sabato 17 gennaio 2015

New Horizons, ultimo tratto per Plutone


A partite dalla fine di gennaio la sonda, risvegliatasi a dicembre, comincerà a riprendere il pianeta nano fornendo le prime immagini per una migliore analisi dinamica di plutone e le sue lune. Inoltre effettuerà ricerche sullo spazio interplanetario, le radiazioni solari e le nubi di particelle interne alla fascia di Kuiper.

Gennaio 2006, nove anni or sono, la sonda della NASA New Horizons ha iniziato il suo ultimo tratto di viaggio che la porterà allo storico incontro con Plutone. La sonda sta entrando nella prima di diverse fasi di approccio che culmineranno il 14 luglio prossimo (data della presa della Bastiglia) con il primo flyby del pianeta nano chiamato Plutone, a 7,5 miliardi chilometri dalla Terra.

Per la prima volta, ha avuto modo di affermare Jim Green, direttore del Planetary Science Division della NASA presso la sede dell’agenzia a Washington, l’uomo vedrà da vicino, tramite la sonda «questo freddo, mondo inesplorato nel nostro sistema solare».

La sonda New Horizons si è svegliata dal suo lungo letargo nel mese di dicembre e passerà presto vicino a Plutone, all’interno delle orbite di cinque delle sue lune. A partire da domenica 25 gennaio la sonda inizierà a scattare immagini, ancora da lontano del pianeta e delle sue lune, grazie alla Reconaissance Imager (LORRI), così da ottenere informazioni importanti sulla dinamica dei satelliti di Plutone. Le immagini inoltre avranno un ruolo fondamentale nella navigazione del veicolo spaziale per i rimanenti 220 milioni km mancanti a Plutone.

Durante questa prima fase di avvicinamento, che durerà fino a primavera, New Horizons condurrà una notevole quantità di attività scientifiche supplementari. Verranno raccolti dati sull’ambiente interplanetario, misurazioni delle particelle ad alta energia provenienti dal Sole, analisi delle polveri particellari nelle zone interne della Fascia di Kuiper. Oltre a Plutone, infatti, la regione esterna e inesplorata del sistema solare, nasconderebbe migliaia di potenziali piccoli pianeti rocciosi.

Altre ricerche e studi inizieranno in primavera, quando le telecamere e gli spettrometri di bordosaranno in grado di fornire immagini ad una risoluzione maggiore di quella ottenibile cone i telescopi a Terra. Il che permetterà di orrenere immagini utili a mappare Plutone e le sue lune con migliore precisione rispetto a missioni e studi precedenti.

Fonte:INAF

Oscuri perturbatori oltre Plutone?




Forse due o più pianeti ancora ignoti oltre l'orbita di Plutone potrebbero essere i responsabili che hanno modellato in modo del tutto peculiare le traiettorie di alcuni remoti oggetti celesti, noti come ETNO (Extreme Trans-Neptunian Objects). Questi i risultati di uno studio appena pubblicato sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society. La cautela comunque è d'obbligo, per avere conferme a questo scenario serviranno dati ed analisi più completi e accurati


Non c’è pace oltre Nettuno. Nel senso che la regione più esterna del Sistema solare è sempre più al centro dell’attenzione degli astronomi. Merito di questa spinta è, forse,l’imminente arrivo a Plutone della sonda New Horizons della NASA. Ma c’è anche l’oggettiva difficoltà di avere osservazioni estese e profonde degli oggetti che popolano la fascia transnettuniana e bizzarri comportamenti dinamici di alcuni di essi a stuzzicare l’interesse e la “fantasia” degli addetti ai lavori, che esplorano tutte le vie possibili per spiegarli.


