sabato 28 dicembre 2013

Stephen Hawking: Viaggi Spazio Temporali


La straordinaria mente di Stephen Hawking accompagna lo spettatore in un fantastico viaggio alla scoperta dei misteri dell’universo per dare risposta a una le più grandi domande che appassionano l’intero mondo scientifico. È possibile viaggiare nel tempo? Hawking analizza i traguardi sin qui raggiunti dalla scienza e prende in esame i diversi elementi della dimensione spazio-temporale per spiegarne le caratteristiche e ipotizzare le conseguenze di un viaggio nel tempo.

A cura di Arthur McPaul

Fonte:
Youtube.it










Scoperte Nane Brune Vicino al nostro Sole



Gli astronomi hanno individuato i segni di un possibile pianeta extrasolare in un sistema di stelle gemelle fallite. Se confermato, il mondo alieno sarebbe uno dei più vicini al nostro Sole mai trovato.

Gli scienziati hanno scoperto la coppia di nane brune, lo scorso anno a soli 6,6 anni luce dalla Terra, la coppia è il terzo sistema più vicino al nostro Sole.
In realtà è così vicino che "le trasmissioni televisive del 2006 stanno ormai arrivando", ha detto Kevin Luhman, del Centro di Penn State per i Pianeti extrasolari e i Mondi Abitabili, quando ha annunciato la loro scoperta nel mese di giugno.

Il sistema di nane brune, soprannominato da Luhman 16AB ed è ufficialmente classificato come WISE J104915.57-531906, ed è leggermente più distante della stella di Barnard, una nana rossa posta a 6 anni-luce di distanza, scoperta nel 1916. Ancora più vicino al nostro Sole c'é il sistema di Alpha Centauri, le cui due stelle principali formano un sistema binario posto a circa 4,4 anni luce di distanza. Il pianeta Alpha Centauri Bb in orbita ad una delle stelle nel sistema di Alpha Centauri, detiene attualmente il titolo di più vicino pianeta extrasolare al nostro sistema solare.

Le nane brune sono state avvistate nei dati di Wide-field Infrared Survey Explorer della NASA (WISE), che ha trasmesso a terra circa 1,8 milioni di immagini di asteroidi, stelle e galassie nel corso della sua ambiziosa missione di 13 mesi per scansionare l'intero cielo.

Henri Boffin dell'Osservatorio europeo meridionale (ESO) ha guidato un team di astronomi che cercano di saperne di più sui nostri vicini. Il gruppo ha utilizzato il sensibile strumento FORS2 montato sul Very Large Telescope dell'ESO al Paranal in Cile per prendere le misure astrometriche degli oggetti durante una campagna di osservazione di due mesi da aprile a giugno 2013. (L'astrometria comporta il monitoraggio dei movimenti precisi di una stella nel cielo.)





Questo diagramma illustra le posizioni dei sistemi stellari più vicini al Sole e gli anni della loro scoperta. Il sistema binario WISE J104915.57-531906 è il terzo sistema più vicino al Sole e il più vicino trovato in un secolo.

"Siamo stati in grado di misurare le posizioni di questi due oggetti con una precisione di pochi milli-secondi d'arco", ha detto Boffin in un comunicato. "È come una persona a Parigi in grado di misurare la posizione di qualcuno a New York con una precisione di 10 centimetri".

Il team ha scoperto che entrambe le nane brune hanno una massa dalle 30 alle 50 volte la massa di Giove. (A titolo di confronto, la massa del nostro Sole è di circa 1.000 masse di Giove.) Poiché la loro massa è così bassa, richiedono circa 20 anni per completare un'orbita intorno all'altra, gli astronomi hanno detto.
Il team di Boffin ha anche scoperto lievi perturbazioni nelle orbite di questi oggetti durante il loro periodo di osservazione di due mesi. Essi ritengono che un terzo oggetto, forse un pianeta attorno ad una delle due nane brune, potrebbe essere dietro a queste lievi variazioni.

"Ulteriori osservazioni sono necessarie per confermare l'esistenza di un pianeta", ha detto Boffin in un comunicato. "Il sistema potrebbe anche essere triplo!".

Finora, solo otto pianeti extrasolari sono stati scoperti intorno a nane brune, attraverso la microlensing e le imaging dirette. Il team ha aggiunto che il potenziale pianeta Luhman 16AB potrebbe essere il primo pianeta alieno scoperto tramite l'astrometria, se confermato.

La ricerca è stata pubblicata sulla rivista Astronomy and Astrophysics. È disponibile on-line sul sito Arxiv.

A cura di Arthur McPaul

Fonte:
http://space.com/23985-alien-planet-nearby-brown-dwarfs.html

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sabato 14 dicembre 2013

Su Europa Hubble Scopre Getti d'Acqua



L'Hubble Space Telescope della NASA ha rilevato vapore acqueo sopra la gelida regione polare a sud della luna di Giove, Europa, fornendo la prima forte evidenza di pennacchi d'acqua in eruzione dalla sua superficie.

I risultati scientifici precedenti da altre fonti avevano già indicato l'esistenza di un oceano sotto la crosta ghiacciata di Europa. I ricercatori non sono ancora completamente certi che il vapore acqueo rilevato venga generato dall'eruzione di pennacchi di acqua sulla superficie, ma sono sicuri che questa sia la spiegazione più probabile.

In mancanza di osservazioni che supportano altre conclusioni, questo renderebbe Europa la seconda luna del Sistema Solare nota ad avere pennacchi di vapore acqueo. I risultati sono stati pubblicati nel numero online del 12 dicembre di Science Express, riferito alla riunione dell'American Geophysical Union a San Francisco.

"Di gran lunga la spiegazione più semplice per questo vapore acqueo è che erutti dalla sulla superficie di Europa, dai pennacchi", ha detto l'autore Lorenz Roth del Southwest Research Institute di San Antonio. "Se i pennacchi fossero collegati con l'acqua sotto la sua superfice, allora questo significa che le indagini future potranno indagare direttamente la composizione chimica dell'ambiente potenzialmente abitabile di Europa senza forare attraverso profondi km di strato di ghiaccio. Ed è tremendamente eccitante".

Nel 2005, l'obiter Cassini della NASA ha rilevato dei getti di vapore acqueo e polveri che fuoriescivano dalla superficie della luna di Saturno Encelado. Anche se le particelle di ghiaccio e polvere sono state successivamente trovati su Encelado, su Europa sono stati rilevati solo vapore acqueo.

Le osservazioni spettroscopiche di Hubble hanno fornito la prova dei pennacchi su Europa, nel dicembre del 2012. Il campionamento delle emissioni aurorali di Europa misurato dalle imaging spettrografiche di Hubble, ha permesso ai ricercatori di distinguere tra le caratteristiche create, le particelle cariche emesse dalla superficie magnetica di Giove, ed escludere spiegazioni più esotiche come un raro impatto meteorico.

Lo spettrografo di imaging ha rilevato la debole luce ultravioletta da un'aurora, alimentata da un intenso campo magnetico di Giove, vicino al polo sud lunare. L'ossigeno atomico e l'idrogeno producono un bagliore aurorale variabile e lasciano un segno rivelatore che sono i prodotti di molecole d'acqua, divisi da elettroni lungo le linee del campo magnetico.
"Abbiamo spinto l'Hubble al limite, per vedere queste deboli emissioni. Questi potrebbero essere i pennacchi in azione, poiché potrebbero essere tenui e difficili da osservare nella luce visibile", ha detto Joachim Saur dell'Università di Colonia, in Germania. Saur, è ricercatore principale della campagna di osservazione di Hubble e co-autore di Roth.

Roth ha suggerito che lunghe crepe sulla superficie di Europa, note come lineae, potrebbero essere la causa dello sfiato del vapore acqueo nello spazio. Cassini ha osservato fessure simili che generano i getti di Encelado.
Anche il team di Hubble ha scoperto che l'intensità dei pennacchi di Europa, come quelli di Encelado, variano con la posizione orbitale di Europa. Dei getti attivi sono stati visti solo quando la luna era lontana da Giove. I ricercatori non hanno rilevato alcun segno di sfogo quando imvece essa era più vicino.
Una spiegazione per la variabilità è che queste lineae vengano sottoposte ad un intenso stress e maree gravitazionali, che spingono e stirano la superficie sulla luna fino ad aprire le crepe a grandi distanze da Giove. Esse sono invece chiuse quando la luna è più vicina al gigante gassoso.

I pennacchi di Europa ed Encelado hanno abbondanze molto simili di vapore acqueo. Poiché Europa subisce un ha attrazione gravitazionale ben 12 volte maggiore rispetto ad Encelado, il vapore (a meno-40 gradi Celsius) per la maggior parte non sfugge nello spazio come su Encelado, ma ricade indietro sulla superficie dopo aver raggiunto un'altitudine di 201 km, secondo le misure Hubble. Questo potrebbe lasciare caratteristiche superficiali luminose vicino alla regione polare sud della luna.

"Se confermata, questa nuova osservazione, ancora una volta mostra la potenza del telescopio spaziale Hubble e apre un nuovo capitolo nella nostra ricerca di ambienti potenzialmente abitabili nel nostro Sistema Solare", ha dichiarato John Grunsfeld, un astronauta che ha partecipato alle missioni di manutenzione di Hubble e ora è amministratore associato della NASA per la scienza a Washington. "Lo sforzo e il rischio che abbiamo intrapreso per aggiornare e riparare Hubble ripaga proprio con scoperte come queste".

