venerdì 21 novembre 2014

Tracce Organiche su Marte: non c'è contaminazione!



La materia organica di recente rilevata dal rover Curiosity della NASA, non sarebbe stata contaminata dalla Terra.

Un team di scienziati tedeschi e britannici ha suggerito che il composto gassoso provenga dal suolo di Marte e che il carbonio e l'idrogeno, probabilmente derivino da meteoriti che caddero sulla superficie del pianeta. Questa ipotesi è supportata da misurazioni isotopiche effettuate dagli scienziati in cui sarebbero stati replicati alcuni degli esperimenti del lander su Marte.

La questione se vi sia sostanza organica su Marte, un requisito essenziale per la vita, è stato dibattuto dalla comunità scientifica per un lungo periodo. Per risolvere questo problema, il rover della NASA Curiosity, che è atterrato su Marte nel mese di agosto del 2012, ha condotto numerose indagini sul suolo. A seguito del riscaldamento di alcuni campioni di terreno, furono ritrovate delle semplici molecole organiche. Una delle sostanze rilevate fu il clorometano, contenente atomi di carbonio, idrogeno e cloro. Secondo gli esperti della NASA, tuttavia, questo composto potrebbe essersi formato durante gli esperimenti di riscaldamento del suolo ovvero da una reazione tra perclorati nel suolo marziano e una sostanza chimica a bordo. Così, anche se il cloro nel diclorometano provenisse da Marte, il carbonio e l'idrogeno furono considerati riportati dal rover Curiosity.

È interessante notare che questo tipo di materiale organico era stato anche individuato in precedenti esperimenti durante la missione di Viking nel 1976, ma fu considerato una contaminazione terrestre.
Il team tedesco-britannico di scienziati guidati dal Prof. Keppler ha studiato se ci possa essere un'altra spiegazione per le osservazioni di clorometano su Marte. Ha ipotizzato che il composto organico di clorurato gassoso sia derivato dal suolo marziano mentre il carbonio e l'idrogeno siamo giunti da meteoriti. Per sostenere la loro ipotesi, i ricercatori hanno esaminato campioni provenienti da un meteorite di un 4,6 miliardi di anni che cadde sulla terra nel 1969 nei pressi della città australiana di Murchison. Secondo il Prof. Keppler questo materiale meteoritico contiene il due per cento di carbonio. Esperti spaziali presuppongono che una quantità relativamente grande di micrometeoriti con una composizione simile a quella di Murchison cade sulla superficie di Marte ogni anno.

Quando Frank Keppler ed i suoi colleghi hanno riscaldato il materiale meteoritico di Murchison in presenza di cloro hanno osservato la formazione di diclorometano. "Il rapporto pesante tra gli atomi di carbonio pesante e di idrogeno leggeri, noti come l'impronta digitale isotopica di un gas, mostrano chiaramente che il materiale organico ha un'origine extraterrestre" dice il Prof. Keppler. Gli scienziati hanno trasferito i loro risultati alle condizioni della superficie di Marte che ricevono meteoriti di composizione analoga. "Quindi il clorometano che è stato trovato da due distinte missioni su Marte potrebbe essersi formato sul suolo marziano, mentre il carbonio e l'idrogeno avrebbero avuto origine dalle micrometeoriti che piovono su Marte", ha spiegato il Prof. Keppler.

"Tuttavia, non si può escludere che gli ipotetici microrganismi vissuti sul pianeta, possano aver fornito una frazione della sostanza organica". Lo scienziato Heidelberg presuppone che in future missioni su Marte l'impronta isotopica del diclorometano potrebbe determinare se la sua origine è proveniente da materiale organico di natura marziana o se sia stato depositato da meteoriti o contaminato dai lander inviati dalla Terra.

Frank Keppler guida il gruppo di lavoro di biogeochimica presso l'Istituto di Heidelberg Università degli Studi di Scienze della Terra. Oltre agli scienziati di Heidelberg hanno contribuito a questa ricerca anche gli esperti del Max Planck Institute di Chimica a Magonza e alla Scuola di Scienze Biologiche presso Queen University di Belfast.