L’ultimo studio, proposto dai fratelli Carlos e Raul de la Fuente Marcos, ricercatori presso l’Università Complutense di Madrid in Spagna e da Sverre Aarseth, dell’Università di Cambridge, nel Regno Unito, indica che oltre l’orbita di Plutone potrebbe esserci più di un corpo celeste molto massiccio, di taglia comparabile a un pianeta, in grado di “modellare” in modo del tutto peculiare le orbite di alcuni oggetti transnettuniani. Tanto da spingere gli astronomi a classificarli come “estremi”: la ‘E’ di ETNO sta proprio per Extreme (mentre TNO è la sigla di Trans Neptunian Object). La popolazione di questi corpi celesti oggi conosciuti è ancora limitata a una dozzina di componenti, che si trovano ad orbitare a distanze dal Sole comprese tra 150 e 525 unità astronomiche (una unità astronomica è la distanza media Terra-Sole, pari a circa 150 milioni di chilometri).


«Questi oggetti che possiedono parametri orbitali inattesi ci fanno credere che alcune forze invisibili stanno modificando le traiettorie degli ETNO e riteniamo che la spiegazione più plausibile sia dovuta all’esistenza altri pianeti sconosciuti oltre l’orbita di Plutone» spiega Carlos de la Fuente Marcos, che aggiunge: «Non sappiamo con certezza il loro numero, poiché i dati che abbiamo utilizzato sono limitati, ma i nostri calcoli suggeriscono che devono esserci almeno due pianeti, forse più, verso i confini del nostro Sistema solare».


Un’affermazione alquanto forte, non c’è che dire. I ricercatori sono giunti a queste conclusioni grazie a simulazioni al calcolatore che hanno ricostruito i parametri orbitali di alcuni ETNO contemplando gli effetti del meccanismo di Kozai. Questo processo descrive le perturbazioni gravitazionali che un oggetto celeste di grande massa esercita sull’orbita di un altro molto più piccolo e lontano, come nel caso della perturbazione dell’orbita della cometa 66P/Machholz1 prodotta da Giove.


Sono tuttavia gli stessi autori dello studio, appena pubblicato sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, ad essere cauti rispetto ai risultati proposti. In effetti, l’esistenza di questi perturbatori di taglia planetaria cozza infatti pesantemente contro le predizioni dei modelli di formazione del Sistema solare, che indicano come non dovrebbero trovarsi pianeti in orbite circolari oltre Nettuno. E poi, il numero degli oggetti analizzati (tredici in totale) è ancora troppo limitato per poter trarre conclusioni definitive sul controverso argomento. Insomma, dovremo aspettare nuove e approfondite indagini per capire se il classico sasso lanciato nello stagno da questa ricerca non si rivelerà, invece, come accade spesso, un buco nell’acqua.



Per saperne di più: 

L’articolo Flipping minor bodies: what comet 96P/Machholz 1 can tell us about the orbital evolution of extreme trans-Neptunian objects and the production of near-Earth objects on retrograde orbits di C. de la Fuente Marcos, R. de la Fuente Marcos, S. J. Aarseth pubblicato sull rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society 


Fonte: INAF

giovedì 15 gennaio 2015

L'Evoluzione Degli Aloni Della Materia Oscura










Alcuni ricercatori dell’Istituto Kavli IPMU hanno trovato che gli effetti ambientali, come le code di marea che vengono generate a seguito delle interazioni gravitazionali su scale molto maggiori di quelle caratteristiche di un ammasso di galassie, sono indispensabili per spiegare la distribuzione e l’evoluzione degli aloni di materia oscura che circondano le galassie. Questo lavoro, pubblicato su Physical Review D, è stato reso possibile grazie ad un confronto dettagliato tra teoria e simulazioni e permette di avere ulteriori indizi sulle proprietà fisiche dell’Universo.

Nello scenario standard che descrive la formazione delle strutture cosmiche, la materia oscura collassa per effetto gravitazionale formando una regione molto densa, chiamata alone di materia oscura, che successivamente attrae il gas causando la formazione di stelle e galassie. Dunque, per estrarre l’informazione cosmologica dalle mappe galattiche tridimensionali, come ad esempio le survey SDSS BOSS, SuMIRe e così via, è importante capire come si sono evoluti gli aloni di materia oscura nel corso della storia cosmica, un problema noto in cosmologia con il termine halo bias.