Traduzione a cura di Arthur McPaul

Foto in alto:
Rappresentazione artistica dei getti di acqua su Europa scoperti grazie alle immagini del telescopio spaziale Hubble. Credit NASA/ESA


Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2013/12/131212113349.htm

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sabato 7 dicembre 2013

Un Sistema Planetario Anomalo Pone Nuovi Quesiti Ai Ricercatori



La scoperta di un pianeta gigante in orbita attorno alla sua stella a 650 volte la distanza media Terra-Sole ha lasciato gli astronomi perplessi su come si possa essere formato.

Un team internazionale di astronomi della University of Arizona hanno scoperto un pianeta extrasolare 11 volte la massa di Giove che orbita intorno alla sua stella a 650 volte la distanza media Terra-Sole.
Chiamato HD 106906 b è diverso da qualsiasi altro oggetto nel nostro Sistema Solare.
"Questo sistema è particolarmente affascinante perché nessun modello di una pianeta o formazione stellare puó spiegarlo", ha detto Vanessa Bailey, che ha guidato la ricerca.

Si pensa che i pianeti vicini alle loro stelle, come la Terra, si fondono da piccoli planetesimi nati nel disco primordiale di gas e polveri che circonda una stella in formazione. Tuttavia, questo processo agisce troppo lentamente per far crescere i pianeti giganti lontano dalla loro stella. Un altro meccanismo proposto è che i pianeti giganti si possano formare da un rapido collasso diretto di materiale del disco. Tuttavia, i dischi primordiali raramente contengono una massa sufficiente nei tratti esterni per consentire ad un pianeta come HD 106906 b di formarsi. Diverse ipotesi alternative sono state avanzate, tra cui la formazione di un mini sistema stellare binario.
"Un sistema binario può formarsi quando due ciuffi adiacenti di gas collassano più o meno indipendentemente per formare stelle abbastanza vicine per esercitare un'attrazione gravitazione reciproca e legarle insieme in una orbita" spiegato Bailey.

"È possibile che, nel caso del sistema di HD 106906 la stella e il pianeta collassano indipendentemente dai ciuffi di gas, ma per qualche motivo un ciuffo progenitore del pianeta era affamato di materiale e non è mai cresciuto abbastanza per accendersi e diventare una stella".
Secondo Bailey, il problema relativo a questo scenario è che il rapporto di massa delle due stelle in un sistema binario è tipicamente non più di 10 a 1.
"Nel nostro caso, il rapporto di massa è superiore di 100 a 1," ha spiegato. "Questo rapporto di massa estrema, non è previsto dalle teorie di formazione di stelle binarie, proprio come la teoria della formazione dei pianeti prevede che non si possano formare pianeti così lontani dalla stella ospite".

Questo sistema è inoltre di particolare interesse, perché i ricercatori possono ancora rilevare il residuo "disco di detriti" del materiale lasciato dal pianeta e dalla formazione stellare.
"Sistemi come questo, dove abbiamo ulteriori informazioni sull'ambiente in cui il pianeta si trova, hanno il potenziale di aiutarci a distinguere i vari modelli di formazione", ha aggiunto Bailey. "Future osservazioni del moto orbitale del pianeta e del disco di detriti della stella primaria potranno aiutarci a rispondere a questa domanda".

A soli 13 milioni di anni, questo giovane pianeta brilla ancora dal calore residuo della sua formazione. Perché con i suoi 2.700 gradi Fahrenheit (circa 1.500 gradi Celsius) il pianeta è molto più fresco rispetto alla sua stella ospite, emette la maggior parte della sua energia negli infrarossi piuttosto che nella luce visibile.
La Terra a confronto, si è formata 4,5 miliardi anni fa ed è quindi circa 350 volte più vecchia di HD 106906 b.

Le osservazioni con le imaging dirette richiedono immagini squisitamente nitide, simili a quelle fornite dal telescopio spaziale Hubble. Per raggiungere questa risoluzione della Terra è richiesta una tecnologia chiamata Adaptive Optics, o AO. Il team ha utilizzato i nuovi Magellan Adaptive Optics System (Magao) e la fotocamera dell'infrarosso termico Clio2, entrambe sviluppate presso l'UA e montate su un telescopio Magellan da 6,5 metri, nel deserto di Atacama in Cile.

Il prof. Laird Chiudi ha detto: "Magao era in grado di utilizzare la sua speciale Adaptive camera, con 585 attuatori, ogni movimento 1.000 volte al secondo, per eliminare la sfocatura dell'atmosfera. La correzione atmosferica ha consentito l'individuazione del debole calore emesso da questo esopianeta senza confusione dalla stella madre più calda".

"Clio è stato ottimizzato per le lunghezze d'onda infrarosse termiche, in cui i pianeti giganti sono più brillanti rispetto alle loro stelle di accoglienza, il che significa che i pianeti vengono più facilmente impressi a queste lunghezze d'onda", ha spiegato il prof. Philip Hinz, che dirige il Centro di UA per le Astronomicol Adaptive Optics.

Il team è stato in grado di confermare che il pianeta si sta muovendo insieme alla sua stella ospite, confutandoli con i dati del telescopio spaziale Hubble otto anni prima per un altro programma di ricerca. Utilizzando lo spettrografo FIRE, anch'esso installato sul telescopio Magellan, il team ha confermato la natura planetaria del compagno. "Le immagini ci hanno confermato la sua presenza e alcune informazioni sulle sue proprietà, ma solo uno spettro ci dà informazioni dettagliate sulla natura e composizione", ha spiegato il co-ricercatore Megan Reiter, presso il Dipartimento di Astronomia UA. "Tali informazioni dettagliate, raramente sono disponibile per pianeti extrasolari direttamente impressionate, rendendo HD 106906 un obiettivo prezioso per lo studio futuro".
"Ogni nuovo pianeta rilevato direttamente spinge la nostra comprensione di come e dove i pianeti si possono formare," ha detto il co-ricercatore Tiffany Meshkat, uno studente laureato presso il Leiden Observatory, nei Paesi Bassi. "Questa scoperta è particolarmente emozionante perché il pianeta è in orbita così lontano dalla sua stella madre. Questo porta a molte domande intriganti sulla sua storia di formazione e sulla composizione. Scoperte come HD 106906 b ci forniscono una comprensione più profonda della diversità degli altri sistemi planetari".

Il documento di ricerca, A Planetary-mass Companion Outside a Massive Debris Disk è stato accettato per la pubblicazione su The Astrophysical Journal Letters e apparirà in un prossimo numero.
lo sviluppo di Magao è stato finanziato dal programma principale Research Instrumentation del National Science Foundation, e il suo programma Telescope System Instrumentation Program and an Advanced Technologies and Instrumentation Award.

I membri del team scoperta sono Vanessa Bailey (UA), Tiffany Meshkat (Leiden Observatory [LO]), Megan Reiter (UA), Katie Morzinski (UA), Jared Maschi (UA), Kate YL Su (UA), Philip M . Hinz (UA), Matthew Kenworthy (LO), Daniel Stark (UA), Eric Mamajek (University of Rochester), Runa Briguglio (Arcetri Observatory [AO]), Laird M. Chiudi (UA), Katherine B. Follette (UA ), Alfio Puglisi (AO), Timothy Rodigas (UA, Carnegie Institute di Washington [CIW]), Alycia J. Weinberger (CIW), e Marco Xompero (AO).

Traduzione a cura di Arthur McPaul

Foto in alto:
Rappresentazione artistica del sistema planetario HD106906 (Credit: NASA/JPL-Caltech)


Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2013/12/131205141629.htm

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mercoledì 4 dicembre 2013

Lucchetti Quantistici sul Ponte di Einstein-Rosen



L’entanglement fra particelle e i cosiddetti ‘wormholes’, gli ipotetici tunnel spazio-temporali che unirebbero zone remote dell’universo, potrebbero essere diverse manifestazioni di un’identica realtà fisica. L’ipotesi su Physical Review Letters.

Cos’hanno in comune un fenomeno come l’entanglement quantistico, con i suoi bizzarri legami fra particelle gemelle, ed entità come i wormholes, le ipotetiche scorciatoie fra coppie di buchi neri ottenute scavando profondi cunicoli nelle viscere dello spazio-tempo? È tutta roba esotica, incomprensibile e contro-intuitiva, d’accordo. Almeno per la maggior parte di noi mortali.

Possiamo fare di meglio? Bhé, anzitutto non è difficile notare che in entrambi i casi si tratta di collegamenti: fra infinitesimali particelle nel caso dell’entanglement e fra smisurati buchi neri in quello dei cunicoli spazio-temporali (chiamati, non a caso, “ponti di Einstein-Rosen”), ma pur sempre collegamenti.

Reciclando poi qualche nozione dai fumetti e dal cinema di fantascienza, possiamo azzardare un passo ulteriore: in entrambi i casi si tratta di collegamenti lungo i quali non vige alcun limite di velocità, in quanto teoricamente in grado d’aggirare quell’antipatico vincolo dei 300 mila km/s che sempre ci riporta alla realtà ogni qual volta proviamo a sognare di trasferirci su un altro mondo.

Per avventurarsi in sicurezza al livello superiore, però, similitudini e metafore stradali non bastano più. Occorre armarsi di solidi strumenti matematici. Come hanno fatto < b>Kristan Jensen (University of Victoria, Canada), Andreas Karch (University of Washington, USA) e < b>Julian Sonner (MIT) – i primi due in coppia, il terzo in solitaria – con due studi pubblicati entrambi il 20 novembre scorso su Physical Review Letters. Due studi talmente teorici da far venire le vertigini solo a leggerne i titoli (Holographic Dual of an Einstein-Podolsky-Rosen Pair has a Wormhole è quello firmato da Jensen e Karch, Holographic Schwinger Effect and the Geometry of Entanglement, quello di Sonner), ma resi comprensibili a tutti da un ottimo articolo uscito lunedì scorso sul sito web di Science a firma di Katia Moskvitch.