Traduzione a cura di Vito Di Paola

Fonte
http://www.sciencedaily.com/releases/2014/11/141113110018.htm







sabato 15 novembre 2014

Il Magnetismo del Sistema Solare




Per quanto ne sappiamo, un sistema planetario alle sue origini non è altro che un vortice di gas e polveri. Vero è anche che nel corso di pochi milioni di anni questi gas vengono risucchiati al centro del vortice e danno vita una stella, mentre le polveri restanti si addensano in grumi più o meno grandi, come mattoncini buoni per la formazione dei pianeti.

Il tutto avviene piuttosto rapidamente. Gli astronomi osservano da tempo i fenomeni di evoluzione dei dischi protoplanetari in tutta la Galassia (anche il nostro Sistema Solare ha vissuto una storia analoga), la ragione per cui i dischi planetari evolvano in maniera così rapida è però rimasto un mistero.

A uscire dalla mera speculazione ecco però i ricercatori del Massachusetts Institute of Technology: dal loro lavoro di ricerca emerge una prima evidenza sperimentale, cioè che il disco protoplanetario da cui ha avuto origine il Sistema Solare è stato plasmato da un potente campo magnetico, quello stesso che ha spinto massicciamente i gas nel Sole in pochi milioni di anni. Lo stesso campo magnetico, poi, potrebbe aver spinto l’uno contro l’altro gli ammassi di polveri andando a formare i ‘semi’ iniziali da cui sono fioriti i pianeti del sistema. L’ipotesi appare sul numero corrente di Science.

I ragazzi del MIT hanno concentrato la loro attenzione sul meteorite Semarkon, una roccia spaziale caduta sul cielo dell’India settentrionale nel lontano 1940 e considerata una delle reliquie cosmiche meglio conservate – e incontaminate – del Sistema Solare. Nel corso degli esperimenti sono stati estratti una serie di campioni dal meteorite. Di ogni frammento è stato accuratamente misurato il campo magnetico per stabilirne le variazioni fin dai tempi della costituzione del disco galattico. Cosa che non è avvenuta: siamo di fronte a un meteorite conservatosi inalterato.

Quanto all’intensità di questo campo magnetico, ecco il dato strabiliante: oscilla fra i 5 e i 54 microtesla. Vale a dire fino a 100.000 volte più potente di quello rilevabile oggi nello spazio interstellare. Un super campo magnetico capace di dare forma all’ammasso di gas e accelerare i processi di formazione stellare. Due teorie ipotizzabili sulla formazione del disco planetario: l’instabilità magnetorotazionale, cioé una forte turbolenza del campo magnetico che ha spinto il gas verso il sole, o che questo si sia concentrato sul sole attraverso un processo più ordinato, come il percorso del campo magnetico a forma di clessidra.

«Dare conto dei tempi rapidi in cui sistema planetario si evolve è sempre stato impossibile», spiega Roger Fu del MIT Department of Earth, Atmospheric and Planetary Sciences. «Ora grazie ai risultati ottenuti possiamo attribuire questa veloce formazione del disco a un campo magnetico tanto potente da giustificare una coercizione dei gas su larga scala».

Una bella fortuna trovare un meteorite perfettamente conservato e che si comporta come un sofisticato archivio di registrazioni magnetiche. «Incontaminato, costituito del corretto cocktail di metalli e con perfette proprietà di registrazione magnetica. Semarkon è un device ad alta fedeltà», chiosa ironicamente Ben Weiss, professore di scienze planetarie al MIT.

Certo un campo magnetico di tali dimensioni, non poteva che lasciare il segno.


