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lunedì 31 ottobre 2011

Composti Organici Complessi Della Vita Sospesi Tra Le Stelle




Gli astronomi della University of Hong Kong hanno pubblicato sulla rivista Nature uno studio in cui si afferma che composti organici di inaspettata complessità sono presenti in tutto l'Universo. I risultati suggeriscono che composti organici complessi non sono il solo dominio della vita, ma possono essere fatti naturalmente da stelle.

Il prof. Sun Kwok e il Dr. Yong Zhang della University of Hong Kong hanno dimostrato che una sostanza organica che si trova comunemente in tutto l'Universo contiene una miscela di idrocarburi aromatici e alifatici. I composti sono così complessi che le loro strutture chimiche sono simili a quelle del carbone e del petrolio. Il carbone e il petrolio sono i resti di vita antica, questo tipo di materia organica si ritiene infatti che si sia formato solo da organismi viventi. La scoperta del team suggerisce che i composti organici complessi possono essere sintetizzati nello spazio anche quando non sono presenti forme di vita.

I ricercatori hanno studiato un fenomeno irrisolto: una serie di emissioni infrarosse rilevate nelle stelle, spazio interstellare, e le galassie. Queste firme spettrali sono note come "emissione a raggi infrarossi non identificate". Per oltre due decenni, la teoria più comunemente accettata sull'origine di queste tracce dice che essi provengono da semplici molecole organiche fatte di atomi di carbonio e idrogeno, detti idrocarburi policiclici aromatici (IPA).

Da osservazioni riprese dall'Infrared Space Observatory a bordo del telescopio spaziale Spitzer, Kwok e Zhang hanno mostrato che gli spettri astronomici hanno caratteristiche che non possono essere spiegati da molecole PAH.
Invece propone che le sostanze che generano queste emissioni infrarosse hanno strutture chimiche che sono molto più complesse.
Analizzando gli spettri di polvere di stelle formatesi in esplosioni di stelle chiamate novae, mostrano che le stelle stanno creando questi composti organici complessi su scale di tempo estremamente brevi di settimane.

Non solo le stelle producono materia organica complessa, ma sono anche capaci di esplellerle nello spazio interstellare posto tra le stelle. Lo studio sostiene un'idea già proposta dal Kwok che le stelle sono vecchie fabbriche molecolari in grado di produrre composti organici.
"Il nostro lavoro ha dimostrato che le stelle non hanno alcun problema a creare composti organici complessi in condizioni di quasi-vuoto", dice Kwok. "In teoria, questo è impossibile, ma all'osservazione possiamo vedere che succede".

Ancor più interessante, questa polvere di stelle organica è simile nella struttura complessa di composti organici trovati nei meteoriti. Dal momento che sono resti di meteoriti del Sistema Solare, i risultati sollevano la possibilità che le stelle arricchiscano il proprio sistema solare con composti organici. La Terra primordiale è stata sottoposta a forti bombardamenti da parte di comete e asteroidi, che potenzialmente avrebbero potuto portare polveri organiche della stella. Se questi composti organici hanno giocato un ruolo nello sviluppo della vita sulla Terra, rimane una questione aperta.

Il prof. Sun Kwok lavora come professore alla Facoltà di di Fisica dell'Università di Hong Kong. Ricopre il ruolo di Vice Presidente della IV Divisione (materia interstellare) della International Astronomical Union, ed è il vice presidente entrante della Commissione 51 (bioastronomia) dell'Unione Astronomica Internazionale.
Ha pubblicato molti libri, tra cui il recente libro "La materia organica nell'Universo" (Wiley, 2011).
Il Dr. Yong Zhang è un professore assistente di ricerca presso l'Università di Hong Kong. Questo lavoro è stato sostenuto da fondi di ricerca del Consiglio di Hong Kong.