Ricorrendo al cosiddetto “principio olografico”, in base al quale un mondo a n dimensioni può essere rappresentato dal mondo a n-1 dimensioni che ne segna i confini, i tre fisici teorici sono giunti a stabilire una sorta di corrispondenza fra wormholes ed entanglement. Semplificando brutalmente, il fenomeno dell’entanglement quantistico sarebbe una rappresentazione nell’universo a 3D (senza dunque considerare la gravità) di quello che sono i wormholes in un universo a 4D (con la gravità). Insomma, il cunicolo spazio-temporale che unisce una coppia di buchi neri situati agli estremi opposti dell’universo e l’ineffabile stringa che vincola in modo indissolubile le proprietà esibite da una coppia di particelle elementari non sarebbero altro che due facce della stessa medaglia. Una visione, val la pena osservare, che entrerebbe a gamba tesa nell’annosa querelle fra meccanica quantistica e relatività generale.

A rovinare i sogni di chi già s’immagina in viaggio nell’iperspazio verso i mondi di galassie remote, però, oltre alla difficoltà del tradurre in comodi veicoli da turismo spaziale modelli matematici che più eterei non si potrebbe, ci sono due considerazioni che minano il progetto alla base. Partiamo dall’entaglement quantistico: per quanto sia istantaneo, indipendentemente dalla distanza che separa la coppia di particelle, non può essere utilizzato nemmeno per inviare un’informazione elementare come lo stato di spin di una delle due. Questo perché, per definizione, lo si scopre solo nel momento in cui lo si osserva, quello stato, senza che lo si possa imporre. Insomma, il fenomeno è al di là del nostro controllo.

Ma ha un sapore di beffa anche l’ostacolo nel quale ci si andrebbe a imbattere volendo prendere un wormhole come scorciatoia per saltare in men che non si dica da un luogo all’altro dell’iperspazio: il problema, in questo caso, è che mentre è sin troppo facile addentrarsi nel cunicolo dal buco nero d’ingresso, quando si giunge a metà strada, dunque quando dovrebbe cominciare la salita a riveder le stelle, per quanto ci s’impegni l’impresa risulta impossibile. E qui l’allenamento non c’entra: di nuovo, da un buco nero non si esce per definizione.

D’altronde, proprio questa doppia impossibilità per definizione d’impiegare entanglement e wormholes come stratagemmi per aggirare il limite della velocità della luce costituisce un ulteriore punto in comune fra i due fenomeni.

A cura di Marco Malaspina

Fonte:
http://www.media.inaf.it/2013/12/04/entanglement-wormholes/

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La Crescita Esplosiva di una Giovane Stella



Utilizzando il radiotelescopio ALMA, un gruppo di ricerca guidato da ricercatori dell’istituto danese Niels Bohr ha analizzato una protostella nella Via Lattea, scoprendo che in fasi anteriori del suo sviluppo è stata circa cento volte più luminosa di quanto lo sia adesso.

Quella di protostella può essere considerata la fase embrionale nello sviluppo di una stella. Una fase di veloce crescita conseguente al collasso gravitazionale di gigantesche nubi di gas e polvere, un tumultuoso addensamento che precede la vera e propria accensione dell’astro, ovvero l’innesco delle reazioni termonucleari di fusione dell’idrogeno nel nucleo stellare.

Una crescita particolarmente vivace ed esplosiva ha contraddistinto IRAS 15398-3359, una protostella di massa ridotta che si è andata formando negli ultimi 100.000 anni all’interno della Via Lattea. Secondo un gruppo di ricerca a guida danese che l’ha studiata con il radiotelescopio ALMA dell’ESO in Cile, questa giovane stella è stata, nelle fasi iniziali del suo sviluppo, circa 100 volte più luminosa di quanto lo sia adesso. Lo studio è in via di pubblicazione sulla rivista Astrophysical Journal Letters.

“Abbiamo studiato la chimica del gas e della polvere che circondano la protostella”, spiega Jes Jørgensen dell’Istituto Niels Bohr all’Università di Copenaghen, leader della ricerca. “In questa densa nube si svolgono reazioni chimiche che portano alla formazione di varie molecole organiche complesse, compreso il metanolo. Ci aspettiamo di trovare queste molecole vicino alla stella, ma per una di esse abbiamo invece osservato una disposizione ad anello: qualcosa ha rimosso una specifica molecola, HCO+, da una vasta area attorno alla protostella.”

Jørgensen e colleghi ritengono che la scomparsa della molecola HCO+ sia da addebitare al vapore d’acqua, prodotto durante il processo di formazione stellare attraverso il riscaldamento del ghiaccio presente sui granelli di polvere. Seguendo poi le tracce della molecola mancante si possono conoscere i traumi che la stella ha incontrato nella sua crescita.

“Dalle dimensioni dell’area in cui la molecola HCO+ è stata dissolta dal vapore d’acqua possiamo calcolare quanto brillante sia stata la giovane stella – prosegue Jørgensen . E quello che salta fuori è che tale area è parecchio più grande di quanto ci si aspetterebbe rispetto alla luminosità attuale della stella: la protostella è stata fino a 100 volte più brillante di quanto lo sia la stella ora. Inoltre, dalla chimica implicata possiamo anche affermare che questo cambiamento è avvenuto negli ultimi 100-1000 anni, pochissimo tempo fa dal punto di vista astronomico.”

I ricercatori ritengono che non si sia trattato necessariamente di una singola esplosione di luce e calore, ma di un fenomeno che si può essere ripetuto diverse volte durante il processo di formazione stellare. Fenomeno che è interessante comprendere anche perché può avere un’influenza decisiva sull’abbondanza delle molecole organiche complesse che, in uno stadio successivo dell’evoluzione stellare, saranno incorporate nei sistemi planetari. Ma al momento non sappiamo se queste “eruzioni” siano un fenomeno comune tra le protostelle, oppure se IRAS 15398-3359 costituisca una notevolissima eccezione.

A cura di Stefano Parisini

Fonte:
http://www.media.inaf.it/2013/12/04/la-crescita-esplosiva-di-una-giovane-stella/

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La Spettacolare Aurora Su Saturno



Siamo tutti affascinati dalle aurore boreali sulla Terra, ma ancora più spettacolari sono quelle che si osservano nel resto del Sistema solare. Come sul gigante gassoso, dove l'aurora può durare anche diversi giorni. Si formano ai poli quando il vento solare interagisce con i gas presenti nell'alta atmosfera.

È uno degli eventi più affascinanti e attesi dell’anno. L’aurora di Saturno, osservata per la prima volta nel 1979 (quando Pioneer 11 osservò i poli del pianeta illuminati in ultravioletto), stupisce per la sua bellezza ancora a distanza di decenni. Siamo abituati a osservare sulla Terra le aurore boreali, che si formano a causa dell’interazione delle particelle cariche provenienti dal Sole con la ionosfera terrestre.

Le aurore, però, sono un fenomeno tipico anche in altri pianeti del Sistema solare, come appunto Saturno. In questo caso il gigante gassoso presenta analogie con la Terra: anche in questo caso le aurore si formano ai poli quando il vento solare interagisce con i gas presenti nell’alta atmosfera. I gas fluorescenti, emettendo lampi di luce a diverse lunghezze d’onda. Come si vede nell’immagine della NASA, l’aurora è molto alta, cioè si entra di diverse centinaia di chilometri oltre i poli del pianeta. A differenza della Terra, dove il magnifico spettacolo dura solo poche ore, su Saturno l’aurora può brillare anche per diversi giorni.

Su Saturno si ha abbondanza di idrogeno (a differenza della Terra, che ha un’atmosfera in cui prevale ossigeno e azoto) e quindi il miglior modo per osservare le sue emissioni aurorali è utilizzare gli occhi elettroni di telescopi spaziali e sonde nelle lunghezze d’onda infrarosso ed ultravioletto. Le prime immagini delle aurore ultraviolette di Saturno furono poi ottenute dal telescopio spaziale Hubble nel 1994/95 e poi le 1997.

A cura di Eleonora Ferroni

Fonte:
http://www.media.inaf.it/2013/12/04/lo-spettacolo-dellaurora-di-saturno/

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Il Terremoto che ha cambiato la Gravità



Dai dati inviati dal satellite dell'ESA si evince che il sisma del 2011 quasi sicuramente è riuscito a modificare il letto del mare, con conseguente cambiamento del livello medio dell'acqua, che a sua volta ha influenzato la gravità locale. I dati di GOCE potranno così essere utilizzati per una comprensione maggiore dell'attività sismica sulla Terra.

Il potente terremoto del 2011 che ha colpito il Giappone è riuscito a modificare la gravità locale. Questo è quanto hanno scoperto i ricercatori che lavorano con il satellite dell’Agenzia Spaziale Europea GOCE, che per quattro anni ha mappato con estrema precisione la gravità terrestre, mostrando dettagli anche superiori a quanto si pensasse. In base alle ultime rilevazioni del satellite i gradi terremoti non solo deformano la crosta terrestre, ma possono provocare anche piccoli cambiamenti nella gravità locale.