Fonte1:
L’articolo su Science: http://www.sciencemag.org/lookup/doi/10.1126/science.1258022

Fonte2:
http://www.media.inaf.it/2014/11/13/il-magnetismo-del-sistema-solare/

Marte: Non Guardate il Meteo







Qualche anno fa non ci si faceva poi molto affidamento. Si dava un occhio alle previsioni del tempo, dopo il telegiornale regionale, o sul giornale, poi si partiva lo stesso. Fiduciosi. Sperando in una bella giornata di sole, al mare. Ma oggi no: il meteo c’azzecca, non si scampa.

Se però proprio non volete rovinarvi la sorpresa, e amate il brivido dell’incerto, potreste sempre trasferirvi su Marte. Tempo meteorologico ballerino, che cambia giorno per giorno a causa di costanti fluttuazioni nell’atmosfera. Clima instabile – nella prospettiva dei tempi lunghi – con significative variazioni nel succedersi dei decenni.

Secondo i ricercatori della McGill University e della London’s Global University (University College London) per lo studio del pianeta rosso è possibile servirsi delle stesse categorie di riferimento che adottiamo sulla Terra: tempo meteorologico, clima, e quello che gli inglesi definiscono macroweather – l’orizzonte lungo cui può arrivare una previsione meteorologica certa.

Nei risultati dello studio, appena pubblicati su Geophysical Research Letters, un ruolo importante nel determinare questo orizzonte delle proiezioni meteo è giocato direttamente dalla nostra stella: il Sole. Tenendo conto del fatto che su Marte la radiazione solare non si concentra solo sulla superficie del pianeta ma riguarda anche l’atmosfera in tutto lo spessore, gli scienziati ipotizzano che la temperatura dovrebbe oscillare in modo simile a quanto possiamo vedere sulla Terra (fatte le dovute differenze).

«L’analisi dati conferma questa ipotesi. Esiste una forte analogia fra meteo (e clima) marziano e terrestre», spiega Shan Lovejoy, docente di fisica della McGill a Montreal e primo autore dello studio. «Fatto che si aggiunge alle evidenze raccolte su atmosfera e oceani a Terra, dove la nostra stella ha un ruolo di primordine per ciò che riguarda le fluttuazione del macroweather».

L’orizzonte a cui arriva una proiezione meteorologica affidabile è però appena di 1,8 giorni marziani (circa due giorni terrestri). Tempo tiranno e imprevedibile. Qui da noi l’orizzonte in cui vale un bollettino meteo oscilla fra una settimana e dieci giorni: 5 volte di più.

«Non siamo in grado di anticipare la situazione meteorologica con certezza, è un momento difficile. Se non riusciamo ad andare oltre il limite dei due giorni, anche i rover potrebbero avere qualche disagio», ammette Jan-Peter Muller, professore dello UCL Mullard Space Science Laboratory e co-autore del paper.

La ricerca di Lovejoy, Muller e colleghi promette però novità su quella che è la nostra attuale comprensione delle dinamiche atmosferiche. E non solo sul nostro pianeta. Gli obiettivi sono puntati su Venere, la luna di Saturno Titano, i giganti gassosi Giove, Urano, Nettuno e Saturno.

La scelta in questo caso è ricaduta su Marte per l’evidente abbondanza di dati disponibili e raccolti dalle missioni Viking fra gli anni Settanta e Ottanta, fino ai dati recenti degli orbiter che più recentemente sono andati ad affollare il cielo marziano (vedi MediaINAF).


Fontehttp://www.media.inaf.it/2014/11/14/marte-non-guardate-il-meteo/


giovedì 13 novembre 2014

Neanderthal e Sapiens si incrociarono 50-60 mila anni fa




In europei e asiatici c’è meno patrimonio genetico neandertaliano di quanto finora ritenuto. Il «mescolamento» avvenne probabilmente in Medio oriente. La scoperta è avvenuta grazie allo studio su un femore di uomo ritrovato nel 2008 in Siberia.