Foto in alto:
Uno spettro dall'Infrared Space Observatory sovrapposta alal'immagine della Nebulosa di Orione, dove si trovano queste sostanze organiche complesse. (Credit: Immagine gentilmente concessa da L'Università di Hong Kong / Background: image courtesy Hubble della NASA, CR O'Dell e SK Wong (Rice University))

Traduzione a cura di Arthur McPaul

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2011/10/111026143721.htm

Pubblicato da arthurmcpaul alle 12:11 Nessun commento:
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La Nave Interstellare Icarus cercherà anche tracce di vita aliena




Il Progetto Icarius è un ambizioso studio che prevede di lanciare un veicolo spaziale senza equipaggio verso una destinazione interstellare. Avviato dalla Tau Zero Foundation e dalla British Interplanetary Society, è gestito dalla Icarius Interstellar Inc., un'organizzazione not-profit di scienziati dedicata al volo spaziale interstellare che sta lavorando per sviluppare un veicolo spaziale che può viaggiare fino ad una stella vicina.

Ian Crawford, relatore in Scienze Planetarie e Astrobiologia alla Birkbeck College, University of London e alla Lead Designer per gli obiettivi scientifici del modulo Icarius, discute degli esperimenti scientifici che potrebbero essere effettuati durante un viaggio interstellare e di alcune delle priorità quando Icarius arriverebbe nel sistema stellare di destinazione.

Lo studio per Icarius ha il compito di progettare un veicolo interstellare capace di fare in situ investigazioni scientifiche.

Ci possono essere pochi dubbi sul fatto che la ricerca scientifica in particolare nel campo dell'astronomia, della scienza planetaria e dell'astrobiologia, saranno i principali beneficiari del volo interstellare del progetto Icarius.

Nella sua lunga storia, l'astronomia ha fatto passi da gigante attraverso lo studio della luce che ci giunge dal cosmo, ma c'è un limite alla quantità di informazioni che possono essere spremute dall'analisi della luce stellare e di altre radiazioni cosmiche.

Gli obiettivi scientifici di Icarius possono essere suddivisi nelle seguenti categorie:

1) Ricerca scientifica sul lungo percorso durante la fase di crociera tra le stelle;

2) Studi astrofisici della stella stessa, o delle stelle, multiplo.

3) Studi di scienza planetaria di pianeti nel sistema di destinazione, incluse le lune, gli asteroidi e le comete di interesse;

4) Studi strobiologici di qualsiasi pianeta abitabile o lune che si trovano nel sistema planetario di destinazione.

Alcune misurazioni chiave che potrebbero essere fatte sono la densità gassosa, la composizione, lo stato di ionizzazione, la densità delle polveri e la loro composizione, il campo di radiazione interstellare e l'intensità del campo magnetico, tutti in funzione della distanza tra il sole e il sistema stellare di destinazione.

Determinare alcune di queste proprietà del mezzo interstellare locale sarà importante anche per la pianificazione a lungo termine di missioni interstellari successive per quantificare il rischio di impatto posto dai grani di polvere interstellare.

Oltre agli studi del mezzo interstellare condotto su tutto il percorso, ci sono altre misurazioni astronomiche e fisiche che potrebbero far uso del veicolo Icaris come piattaforma di osservazione durante la fase di crociera.

Questi includono l'utilizzo della linea di base a lungo aperta tra Icarius e il Sistema Solare per estendere la distanza su scala trigonometrica degli oggetti extragalattici, le prove circa le teorie di gravità (incluso l'eventuale individuazione di onde gravitazionali) e forse la ricerca di evidenze di materia oscura tra le stelle.






Nonostante l'interesse scientifico di queste osservazioni, però, le indagini scientifiche condotte lungo il percorso sono una priorità relativamente bassa quando si tratta di scelta di destinazione. Questo non perché le indagini sono scientificamente poco importanti, ma perché possono essere in gran parte condotte indipendentemente dalla stella di destinazione.

E' vero che in alcune direzioni del mezzo interstellare locale sono di maggiore interesse rispetto ad altri, ma questo è improbabile che sia mezzo scientifico per un veicolo così complesso e costoso per una nave stellare come Icarus.

Gli studi astrofisici della stella bersaglio avranno una priorità più alta. Anche se tutti i potenziali obiettivi di Icarus saranno stelle vicine (probabilmente meno di 15 anni luce), essi fornirebbero molte informazioni astronomiche sul Sistema Solare e studi dettagliati circa il vento stellare e la fotosfera, le proprietà magnetiche e stellari, e ci sarebbero indubbi vantaggi dalle possibilità di osservazioni in situ.

