così. «Al momento, la sola ipotesi che abbiamo per spiegare la dimensione, l’intensità, la scala temporale e il livello di fluttuazioni dell’evento che abbiamo osservato», dice infatti Andrew Levan, dell’Università di Warwick, primo autore di uno dei due paper, «è che un buco nero massiccio, nel cuore di quella galassia, abbia attratto una stella di grandi dimensioni e l’abbia fatta a pezzi per effetto della marea gravitazionale. Il buco nero rotante, a quel punto, ha generato due getti, uno dei quali puntato dritto dritto verso la Terra».
Quel che è certo è che il 28 marzo scorso, dopo un viaggio durato quasi quattro miliardi di anni, il gamma-ray flash Sw 1644+57 – questo il nome in codice del “proiettile” – ha colpito in pieno i sensori del satellite Swift della NASA (con partecipazione italiana e inglese), mettendo in stato d’allerta i cacciatori di lampi gamma di mezzo mondo. A quel punto è partita l’indagine, spiega Gianpiero Tagliaferri, ricercatore all’INAF-Osservatorio astronomico di Brera e responsabile italiano di Swift: «All’inizio è stato classificato come un GRB, un gamma-ray burst, l’atto finale della morte d’una stella massiccia. Ma dopo un paio di giorni si è notato che la sorgente rimaneva molto attiva, sia nella banda gamma sia soprattutto nella banda X. Quindi si è capito che non poteva essere un lampo di raggio gamma. Si è pensato, allora, che potesse essere un transiente nella nostra galassia. Successive osservazioni, però, hanno stabilito che si trattava di un evento avvenuto in un’altra galassia, lontana dalla nostra miliardi di anni luce».
I dati raccolti in un secondo tempo dallo Hubble Space Telescope e dall’osservatorio spaziale per raggi X Chandra hanno infatti rafforzato l’ipotesi, già suggerita dall’astrofisico di Berkeley Joshua Bloom ad appena tre giorni dalla prima rilevazione del flare, che non si trattava d’un classico GRB, bensì d’una porzione (circa il 10%) della massa d’una stella trasformata in energia da un buco nero, e irradiata in banda X dal suo disco d’accrescimento, o sotto forma di jet relativistico X e gamma allineato con il suo asse di rotazione. «Un evento esplosivo completamente diverso da tutti quelli visti prima», commenta ora Bloom, alla guida del team che ha curato il secondo paper uscito su Science.
Pur trovandoci esattamente al centro del mirino, in quest’occasione noi terrestri non abbiamo però corso alcun pericolo, garantisce Tagliaferri: «Con i gamma-ray burst, riceviamo fasci simili tutti i giorni, ma arrivano da distanze troppo grandi per comportare rischi. Certo, se un evento simile si fosse verificato con il buco nero al centro della nostra galassia, e fosse stato indirizzato verso di noi, avrebbe potuto anche distruggere la vita sulla Terra. Ma la probabilità che ciò avvenga è irrisoria». Così com’è completamente implausibile che sia il nostro Sole a far da antipasto al buco nero che si trova nel cuore della Via Lattea. «Il centro della galassia dista da noi circa diecimila parsec. Ora, un singolo parsec è più di tre anni luce, dunque stiamo parlando di distanze enormi. Pur muovendosi all’interno della galassia a velocità molto elevata, il Sole non andrà mai a finire vicino al buco nero centrale».
A cura di Marco Malaspina
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