In noi c’è meno Neanderthal di quanto finora ritenuto e l’incrocio genetico (inbreeding) tra i nostri progenitori e i «cugini» estinti avvenne tra 50 mila e 60 mila anni fa.

Sono i risultati della mappatura del più antico Dna di uomo moderno eseguita sul genoma di un Homo sapiens vissuto in Siberia 45 mila anni fa.

Lo studio è stato pubblicato, condotto dall’équipe di Svante Pääbo, direttore del dipartimento di antropologia genetica dell’Istituto Max Planck di Lipsia, è stato pubblicato sulla rivista Nature.

Nel 2008 Nikolai Peristov, un cacciatore di fossili dilettante, mentre cercava zanne di mammut rinvenne casualmente un femore sulle rive del fiume Irtysh, presso la città di Ust-Ishim in Siberia occidentale.

Con la datazione al carbonio-14 risultò appartenere a un individuo di sesso maschile (aveva il cromosoma Y) di Homo sapiens vissuto 45 mila anni fa. Non è il Dna «umano» più antico sequenziato, questo risale a 400 mila anni fa, ma è il più antico sicuramente appartenente a un Sapiens (cioè noi) trovato al di fuori dell’Africa e del Medio oriente.

L’équipe di Paabo ha scoperto che il Dna dell’antico uomo siberiano conteneva in media segmenti di Dna neanderthaliano tre volte più lunghi rispetto a quelli degli uomini contemporanei.

Oggi il nostro Dna contiene patrimonio genetico neanderthaliano pari a 1,6-1,8% se siamo europei, e 1,7-2,1% se siamo dell’Asia orientale (zero se siamo africani).

Nell’uomo di Ust-Ishim il Dna «alieno» era invece circa il 2,3%. «Un aspetto importante che emerge», ha spiegato Alfredo Coppa, paleoantropologo dell’Università La Sapienza di Roma, «è che il rimescolamento genetico tra i due gruppi è stato marginale e il contributo dei Neanderthal non si è andato diluendo nel tempo come si era ipotizzato finora».

Da questi dati gli scienziati sono riusciti a ricostruire che l’incrocio genetico Sapiens-Neanderthal avvenne tra 232 e 430 generazioni prima della nascita dell’uomo di Ust-Ishim: cioè tra 50 mila e 60 anni fa. In pratica si è stati in grado di restringere di molto il periodo del mescolamento, che finora si riteneva avvenuto in una data compresa tra 37 mila e 86 mila anni fa.

Il nuovo periodo del mescolamento coincide quindi al tempo in cui i Sapiens – usciti dall’Africa da dove si erano (ci siamo) evoluti 200 mila anni fa – si trovavano più o meno in Medio oriente.

Ma l’uomo di Usst-Ishim apparteneva a un gruppo di Sapiens che ancora non si era diviso in due rami: uno diretto verso l’Europa e l’altro verso l’Asia centrale e l’Estremo oriente. La nuova scoperta pone interrogativi sugli altri ritrovamenti di fossili di Sapiens in India e in Medio oriente risalenti a 100 mila anni fa.

Ora gli studiosi pensano che dall’Africa sia usciti più «ondate» di Sapiens, ma i primi individui che si diressero a est si estinsero senza lasciare tracce genetiche. Mentre tutti noi deriviamo dagli ultimi gruppi fuoriusciti dal continente africano circa 60 mila anni fa.

Fonte: http://www.ilnavigatorecurioso.it/2014/11/07/neanderthal-sapiens-lincrocio-di-dna-avvenne-50-60-mila-anni-fa/




mercoledì 12 novembre 2014

Nuove Anomalie Ai Confini del Sistema Solare





Lontano lontano, oltre Plutone, al limite estremo del nostro Sistema Solare, dove i telescopi non riescono a vederlo, potrebbe esserci un pianeta mai scoperto prima. A sostenerlo è Rodney Gomez dell'Osservatorio nazionale del Brasile, che ha rilevato anomalie nelle orbite dei cosiddetti oggetti della fascia di Kuiper, la zona del Sistema Solare che si estende al di là dell'orbita di Nettuno.