Analizzando attentamente i dati, gli esperti hanno notato, infatti, una disomogeneità del campo gravitazionale terrestre, conseguenza della differente composizione della Terra da zona a zona. I movimenti tellurici sotto la superficie sono in grado di spostare rocce e materiali anche per chilometri portando così ad una variazione della gravità terrestre locale. Eventi sismici sotto gli oceani, come quello del 2011, possono anche cambiare la forma del letto del mare. Questo sposta l’acqua cambiando il livello del mare, influendo, a sua volta, anche sulla gravità.

Il satellite dell’ESA non è ormai più in orbita da qualche settimana, avendo esaurito il suo carburante. I ricercatori, però, hanno a disposizione una miriade di dati da poter analizzare prima di porre davvero la parola fine alla missione di GOCE. Il satellite ha già gettato nuova luce su diversi aspetti della Terra, dalla densità atmosferica e ai venti, alla mappatura del confine tra la crosta e il mantello superiore, ai processi geodinamici che si verificano in questi stratiA inizio di quest’anno GOCE ha avvertito, tramite il suo accelerometro e propulsore di ioni, le onde sonore del terremoto giapponese, mostrando come il sisma abbia chiaramente rotto il campo gravitazione locale.




Questi risultati sono inoltre coerenti con le osservazioni più “grossolane” effettuate dal satellite GRACE della NASA. I dati di GOCE verranno utilizzati utilizzati per migliorare i modelli già esistenti e permettere quindi una comprensione maggiore dell’attività sismica terrestre.

A cura di Eleonora Ferroni

Fonte:
http://www.media.inaf.it/2013/12/04/il-terremoto-del-giappone-ha-cambiato-la-gravita-terrestre/

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Un Orto Sulla Luna


Un piccolo team al centro di ricerca Ames della NASA vuole verificare la possibilità di coltivare piante sulla Luna. L’impresa diventerà forse possibile entro il 2015 grazie al Google Lunar X Prize e alla partecipazione delle scolaresche statunitensi.

Potrebbe essere vicino il momento in cui vedremo germogliare la prima piantina sulla Luna. Ne è convinto il team del Lunar Plant Growth Habitat, un gruppo di ricerca costituito da scienziati NASA, consulenti esterni, studenti e volontari, operanti presso l’Ames Research Center della NASA nella Silicon Valley californiana.

La possibilità di coltivare vegetali per integrare l’alimentazione degli astronauti sarà una parte importante dell’esplorazione spaziale in un futuro non tanto distante, un futuro in cui la NASA sta pianificando missioni di lunga durata sulla Luna. Mentre vari esperimenti di coltivazione in serre spaziali sono stati già condotti, ad esempio sulla Stazione Spaziale Internazionale, la NASA pensava da tempo alla possibilità di verificare sul campo le difficoltà che avrebbero incontrato gli agricoltori lunari. Ma una missione dedicata solamente a questo scopo risultava troppo costosa.

L’occasione propizia si è ora presentata grazie al Google Lunar X Prize, la competizione che mette in palio complessivamente 30 milioni di dollari per le impresa private in grado di lanciare una sonda robotica che atterri sulla Luna, ne percorra un tratto di superficie e trasmetta sulla Terra immagini e video in alta definizione entro il 31 dicembre 2015.

Secondo il Lunar Plant Growth Habitat, la sonda che alla fine vincerà questa competizione potrà ospitare a bordo i particolari vasi di germinazione che il gruppo di ricerca sta preparando. Si tratta di contenitori che dovranno funzionare da veri e propri habitat di crescita per le sementi selezionate per l’esperimento: mostarda selvatica, basilico, girasole, rapa. Habitat che dovranno essere in grado di regolare autonomamente la propria temperatura e grado di umidità per fronteggiare il durissimo clima lunare.

Scopo dell’esperimento è di verificare se le piante possono sopravvivere alle radiazioni, germogliare in condizioni di gravità parziale e svilupparsi in un ambiente ridotto e controllato. Le stesse difficoltà che si dovrebbero superare per costruire una serra sulla Luna ma anche, in un futuro immaginario, creare la vita su Marte.

Naturalmente i contenitori saranno dotati divideocamere – sport-cam commerciali opportunamente modificate – per seguire in diretta l’eventuale crescita delle pianticelle. Al di là di ogni altra considerazione scientifica, l’idea di potere vedere a breve un’immagine dai forti toni evocativi scalda l’entusiasmo dei ricercatori. “La prima fotografia di una pianta che sta crescendo in altro mondo, ecco: quell’immagine vivrà per sempre. Sarà tanto iconica quanto quella della prima orma umana sul suolo lunare”, afferma con entusiasmo Pete Worden, direttore dell’Ames Research Center.

Nell’attesa della storica immagine, si può dire che la NASA un successo l’abbia già ottenuto. Nello sviluppo dei contenitori per la crescita delle piante (Lunar Plant Growth Chamber) l’agenzia spaziale americana ha coinvolto un gran numero di studenti delle scuole. Ad alcune classi saranno poi affidate delle mini-serre identiche a quelle lunari per verificare i parametri di crescita delle piante in contemporanea all’esperimento spaziale. Una buona idea per appassionare gli studenti alla ricerca scientifica.

Foto in altoUn modello di plastica stampata in 3D di una mini camera climatica per la coltivazione di piante sulla Luna. Crediti: Hemil Modi / Lunar Plant Growth Habitat team

A cura di Stefano Parisini

Fonte: http://www.media.inaf.it/2013/11/26/un-orto-sulla-luna/


La NASA cerca acqua su Venere




Gli esperti sono sicuri che in passato sul secondo pianeta del Sistema solare sia esistita una grande quantità di acqua, tanto da formare oceani, laghi e fiumi. Il Venus Spectral Rocket è stato lanciato ieri e per 8 minuti, a un'altitudine di 110 km, ha osservato la parte più altra dell'atmosfera venusiana in cerca di idrogeno e deuterio (alla base della formula chimica dell'acqua).

È passata solo una settimana dal lancio diMAVEN, la nuova sonda che orbiterà fra nove mesi attorno a Marte, e la NASA ha già mandato in orbita un razzo per studiare l’atmosfera di Venere. Si chiama Venus Spectral Rocket (VeSpR) ed è stato lanciato ieri dalla base di White Sands.

Perché due lanci così ravvicinati? Kelly Fast, ricercatrice anche del progetto MAVEN, ha detto che “è appropriato che le due sonde siano state lanciate a una distanza di tempo ravvicinata proprio perché entrambe studieranno l’atmosfera di un pianeta”. L’unica differenza è che, mentre MAVEN orbiterà attorno al Pianeta rosso, VeSpR rimarrà sopra la Terra.

VeSpR è un sistema a due fasi che combina un missile Terrier – originariamente costruito come un missile terra-aria e poi riproposto per sostenere le missioni scientifiche – e un razzo Black Brant Mk1 al cui interno è stato montato un telescopio. L’integrazione dei due razzi è stata realizzata presso la NASA Wallops Flight Struttura in Virginia. La sonda ha analizzato l’atmosfera di Venere tramite iraggi ultravioletti emessi dal pianeta stesso. In questo modo gli esperti potranno ricostruire buona parte della storia di Venere.

Questo tipo di rilevamenti sono stati finora impossibile con le strumentazioni a terra perché la nostra atmosfera assorbe la maggior parte dei raggi UV provenienti dallo spazio. Proprio per questo motivo il razzo ha portato la sonda a 110 chilometri da altezza dalla superficie terrestre, dove la nostra atmosfera è decisamente più sottile.

Cosa cercano gli esperti della NASA? I ricercatori sanno che l’atmosfera di Venere contiene una piccola quantità di acqua, ma sono convinti che in passato sul pianeta ce ne fosse tanta da formare un oceano. Per questo il team cercherà di determinare se l’acqua si trovi solo negli strati alti dell’atmosfera (dove le temperature sono decisamente inferiori) o sia evaporata dalla superficie del pianeta nel corso di migliaia di anni. Gli studiosi ipotizzano che possano essere esistiti fiumi, laghi e, addirittura, acqua allo stato solido (quindi ghiaccio).

La chiave della ricerca sta tutta nella quantità di idrogeno e deuterio (una versione più pesante dell’idrogeno) che è rimasta nell’atmosfera. Entrambi, ovviamente, in presenza di ossigeno possono creare l’acqua sia sotto forma di H2O che come HDO. La ricerca non sarà facile perché i raggi UV provenienti dal vicino Sole hanno perlopiù sbrindellato l’atmosfera venusiana e proprio perché le molecole di idrogeno sono leggere sono anche le più volatili. I ricercatori hanno scoperto che la quantità di idrogeno e deuterio possono variare a diverse altezze nell’atmosfera, il che potrebbe cambiare i loro calcoli. Per risolvere l’incertezza, VeSpR farà misurazioni in particolare nella parte alta dell’atmosfera.

La NASA in passato aveva già provato a studiare l’atmosfera di Venere con la missione del 1978 Pioneer. Già allora gli studiosi avevano ipotizzato la presenza di acqua in abbondanza sul pianeta. Adesso si cercano prove certe. Il telescopio montato su VeSpR ha osservato il pianeta per 8 minuti e i dati sono stati trasmessi in tempo reale sulla Terra. Il razzo poi è stato recuperato con un paracadute e verrà utilizzato per successioni osservazioni in orbita attorno al nostro pianeta.