«Vari studi hanno già tentato di descrivere questo problema cosmologico», spiega Teppei Okumura, un ricercatore coinvolto nello studio. «Ad ogni modo, nessuno di essi ha fornito dei buoni risultati dalle simulazioni. Perciò, abbiamo deciso di proseguire i lavori precedenti motivati da argomentazioni di natura matematica al fine di verificare se le nostre estensioni fossero valide».

Gli autori dimostrano che i termini cosiddetti “non locali di ordine superiore” che si originano dagli effetti ambientali, come appunto le code di marea che si generano dalle interazioni gravitazionali, devono essere prese in considerazione per poter descrivere nelle simulazioni il problema dell’halo bias. Inoltre, nell’articolo i ricercatori confermano che l’entità di questi effetti ambientali concorda molto bene con una semplice previsione teorica.

«I risultati del nostro studio forniscono delle previsioni più accurate relative alla distribuzione degli aloni di materia oscura se però vengono considerati in maniera appropriata i termini di ordine superiore che sono stati omessi in letteratura», afferma Shun Saito, primo autore dello studio. «Il nostro modello che abbiamo ulteriormente perfezionato è stato già applicato ai dati reali del progetto BOSS. Perciò il nostro lavoro permette di migliorare certamente la stima delle masse del neutrino non solo ma ci fornisce preziosi indizi sull’enigmatica energia oscura».

Physical Review D: Shun Saito et al. – Understanding higher-order nonlocal halo bias at large scales by combining the power spectrum with the bispectrum

arXiv: Understanding higher-order nonlocal halo bias at large scales by combining the power spectrum with the bispectrum

A cura di Corrado Ruscica

Foto in alto: Simulazione al computer di una galassia a spirale simile alla Via Lattea, con l’alone di materia oscura che l’avvolge. Crediti: Chris Power e Rick Newton, ICRAR


Fonte: INAF



Asteroidi: Una Storia Da Riscrivere











Se confermata, è una di quelle scoperte che costringeranno ad aggiornare Wikipedia. Dove alla voce condrule (consultata nell’edizione inglese, in italiano manca) leggiamo ancora oggi che si tratta di sferette tondeggianti presenti nelle condriti, e fin qui nulla da eccepire, le quali sarebbero a loro volta i mattoncini – the building blocks – del nostro sistema planetario. Ebbene, potrebbe essere andata proprio al contrario: secondo quanto ricostruito da un team di planetologi del MIT e della Purdue University, coordinati da un’autorità del settore qual è Jay Melosh, sarebbero infatti i pianeti all’origine delle condrule, e non viceversa. Per la precisione, l’impatto fra planetesimi di grandi dimensioni, nell’ordine dei 10 km di diametro.

L’origine delle condrule è un enigma di lunga data. È da più d’un secolo che gli scienziati analizzano questi grani di dimensioni millimetriche, presenti delle meteoriti, senza mai riuscire a giungere a una conclusione convincente e condivisa circa la loro formazione. Fra le ipotesi più recenti, persino quella che a generare le alte temperature necessarie a liquefare la roccia siano stati i campi magnetici presenti nel disco protoplanetario primordiale.

Ebbene, stando al modello messo a punto dal team di Melosh, descritto sull’ultimo numero di Nature, non c’è bisogno di spingersi a tanto: a spiegare la loro formazione e la loro abbondanza sarebbero sufficienti impatti fra protopianeti avvenuti durante i primi cinque milioni di anni d’accrescimento planetario. Se l’impatto avviene a velocità di almeno 2.5 chilometri al secondo, si legge nell’articolo firmato da Brandon Johnson e colleghi, il materiale roccioso raggiunge, nella regione circostante la superficie di collisione, temperature sufficienti a fondere la roccia e a espellerla sotto forma di getto liquido. Getto che a sua volta dà origine a goccioline di scala millimetrica, le quali si raffredderebbero poi a una velocità compresa fra i dieci e i mille gradi all’ora, compatibilmente con quanto richiesto per produrre condrule come quelle effettivamente osservate nelle meteoriti.