Negli ultimi anni sono stati scoperti numerosi oggetti della fascia di Kuiper: alcune decine hanno un diametro di qualche centinaio di chilometri, altri sono considerati pianeti nani, come lo stesso Plutone, che con i suoi 2.300 km è stato di recente "declassato" dopo essere stato considerato un pianeta a tutti gli effetti.

Secondo i calcoli di Gomes, l'orbita di alcuni di questi oggetti - compreso Sedna, il più grande tra i pianeti nani - non corrisponde a quella prevista dagli attuali modelli. Le spiegazioni possibili sono diverse, ma Gomes ritiene che la più semplice sia "la presenza di una massa planetaria": un pianeta che orbiti a grande distanza dal Sole ma abbia una massa sufficiente ad avere effetti gravitazionali sugli oggetti della Fascia di Kuiper.

Vagabondo cosmico?

Nella sua ricerca, Gomes ha analizzato l'orbita di 92 oggetti della Fascia di Kuiper, e ha poi paragonato i risultati a modelli computerizzati che simulavano la distribuzione di quegli oggetti sia in caso di presenza sia in quello di assenza del pianeta in più.

Senza il pianeta fantasma, sostiene Gomes, l'orbita allungata di sei degli oggetti della Fascia non coincide con quella prevista dal computer. Non è chiaro quanto dovrebbe essere grande questo pianeta per spiegare le osser, prosegue lo studioso: ci sono diverse possibilità. Potrebbe essere un pianeta grande più o meno come Nettuno (cioè il quadruplo della Terra) che orbitasse a 225 miliardi di chilometri dal Sole (cioè a una distanza 1.500 volte maggiore di quella della Terra); ma anche un oggetto grande come Marte (circa metà della Terra) con un'orbita molto allungata, che di tanto in tanto si avvicinasse a circa otto miliardi di chilometri dal Sole.

Gomez ritiene che l'oggetto misterioso potrebbe essere un pianeta "nomade", espulso dal proprio sistema solare e in seguito catturato dall'orbita del nostro Sole. O al contrario, il presunto pianeta potrebbe essersi formato vicino alla nostra stella, e poi essersi spostato verso orbite più lontane in seguito a incontri gravitazionali con gli altri pianeti.

In ogni caso un pianeta del genere sarebbe molto difficile da osservare direttamente. In primo luogo rifletterebbe pochissimo la luce; inoltre, le simulazioni di Gomes non danno alcuna indicazione su dove gli astronomi dovrebbero puntare i telescopi per vederlo: "Può essere dappertutto", dice lo studioso.

Insufficienza di prove

Altri astronomi sono incuriositi dai calcoli di Gomes ma aspettano prove più consistenti prima di riportare a nove il numero ufficiale dei pianeti del Sistema Solare. "Si tratterebbe di un fatto rilevante", sostiene ad esempio Rory Barnes della University of Washington. "Ma non mi sembra ci siano prove sufficienti. Gomes però ha indicato la strada per capire come un pianeta del genere modificherebbe una parte del nostro Sistema Solare. Quindi, anche se non ha trovato prove della sua esistenza, il fatto più importante è che ci ha mostrato come eventualmente trovare quelle prove.

Anche Douglas Hamilton, astronomo della University of Maryland, ritiene che le nuove osservazioni siano tutt'altro che definitive. "Dopo le osservazioni di Gomes l'esistenza del pianeta è solo un po' più probabile di prima. Non c'è la 'pistola fumante'". Hal Levison, del Southwest Research Institute di Boulder, in Colorado, è ancora più scettico: "Mi sembra improbabile che un pianeta piccolo come Nettuno abbia gli effetti osservati", commenta.


Fonte: http://www.nationalgeographic.it/scienza/spazio/2012/05/14/news/un_nuovo_pianeta_nel_sistema_solare_-1022139/