A cura di Eleonora Ferroni

Fonte: http://www.media.inaf.it/2013/11/26/la-nasa-cerca-lacqua-su-venere/









lunedì 2 dicembre 2013

Cometa ISON: è mistero fitto sulla sua fine



Dopo diversi giorni di osservazioni continue, gli scienziati continuano a lavorare per stabilire e comprendere il destino della cometa ISON: Non c'è dubbio che si sia ridotta di dimensione durante il passaggio ravvicinato con il Sole.
Rimane da capire se il puntino luminoso visto allontanarsi dal Sole fosse semplicemente composto da detriti, o se rappresentasse parte del nucleo.


La cometa ISON, che ha iniziato il suo viaggio dalla Nube di Oort circa 3 milioni di anni fa, ha fatto il suo massimo avvicinamento al Sole il 28 novembre 2013. La cometa era visibile dagli strumenti del Solar Terrestrial Relations Observatory della NASA, o meglio compsciuto come STEREO e dal Solar and Heliospheric Observatory, o più brevemente SOHO, attraverso le immagini dei coronografi.

I coronografi bloccano la luce del Sole creando un'eclisse artificiale utile ad per osservare meglio le sue fioche strutture dell'atmosfera solare nella corona.
Per questo motivo non è stato possibile osservare la cometa per diverse ore, facendo supporre agli scienziati che la cometa si fosse era completamente disintegrata.

Tuttavia, qualcosa di molto meno brillante è stato ripreso da SOHO e STEREO.
È di fatto poco chiaro se quella macchia di luce fosse solo una nuvola di polvere dei resti della cometa o soltanto parte del nucleo originale.
A svelare il mistero sarà il telescopio spaziale Hubble, che cercherà di osservarla nei prossimi giorni.

Traduzione a cura di Arthur McPaul

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2013/12/131202171930.htm

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mercoledì 27 novembre 2013

La Cometa ISON al perielio: si frantumerà




Mentre la Cometa ISON si dirige verso il suo massimo avvicinamento al Sole (perielio) il 28 novembre 2013, gli scienziati la stanno osservando attraverso numerosi strumenti, aspettando che si possa dividere a causa dell'intenso calore e delle forze gravitazionali del Sole.
La cometa è troppo lontana per offrirci immagini ravvicinate ma è possibile utilizzare la sua luminosità per scoprire ulteriori indizi.
Meno luce a volte può significare che la maggior parte del materiale è stato espulso o che si sia disintegrata. Ma a volte anche una cometa disintegrata emana più luce, almeno temporaneamente, per cui i ricercatori stanno cercando di capire quello che sta succedendo per creare un modello del comportamento di questi oggetti.


Le recenti osservazioni hanno suggerito che ISON si fosse già frantumata.
Tuttavia, nel corso dei giorni 26-27 novembre 2013, grazie al Solar and Heliospheric Observatory in the Large Angle and Spectrometric Coronagraph Instrument (NASA/ESA), la cometa è apparsa abbastanza chiaramente mentre si muoveva da destra in basso dell'immagine, nella zona si spazio vicino ad una nube gigante di materiale solare (CME) che non è noto se la raggiungerà.

Se la cometa si fosse già frantumata, si sarebbe disintegrata completamente durante il passaggio ravvicinato col Sole.

Ció potrebbe comunque avvenire durante questa fase e potrebbe dare una grande opportunità agli scienziati per osservare l'interno della cometa e capire meglio la sua composizione interna, che contiene materiale primordiale del Sistema Solare.

Tutto questo lo scopriremo solo nei prossimo giorni.

Traduzione a cura di Arthur McPaul

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2013/11/131127170445.htm












sabato 16 novembre 2013

Un Modello Spiega La Longevità Della Grande Macchia Rossa




La di Grande Macchia Rossa di Giove è uno dei fenomeni più misteriosi del Sistema Solare. In base a quello che gli scienziati hanno capito circa la dinamica dei fluidi, dovrebbe essere scomparsa secoli fa.

Pedram Hassanzadeh, studioso presso l'Università di Harvard, e Philip Marcus, professore di fluidodinamica presso l'Università della California, Berkeley, ritengono di poter spiegarne il perché.

Il loro studio, che Hassanzadeh ha presentato in occasione alla riunione annuale della divisione della American Physical Society il 25 novembre, fornisce inoltre informazioni sui vortici oceanici persistenti e sui vortici che contribuiscono alla formazione di stelle e pianeta.
"Sulla base delle attuali teorie, la Grande Macchia Rossa avrebbe dovuto spegnersi dopo alcuni decenni. Invece, persiste da centinaia di anni", ha detto Hassanzadeh, che è un borsista post-dottorato presso il Centro di Harvard per l'Ambiente e il Dipartimento Terra e Scienze Planetarie.
Molti processi tendono a dissipare i vortici come la Macchia Rossa. La turbolenza e le onde dovrebbero attenuare l'energia dei suoi venti. Il vortice perde anche altra energia dal calore radiante. Infine, la Macchia Rossa si trova tra due forti correnti a getto che scorrono in direzioni opposte che dovrebbero rallentarla.

Alcuni ricercatori sostengono che la Macchia Rossa guadagna energia assorbendo vortici più piccoli. "Alcuni modelli di computer mostrano che i grandi vortici vivrebbero più a lungo se si fondessero con vortici più piccoli, ma questo non accade abbastanza spesso per spiegare la longevità della macchia di Giove", ha detto Marcus.

Per sondare il mistero della sopravvivenza della Red Spot, Hassanzadeh e Marcus hanno costruito un modello. Si differenziava dai modelli esistenti perché era completamente tridimensionale ed in alta risoluzione.
Molti modelli sui vortici si concentrano sui venti orizzontali vorticosi, dove la maggior parte dell'energia risiede. I vortici hanno anche i flussi verticali, ma questi hanno molta meno energia.
"In passato, i ricercatori hanno ignorato il flusso verticale perché pensavano che non fosse importante e hanno usato le equazioni più semplici perché il modello era difficile da sostenere matematicamente", ha detto Hassanzadeh.

Eppure il movimento verticale rivela un ruolo chiave per la persistenza della Red Spot. Quando il vortice perde energia, il flusso verticale trasporta gas caldi dall'alto e gas freddi dal basso sotto al vortice verso il suo centro, ripristinando parte della sua energia perduta.
Il modello prevede inoltre un flusso radiale, che succhia venti dalle correnti a getto ad alta velocità verso il centro del vortice. Questo pompa energia nel vortice, consentedogli di durare più a lungo.

Secondo Hassanzadeh, lo stesso flusso verticale potrebbe spiegare perché i vortici oceanici, come quelli formatisi in prossimità dello Stretto di Gibilterra, possono durare per anni nell'Oceano Atlantico. Il loro flusso verticale gioca un ruolo nell'ecosistema oceanico sollevando nutrienti alla superficie.

I vortici possono anche partorire la formazione di stelle e pianeti, della durata di milioni di anni, mentre attirano la polvere interstellare e le rocce in grandi masse.
Hassanzadeh e Marcus sanno che il loro modello non spiega del tutto la lunga vita della Red Spot.
Essi credono che l'assorbimento occasionale di vortici più piccoli, in linea con le osservazioni, puó fornire l'energia supplementare necessaria per centinaia di anni di vita. Essi hanno modificato il loro modello al computer per verificare questa tesi.
Forse, un giorno, la Grande Macchia Rossa di Giove vi sembrerà un pó meno misteriosa.

Traduzione a cura di Arthur McPaul

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2013/11/131114131929.htm

giovedì 14 novembre 2013

Strano Oggetto Scoperto Ai Confini Del Sistema Solare



Qualcosa di strano vaga alla periferia del Sistema solare. Il suo nome è 2002 UX25 ed è un KBO (Kuiper Belt Object), un oggetto celeste del diametro di circa 650 chilometri, come molti altri  in quella regione che si estende oltre orbita di Nettuno che prende il nome di Fascia di Kuiper. Cos’ha dunque di così strano 2002 UX25?

La sua densità, che è minore di quella dell’acqua pura. Se riuscissimo ad adagiare questo grande sasso spaziale in una enorme vasca piena d’acqua, questo riuscirebbe a galleggiare. A scoprire la sorprendente caratteristica che rende 2002 UX25 il più grande oggetto solido del Sistema Solare con una densità così bassa è stato Mike Brown, planetologo del California Institute of Technology di Pasadena, il cui articolo è stato accettato per la pubblicazione sulla rivista The. Astrophysical Journal Letters.

Un oggetto di simili dimensioni e così leggero porta un certo scompiglio nell’attuale classificazione dei KBO. Infatti, quelli con un diametro minore di 350 chilometri hanno tipicamente densità inferiori a quella dell’acqua mentre quelli con diametri maggiori di 800 chilometri presentano densità maggiori. Vero è che 2002 UX25 si pone proprio nella terra di mezzo tra le due categorie, ma il fatto che la sua densità sia di ben il 18 per cento più bassa di quella dell’acqua solleva comunque molte domande sui processi di formazione degli oggetti di questo tipo che popolano il Sistema solare esterno.

Domande, queste e molte altre, a cui i planetologi cercheranno di dare risposte con le missioni presenti e future dedicate allo studio dei corpi celesti più remoti del nostro sistema planetario. La sonda New Horizons della NASA è nel pieno del suo lungo viaggio verso Plutone, che raggiungerà nel 2015. Seppure ‘declassato’ a pianeta nano, Plutone continua a sorprendere gli scienziati. Come nel luglio dello scorso anno, quando le immagini del telescopio spaziale Hubble permisero di scoprire la sua quinta luna, dal diametro di appena una ventina di chilometri, recentemente battezzata Stige dalla International Astronomical Union.