«Comprendere il processo alla base della formazione delle condrule è un po’ come guardare attraverso il buco della serratura: anche se non ci permette di vedere tutto ciò che accade dietro alla porta, ci offre una visione chiara di una porzione dell’altra stanza, che nel nostro caso equivale a uno sguardo agli albori del Sistema solare», spiega Melosh. «Ciò che abbiamo riscontrato è che il modello basato sugli impatti descrive assai bene ciò che sappiamo di questo materiale unico e del Sistema solare primordiale. Dunque, al contrario di quello che ritiene la maggior parte degli esperti di meteoriti, gli asteroidi non sono i resti del materiale dal quale hanno preso forma i pianeti, e i grumi di condrule non sono a loro volta prerequisiti per un pianeta».

Una conclusione, questa, che andrebbe a intaccare non poco il ruolo fino a oggi ricoperto dalle meteoriti nello studio della formazione planetaria. «Le condriti sono state ritenute a lungo un materiale simile a quello che ha dato origine ai pianeti. Quel che emerge dal nostro studio è invece che le condrule potrebbero non essere altro che un sottoprodotto degli impatti fra oggetti di una generazione precedente», osserva infatti David Minton, della Purdue University, fra i coautori dell’articolo, «e le meteoriti potrebbero dunque non essere così rappresentative del materiale dal quale si sono formati i pianeti».

Il prossimo passo, dice Minton, sarà ora quello di studiare in che modo questo processo di formazione delle condrule potrebbe eventualmente trovare posto in un nuovo modello di formazione planetaria: quello noto come pebble accretion, in cui un ruolo cruciale è giocato dal gas sottratto alla nebulosa protoplanetaria.

A cura di Marco Malaspina

Foto in alto: Foto: David Minton (sx) e Jay Melosh (dx) con un frammento di meteorite contenente condrule.
Crediti: Purdue University/John Underwood

Fonte: INAF

Per saperne di più:

Leggi su Nature l’articolo “Impact jetting as the origin of chondrules“, di Brandon C. Johnson, David A. Minton, H. J. Melosh e Maria T. Zuber



Dieci Anni Fa, Huygens Mostró Titano







Dieci anni fa, il 14 gennaio del 2005, la sonda Cassini, frutto della collaborazione di tre agenzie spaziali, NASA, ESA e ASI, paracadutava sulla luna di Saturno, Titano, la sonda Huygens. Questa attraversava la densa atmosfera del satellite, fornendo le prime immagini di quel mondo, che molto ricorda il pianeta Terra nella sua primissima fase iniziale, quando ancora il metano e l’attività vulcanica caratterizzavano la sua atmosfera e la sua superficie.

La discesa della sonda durò circa due ore prima di toccare il freddo suolo di Titano, dal quale continuò a trasmettere per ancora un’ora prima che le batterie si esaurissero. Anche a bordo di Huygens, come per Cassini, non mancava strumentazione italiana. HASI si chiamava infatti lo strumento sviluppato dall’Agenzia Spaziale Italiana destinato a misurare le proprietà fisiche dell’atmosfera e della superficie di Titano.

Huygens è il primo oggetto umano, l’unico al momento, atterrato su uno dei satelliti dei pianeti che caratterizzano il sistema solare esterno. Parte integrante di una missione, la Cassini-Huygens, che, lanciata nel 1997, entrò nel sistema di Saturno nell’estate del 2004 per i previsti quattro anni di studio. Da allora ne sono passati più di dieci e la sonda Cassini continua a regalarci preziose informazioni sul pianeta degli anelli e le sue numerose e fredde lune.

A cura di Francesco Rea

Fonte: INAF