L’interesse per questa zona del Sistema Solare è alto anche in Europa. ODINUS (Origins, Dynamics and Interiors of Neptunian and Uranian Systems) dedicata allo studio di Urano e Nettuno è tra i candidati per la seconda delle missioni di classe L previste dal piano Cosmic Vision 2015-2025 dell’Agenzia Spazia Europea le (la prima è stata già assegnata alla missione JUICE verso Giove e le sue lune) e vede una importante partecipazione di personale dell’Istituto di Astrofisica e Planetologia Spaziale dell’INAF. A breve dovrebbe arrivare la decisione ufficiale dell’ESA che potrebbe sancirne l’approvazione definitiva.

A cura di Arco Galliani

Fonte: http://www.media.inaf.it/2013/11/14/quelloggetto-esotico-ai-confini-del-sistema-solare/

mercoledì 13 novembre 2013

Un Pianeta Roccioso Dalle Dimensioni Terrestri




Nel mese di agosto, i ricercatori del MIT hanno individuato un pianeta extrasolare con un brevissimo periodo orbitale: Il team ha scoperto che Keplero 78b, un piccolo pianeta intensamente caldo a 400 anni luce dalla Terra, gira attorno alla sua stella in appena 8,5 ore ed è circa 1,2 volte la dimensione della Terra, rendendolo uno degli esopianeti più piccoli mai misurato.

Ora questo stesso team ha scoperto che Keplero 78b condivide un'altra caratteristica con la Terra: 1,7 volte la massa del nostro pianeta. Dalle stesse misure, hanno calcolato che anche la sua densità è molto simile, 5,3 grammi per centimetro cubo rispetto ai 5,5 grammi per centimetro cubo.

Le scoperte rendono Kepler 78b il più piccolo esopianeta noto.
Queste nuove misure forniscono una forte evidenza che Kepler 78b è composto per lo più di roccia e ferro.
Tuttavia, le somiglianze potrebbero finire qui in quanto a causa della sua estrema vicinanza alla sua stella ha temperature troppo elevate per sostenere la vita.
"È simile alla Terra, nel senso che ha circa la stessa dimensione e massa, ma ovviamente è molto più caldo raggiungendo almeno 2000 gradi", dice il membro del team di Josh Winn, professore associato di fisica al MIT e un membro dell'Istituto Kavli di Astrofisica e la ricerca spaziale.
Winn e colleghi, tra cui l'autore Andrew Howard, dell'Università delle Hawaii, hanno pubblicano i loro risultati di sulla rivista Nature.

I risultati del gruppo vengono visualizzati nella stessa edizione con un articolo da un gruppo separato di Ginevra, che riporta risultati simili, un accordo scientifico che per Winn conferma la misurazione di massa.

I pianeti con orbite molto vicine offrono agli scienziati una ricchezza di dati: ad esempio, ogni settimana Kepler 78b orbita attorno sua stella circa 20 volte, dando ricercatori numerose opportunità per osservarne il comportamento.
Il team precedentemente aveva determinato la sua orbita e le dimensioni analizzando la luce emessa dalla stella quando il pianeta transitava davanti ad esso. I ricercatori hanno rilevato un transito ogni volta che la luce della stella si affievoliva, misurando questo oscuramento per determinare le dimensioni del pianeta.

Misurare la massa del pianeta è stato uno sforzo un pó più complicato. Invece dell'inseguimento con il movimento del pianeta, i ricercatori hanno monitorato il moto della stella stessa. A seconda della sua massa, un pianeta è in grado di esercitare una forza gravitazionale sulla sua stella. Questo movimento stellare può essere rilevato come un leggerissimo ondeggiamento, noto come spostamento Doppler.

Winn e i suoi colleghi hanno cercato di misurare lo spostamento Doppler di Kepler 78 analizzando le osservazioni con il Keck Observatory alle Hawaii, per un periodo di otto giorni.
Nonostante la potenza ottica del telescopio, il segnale della stella era incredibilmente debole, rendendo il compito assai arduo per gli scienziati.
"Ciascuna delle otto notti eravamo agonizzanti e ci siamo chiesti più volte se in realtà se valesse ancora la pena continuare" , ricorda Winn.

Oltre a ció essi hanno dovuto fare i conti con sltr ostacoli rappresentati dalle macchie stellari ovvero le macchie scure sulla superficie delle stelle. Lo studente laureato Roberto Sanchis-Ojeda, che ha studiato l'effetto delle macchie stellari sulla rilevazione degli esopianeti, ha detto che esse possono essere fastidiosi cerotti che possono far apparire l'effetto Doppler di una stella maggiore del reale, complicando notevolmente i calcoli di massa della massa del pianeta.

Sanchis-Ojeda è stato in grado di risolvere questo enigma tenendo conto del periodo di rotazione di Keplero 78. Tracciando la frequenza con cui apparivano le macchie, ha stabilito che la stella compie una rotazione completa ogni 12,5 giorni, considerevolmente più lunga del periodo orbitale del pianeta ogni 8,5 ore. Da queste misure, Sanchis-Ojeda è stato in grado di calcolare il vero spostamento Doppler della stella rilevando che la stella ruota in modo relativamente lento, a 1,5 metri al secondo (circa la velocità di una camminata veloce).
"La stella si muove alla stessa velocità di quando camminiamo a scuola o andare a fare la spesa", osserva Sanchis-Ojeda". La differenza è che questa stella si trova a 400 anni luce di distanza, quindi immaginiamo quanto sia complicato misurare una velocità così lenta da così lontano".

Dallo spostamento Doppler della stella, il team ha determinato che la massa di Keplero 78b è 1,7 volte quella della Terra (una stima che suggerisce che il pianeta possa essere composto per lo più da roccia e ferro. Tale composizione, non è sorprendente, dato il pianeta ruota molto vicino alla sua stella.
Un pianeta meno massiccio, magari composto interamente da gas, non sarebbe in grado di tenere insieme in un'orbita così vicina. Molto resta ancora da scoprire sulla sua atmosfera e composizione.

Traduzione a cura di Arthur McPaul

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2013/10/131030142815.htm





martedì 29 ottobre 2013

I Laghi del Nord di Titano



Con il Sole che ora splende sopra il polo nord di Titano, Cassini ha ottenuto nuove immagini dei laghi e mari di etano e metano liquido rivelando nuovi indizi sulla loro formazione e sul loro ciclo "idrologico".

Mentre vi è un grande lago e un paio di altri più piccoli vicini al polo sud di Titano, la quasi totalità dei laghi di Titano sono posti vicino al polo nord. Gli Scienziati della missione Cassini sono stati in grado di studiare la maggior parte del terreno con il radar, in grado di penetrare sotto le sue dense nuvole. Fino ad ora, lo spettrometro ad infrarossi di Cassini era riusciuto a catturare solo vedute parziali di questa zona.
Ma tre incontri ravvicinati hanno permesso una nuova opportunità grazie anche all'irradiamento solare che ha iniziato a perforare il buio invernale rispetto all'arrivo di Cassini nove anni fa.
Le immagini, riprese il 10, 26 luglio e 12 settembre del 2013 rivelano le differenze nella composizione del materiale intorno ai laghi. I dati suggeriscono che porzioni di laghi e mari di Titano potrebbero esser evaporati e aver lasciato spazio alle pianure limitrofe. Esse appaiono arancioni in questa immagine sullo sfondo verdastro di roccia tipica di ghiaccio d'acqua.
"La vista dalla mappatura spettrometrica ci offre una visione olistica di una zona che avevamo visto solo in parte e ad una risoluzione più bassa", ha detto Jason Barnes, uno scienziato dell'Università di Idaho, Moscow. "Si scopre che il polo nord di Titano è ancora più interessante di quello che pensavamo, con una complessa interazione di liquidi in laghi e mari e depositi lasciati dall'evaporazione del passato".

L'area luminosa indica che la superficie è unica rispetto al resto e spiegherebbe il perché quasi tutti i laghi si trovano in questa regione. I laghi di Titano hanno forme molto particolari, con sagome arrotondate o fianchi ripidi e sono state proposte una serie di meccanismi di formazione.

La gamma di spiegazioni variano dal crollo della terra dopo un'eruzione vulcanica a quella carsica, dove i liquidi dissolvono la roccia solubile. I terreni carsici sulla Terra possono creare una topografia spettacolare come le Carlsbad Caverns in New Mexico.
"Da quando i laghi e i mari sono stati scoperti, ci siamo chiesti perché fossero concentrati alle alte latitudini settentrionali", ha detto Elizabeth (Zibi) Tartaruga, un team del Cassini Imaging con sede presso l'Hopkins Applied Physics Laboratory Johns, Laurel, Md.

"Allora, visto che c'è qualcosa di speciale nella superficie di questa regione è un grande indizio per aiutare a limitare le possibili spiegazioni".

Lanciato nel 1997, Cassini ha esplorato il sistema di Saturno dal 2004. Un anno pieno di Saturno è di 30 anni e la sonda ne ha potuto osservare quasi un terzo. In quel tempo, Saturno e le sue lune hanno visto le stagioni dall'inverno all'estate del nord.
"La regione settentrionale dei laghi di Titano è una delle più simili alla Terra e uno dei più intriganti nel sistema solare", ha detto Linda Spilker, scienziato del progetto presso il Jet Propulsion Laboratory della NASA. "Sappiamo che i laghi di Titano cambiano con le stagioni e la lunga missione di Cassini ci sta offrendo l'opportunità di guardarne l'avvicendarsi. Ora che il Sole splende nel nord e abbiamo queste splendide viste, possiamo cominciare a confrontare i diversi dati e capire come i laghi di Titano stanno mutando".

Le nuove immagini sono disponibili online all'indirizzo: http://www.nasa.gov/mission_pages/cassini/multimedia/index.html

Traduzione a cura di Arthur McPaul

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2013/10/131028140656.htm

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mercoledì 23 ottobre 2013

Esplode la cometa C/2012 X1



La cometa C/2012 X1 è entrata in fase di “outburst”, caratterizzata da una rapida espansione della sua chioma. Ed è stato un gruppo di astrofili italiani a riportare l’evento, registrando un repentino aumento di luminosità di 250 volte dell’oggetto. L’atmosfera della cometa o ” chioma” ora assomiglia a quella della 17P/Holmes esplosa nel 2007.

“La cometa è stata scoperta nel dicembre del 2012 dal programma LINEAR, che ha già individuato migliaia di comete e asteroidi”, ha detto a Media INAF Ernesto Guido, membro del gruppo di astrofili “Associazione Friulana di astronomia e meteorologia” e autore dell’osservazione assieme a Nick Howes e Martino Nicolini. ”Sembrava un oggetto comune, non si prevedevano grandi luminosità fino al perielio, che è previsto nel febbraio 2014. Si prevedeva un massimo di magnitudine 11″, ha aggiunto.

Un gruppo di osservatori europei, tra cui Guido e i suoi colleghi, utilizzando un telescopio di 500 mm in New Mexico controllato da remoto, hanno ripreso questa immagine dell’esplosione. La magnitudine prevista della cometa per il 20 ottobre era di circa 14, “ma il 21 ottobre un astrofilo giapponese ha riferito di averla osservato con magnitudine 8,5. I miei colleghi ed io allora abbiamo puntato i nostri strumenti verso la cometa per studiare la situazione: c’era un salto di 6 magnitudini, un salto importante, vuol dire aumento di luminosità di 250 volte”, ha detto poi Guido.




La cometa è visibile nella costellazione della Chioma di Bernice e si trova a 450 milioni di chilometri dalla Terra (circa 3 AU). ”La posizione della cometa non è favorevole perché è visibile solo un’ora prima del sorgere del Sole – ha spiegato -. Ma siamo riusciti a fare comunque alcune riprese. La cometa aveva sviluppato una chioma circolare in seguito all’outburst di due primi d’arco: visto che la cometa è a tre unità astronomiche, vuol dire circa 260 mila chilometri”.

Questa esplosione non significa necessariamente che la cometa sia stata disintegrata. Una vena o caverna nel nucleo cometario possono essere stati esposti alla luce solare, provocando la rapida evaporazione delle sostanze volatili all’interno. Cosa ha causato davvero l’esplosione? “Sono fenomeni abbastanza comuni ma per ora non si può dire – ha spiegato ancora Guido -. L’esplosione sembra simile a quella della 17/P Homes nel 2007 anche se lì ci fu salto di un milione di volte luminosità. Alcuni pensano che potrebbe frammentarsi, ma è presto per dirlo. Dovremo continuare a osservarla e vedere come si evolverà questo outburst”.

Traduzione a cura di Eleonora Ferroni

Fonte:
http://www.media.inaf.it/2013/10/23/e-esplosa-una-cometa/

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Rilevati I Segnali dell'Antica Luce Primordiale



Il viaggio della luce dall'universo molto remoto fino ai moderni telescopi è lungo e tortuoso. La luce antica ha infatti viaggiato miliardi di anni per raggiungerci e lungo la strada, il suo percorso è stato distorto dalla forza della materia, che porta a un modello di luce contorto.

Questo modello di luce contorta, chiamato modalità-B, è stato finalmente individuato. La scoperta, che porterà a migliori mappe della materia attraverso il nostro Universo, è stato realizzato utilizzando il South Pole Telescope della National Science Foundation, con l'aiuto dell 'Herschel Space Observatory.
Gli scienziati hanno da tempo previsto due tipi di modalità-B: quelli che sono stati trovati di recente sono stati generati qualche miliardo di anni fà dopo la naacita del nostro Universo (che è attualmente stimata in circa 13,8 miliardi anni). Gli altri, chiamati primordiali, si teorizza che siano stati prodotti quando l'Universo era neonato, ovvero frazioni di secondo dopo la sua nascita nel Big Bang.

"Questa ultima scoperta è un buon posto di blocco sulla strada per la misurazione del modelli-B primordiali", ha detto Duncan Hanson della McGill University di Montreal, in Canada, autore principale del nuovo rapporto pubblicato 30 settembre nell'edizione online di Physical Review Letters.

La fantomatica modalità-B prordiiale puó contenere indizi su come è nato il nostro Universo. Gli scienziati stanno attualmente setacciando i dati della missione Planck. Sia Herschel che Planck sono missioni dell'Agenzia Spaziale Europea, con importanti contributi della NASA.

La più antica luce che vediamo intorno a noi oggi, chiamata radiazione cosmica di fondo, richiama ad un tempo di sole centinaia di milioni di anni dopo che l'Universo fu stato creato. Planck ha recentemente prodotto la migliore mappa di sempre di questa luce, rivelando nuovi dettagli dell'età del nostro cosmo, il contenuto e l'origine.
Una frazione di questa antica luce è polarizzata, un processo che causa onde luminose che vibrano nello stesso piano. Lo stesso fenomeno si verifica quando la luce solare è riflessa da laghi o dalle particelle nella nostra atmosfera. Sulla Terra, con degli occhiali da Sole speciali è possibile isolare questa luce polarizzata, riducendone i riflessi.
La modalità-B é un modello contorto di luce polarizzata. Nel nuovo studio, gli scienziati stanno dando la caccia al tipo di luce polarizzata generato dalla materia in un processo chiamato lente gravitazionale, in cui l'attrazione gravitazionale da nodi della materia distorce il percorso della luce.

I segnali sono molto deboli, e Hanson e colleghi hanno usato la mappa a raggi infrarossi di Herschel della materia, per avere una migliore idea di dove cercare. I ricercatori hanno poi individuato i segnali con il South Pole Telescope, rendendo per la prima volta il rilevamento della modalità-B.

Questo è un passo importante per una migliore mappatura della materia, sia normale che oscura, distribuita in tutto il nostro Universo. I Gruppi di materia nell'Universo primordiale sono i semi di galassie come la nostra Via Lattea.
Gli astronomi sono desiderosi di individuare la modalità-B primordiale successiva. Questi segnali di polarizzazione, da miliardi di anni fa, sarebbero molto più luminosi su scala più ampia rispetto a quello che una missione come quella di Planck è meglio in grado di vedere.

"Queste belle misure dal South Pole Telescope e di Herschel rafforzano la nostra fiducia nel nostro modello attuale dell'Universo", ha dichiarato Olivier Doré, un membro del team statunitense di Planck al Jet Propulsion Laboratory della NASA, Pasadena, in California. "Tuttavia, questo modello non ci dice quanto è grande il segnale primordiale. Stiamo pertando esplorando con entusiasmo un territorio nuovo e potenzialmente molto, molto antico".


Traduzione a cura di Arthur McPaul

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http://www.sciencedaily.com/releases/2013/10/131022101009.htm

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lunedì 21 ottobre 2013

Una Strana Onda Infiamma La Corona Solare



Grazie alle osservazioni con il satellite giapponese Hinode, due ricercatori della Columbia University hanno determinato che le onde magnetiche nei buchi coronali potrebbero essere responsabili del surriscaldamento della corona, uno dei più annosi problemi della fisica solare.

Michael Hahn e Daniel Wolf Savin, due astrofisici della Columbia University a New York, in uno studio pubblicato recentemente su The Astrophysical Journal forniscono un importante contributo alla soluzione del problema del riscaldamento coronale, un dilemma su cui i fisici solari discutono da più di 70 anni.

Per sintetizzare i termini del problema si può immaginare una fiamma sprigionarsi da un cubetto di ghiaccio: un simile effetto avviene sulla superficie del Sole. Il processo di fusione nucleare riscalda il nucleo della nostra stella a 15 milioni di gradi; man mano ci si allontana da questa fornace il plasma si raffredda, fino alla relativamente rinfrescante temperatura di circa 6.000 gradi registrata sulla superficie. Ma la temperatura del gas nella corona, la parte più esterna dell’atmosfera solare, torna inaspettatamente a innalzarsi oltre il milione di gradi.

Esistono due teorie dominanti per spiegare il misterioso surriscaldamento della corona solare. Una lo attribuisce agli anelli di campo magnetico che si distendono lungo la superficie solare e che rilasciano energia quando si strappano. Un’altra ascrive il riscaldamento a peculiari oscillazioni del plasma solare originate sotto la superficie, dette onde alfveniche, che trasportano energia e la depositano nella corona. Entrambi questi processi accadono continuamente sul Sole, ma finora gli scienziati non hanno potuto determinare se uno dei due rilasci da solo una sufficiente energia per scaldare la corona fino alle alte temperature osservate.

Hahn e Savin hanno preso in considerazione una particolare regione del Sole, un buco coronale, un’area dove il plasma, più freddo e meno denso rispetto alle zone circostanti, è attraversato da linee di campo magnetico aperte che si distendono dalla superficie solare fino allo spazio interplanetario.

Grazie alle osservazioni di un buco coronale polare effettuate con lo strumento Extreme Ultraviolet Imaging Spectrometer a bordo del satellite giapponese Hinode, i due ricercatori hanno potuto stabilire che le onde magnetiche nel buco coronale polare contengono abbastanza energia per riscaldare la corona. Inoltre, le onde rilasciano la maggior parte della loro energia ad altezza sufficientemente basse da permettere al calore di diffondersi attraverso la corona.

Problema risolto, dunque? «Questi risultati sono molto importanti, ma purtroppo non mettono la parola fine alla lunga storia del problema del riscaldamento coronale» ha commentato Alessandro Bemporad dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Torino, evidenziando come rimangano ancora dubbi sulla corretta interpretazione dei dati strumentali. Inoltre, nessuno conosce ancora esattamente che tipo di onde siano quelle che gli astronomi stanno rilevando, e perché rilascino in questo modo la loro energia. «Tante, troppe, domande rimangono ancora aperte» conclude Bemporad.

A cura di Stefano Parisini

Fonte:
http://www.media.inaf.it/2013/10/16/onde-magnetiche-corona-solare/

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Allende e la Supernova



Un team di ricercatori ha studiato gli isotopi di ossigeno presenti all'interno della condrite carbonacea chiamata "Allende", caduta sulla Terra nel 1969. Si tratta di alcuni tra i più antichi materiali del Sistema Solare, e gli scienziati vi hanno trovato tracce dell'antica esplosione di una stella. Una conferma all'idea che una supernova sia all'origine del nostro sistema.

Un nuovo studio di alcuni ricercatori del Laboratorio Nazionale Lawrence Livermore e dell’Università dell’Arizona (Stati Uniti) ha dimostrato la presenza di tracce di una supernova all’interno del meteorite Allende, una condrite carbonacea caduta sulla Terra nel 1969 (la più grande mai trovata).

Nella ricerca il gruppo congiunto di studiosi spiega come i campioni provenienti dal meteorite mostrino una tipologia di isotopi differente da quella trovata sul nostro pianeta, sulla Luna e su altri meteoriti. Questo proverebbe che gli isotopi provengano direttamente da una supernova.

Allende è uno dei meteoriti più antichi mai studiati e potrebbe risalire anche al momento della nascita del nostro Sistema Solare, 4,5 miliardi di anni fa. Al suo interno, sono racchiusi alcuni fra i materiali più antichi del Sistema solare: i CAI (calcium-aluminium-rich inclusions), che non sono altro che piccoli agglomerati ricchi di calcio e alluminio. Allende è forse il meteorite più studiato al mondo e gli stessi ricercatori hanno già ricostruito nel dettaglio il suo percorso attraverso il disco protoplanetario dal quale ha avuto origine il nostro Sistema solare. A quanto risulta dagli ultimi risultati, i CAI sono i residui di una stella che aveva terminato il suo ciclo di vita diventando una supernova.

Gli studiosi avevano già effettuato delle analisi isotopiche dell’ossigeno della condrite carbonacea, misurando le abbondanze relative degli isotopi d’ossigeno-16 (16O) e ossigeno-17 (17O). Nella nuova ricerca hanno analizzato i tre processi di formazione degli isotopi (p, S e R), processi dai quali si formano tutti gli elementi più pesanti del nichel. Gli isotopi trovanti dentro Allende confermano la teoria che il materiale sia stato plasmato proprio dall’esplosione di una supernova. Il resto della condrite (il guscio esterno) è probabilmente un agglomerato di detriti che si sono fusi durante il viaggio nello spazio.

Allende è una vera e propria carta d’identità per il nostro Sistema solare. I ricercatori lo studiano da decenni, infatti, proprio perché la sua struttura e il materiale possono svelare i segreti della formazione dei pianeti. I nuovi dati proposti su Proceedings of the National Academy of Science da Gregory A. Brenneckaa, Lars E. Borga e Meenakshi Wadhwab confermano, quindi, le teorie che vedono il Sole e i pianeti come il risultato dell’esplosione di una supernova. Un’altra teoria simile afferma, invece, che ci sia più di una supernova all’origine del Sistema solare.

Per saperne di più:

Leggi lo studio dei ricercatori pubblicato su Proceedings of the National Academy of Science: Evidence for supernova injection into the solar nebula and the decoupling of r-process nucleosynthesis, di Gregory A. Brenneckaa, Lars E. Borga e Meenakshi Wadhwab.

A cura di Caterina Boccato

Fonte:
http://www.media.inaf.it/2013/10/15/allende-e-la-supernova/


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domenica 20 ottobre 2013

Una stella nana per GAIA



A pochi giorni dalla partenza della missione dell’ESA, GAIA sono molti gli studi sulle potenzialità di questo promettente satellite. Tra i risultati emergono anche le possibili sinergie con i progetti da Terra per la ricerca dei pianeti extrasolari.

Nel tentativo di dare una risposta a una delle domande fondamentali del genere umano “Siamo soli nell’universo?” le stelle a noi più vicine, entro un centinaio di anni luce dal Sole, rappresentano il campione più ovvio e immediato da analizzare. Il campo interdisciplinare dei pianeti extrasolari, sempre più in rapida espansione, ha registrato recentemente un aumento di interesse nello studio riguardante le stelle di piccola massa, chiamate comunemente stelle nane M, oltre alla ricerca di stelle simili al Sole. Le stelle nane M sono stelle di sequenza principale. Sono cioè oggetti che si trovano nella fase evolutiva più lunga e stabile bruciando tranquillamente l’idrogeno nelle loro regioni centrali, con temperature superficiali inferiori a quelle del Sole.

La ricerca di pianeti attorno a tali stelle “fredde” è estremamente interessante in quanto sono le più comuni nella nostra Galassia e sono anche le più frequenti nei dintorni del Sole. Determinare accuratamente le frequenze di pianeti attorno a queste stelle ha profonde implicazioni per le teorie di formazione ed evoluzione dei sistemi planetari.

E’ stato in questi giorni accettato dal Monthly Notices of the Royal Astronomical Society – MNRAS per la pubblicazione, un articolo che vede coinvolti diversi ricercatori INAF sui risultati ottenuti con un dettagliato esperimento numerico atto a stimare le potenzialità della missione Gaia, in partenza il 20 novembre prossimo, nel rilevare e caratterizzare pianeti giganti attorno a stelle nane M che si trovano entro 100 anni luce dal Sole. Gaia, missione spaziale di punta dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA), effettuerà misure di posizione (astrometriche) di elevatissima precisione (100 volte meglio di quelle ottenute dal satellite Hipparcos). Grazie a queste misure sarà possibile rivelare piccole deviazioni periodiche nel moto stellare dovute alla perturbazione gravitazionale indotta dalla presenza di pianeti attorno alla stella madre.

Le estrapolazioni compiute sui conteggi stellari di nane M entro 300 anni luce dal Sole permettono di fare l’ipotesi che Gaia potrà rilevare oltre 2 000 nuovi pianeti giganti attorno a stelle di piccola massa; ottenere valori accurati della massa e dei parametri dell’orbita per circa 500 sistemi planetari con periodo orbitale tra 0,2 e 6 anni. La dimensione del campione permetterà di porre dei limiti molto stringenti sulle frequenze planetarie attorno a stelle nane M.

Abbiamo chiesto ad Alessandro Sozzetti dell’INAF Osservatorio Astrofisico di Torino, primo autore dell’ articolo, già impegnato in altri progetti riguardanti la caratterizzazione dei sistemi planetari, quale sarà il valore aggiunto di Gaia in questo campo:

“I risultati astrometrici ricavati da Gaia saranno complementari a quelli ottenuti con lo spettrografo HARPS-N installato sul Telescopio Nazionale Galileo (TNG) alle Isole Canarie, dato che si tratta di osservazioni sullo stesso campione di stelle. Nell’ambito, per esempio, del progetto INAF GAPS (Global Architecture of Planetary Systems) le osservazioni di HARPS-N@TNG saranno un elemento di fondamentale sinergia con i dati prossimi futuri di Gaia per una comprensione globale dell’architettura di questi sistemi planetari”.





Sinergia GAIA – GAPS


Sozzetti aggiunge che Gaia osserverà per cinque anni le regioni esterne dei sistemi planetari alla ricerca di pianeti giganti (300 masse terrestri) con orbite entro le 5 UA (ovvero fino a 10 anni di periodo), quindi oggetti lontani dalla stella madre, con periodi orbitali fino al doppio della durata della missione. Il programma GAPS con HARPS-N produrrà invece informazioni sui pianeti di piccola massa (Nettuni e Super-terre con 10-20 masse terrestri) entro 1 AU (ovvero periodi orbitali inferiori a 1 anno).

“La tecnica delle velocità radiali con HARPS-N@TNG e quella astrometrica con Gaia sono estremamente complementari”, continua Sozzetti. “Sotto questo punto di vista il campione di nane M in comune tra i due programmi sarà dunque caratterizzato con un’accuratezza senza precedenti: Gaia individuerà tutti i pianeti gioviani su orbite di lungo periodo (dove è massima la sua sensibilità), mentre HARPS-N troverà pianeti di piccola massa nelle regioni interne (dove è massima la sua sensibilità). In tal modo si potranno identificare sistemi con l’architettura analoga a quella del nostro Sistema Solare”.

Insomma, grandi speranze per questa missione e comunque sempre tanto lavoro da fare per gli astronomi impegnati in questo giovane e affascinante ramo dell’Astrofisica. Troveremo altre terre? Il nostro Sistema Solare è una regola o un’eccezione?

In collaborazione con Sabrina Masiero (GAPS member)

A cura di Caterina Boccato

Fonte:
http://www.media.inaf.it/2013/10/14/una-stella-nana-per-gaia/

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