Da questa prospettiva, una più elevata priorità potrebbe essere data a stelle rare o insolite. Esempi possono includere una stella di tipo I e/o una nana bianca, entrambi i quali potrebbero essere realizzati selezionando Sirio (8,6 anni luce di distanza) o Procione (11,4 anni luce di distanza) come bersagli, in quanto entrambi hanno una nana bianca come compagna.




Ci sarà anche un grande interesse astrofisico a rendere in primo piano le osservazioni delle nane brune (il più vicino noto dei quali sono nel sistema Epsilon Indi ad una distanza di 11,8 anni luce), o una nana rossa vicina (che, pur non essendo rare rappresentano la classe meno compresa della di sequenza principale di stelle a causa della loro intrinseca debolezza).

In ultimo, ma non meno importante, non dobbiamo sottovalutare l'importanza scientifica di fare osservazioni di un'altra stella della sequenza principale di tipo G, come Alpha Centauri A (4,4 anni luce di distanza) o Tau Ceti (11,9 anni luce di distanza) per consentire confronti diretti con il Sole.

Pertanto, dal punto di vista astrofisico, c'è sicuramente molta ricerca che potrebbe essere approfondita con la missione Icarus.

Tuttavia, interessanti e importanti considerazioni astrofisiche come queste è improbabile di per sé che possano essere i principali fattori scientifici per una missione nello spazio interstellare. In parte questo è dovuto ai prevedibili progressi nelle tecniche astronomiche che ci permetteranno di continuare ad affinare la nostra comprensione delle proprietà astrofisiche delle stelle vicine, senza dover lasciare fisicamente il Sistema Solare.
Non c'è dubbio che la presenza di un sistema planetario aumenterà notevolmente la priorità scientifica di una stella come potenziale bersaglio.

Questo perché ci sono molti aspetti della scienza planetaria, che potranno essere affrontati solo con l'esecuzione di misurazioni in prossimità, tra cui lo sbarco di strumenti scientifici sulle superfici planetarie. Possiamo essere sicuri di questo perché, in più di mezzo secolo, le osservazioni spaziali in situ hanno completamente rivoluzionato lo studio dei pianeti e delle lune del Sistema Solare, fornendo informazioni che non sarebbero state possibile ottenere telescopicamente dalla superficie della Terra o nelle sue immediate vicinanze.
Se questo è vero per i corpi celesti nel nostro Sistema Solare è ovvio che sarà vero anche altri sistemi planetari.




Prima che siamo pronti a costruire un tipo di astronave Icarus, le osservazioni astronomiche saranno in grado di stabilire una gerarchia di priorità tra uno qualsiasi pianeti che possono essere rilevati intorno alle stelle più vicine: (i) pianeti dove sono evidenziate tracce biologiche nell'atmosfera e (ii) i pianeti che appaiono abitabili (ad esempio sui quali dove vi è l'evidenza spettrale dell'acqua e dell'anidride carbonica), ma per i quali non vi è alcuna prova esplicita di vita, e per i (iii) i pianeti che appaiono avere superfici inabitabili (sia a causa della composizione atmosferica ritenuta non favorevole alla vita o perché non hanno un ambiente rilevabile), ma che potrebbero tuttavia sostenere una biosfera sotto la superficie.

Così, quando si pianificherà un viaggio interstellare per fini astrobiologici saranno chiare le priorità dei sistemi di destinazione con largo anticipo.

La più alta priorità di tutti sarebbe andare sui pianeti extrasolari per i quali viene rilevata la prova spettrale di una biosfera indigena da osservazioni astronomiche. In tal caso, la prova definitiva dell'esistenza di vita indigena e in seguito gli studi di biochimica di base, la struttura cellulare, diversità ecologica e la storia evolutiva, necessiteranno assolutamente di misure sul posto.

Ciò richiederà il trasporto di strumenti scientifici dedicati, attraverso lo spazio interstellare, e sarebbe la più forte possibile giustificazione scientifica per la costruzione di un Icarus in stile astronave, con una architettura che permetterà la decelerazione del veicolo sul sistema di destinazione.

Conclusione
Un veicolo spaziale interstellare, come Icarius produrrà notevoli benefici scientifici. Questi includono studi del mezzo interstellare condotto lungo il percorso, e le osservazioni astrofisiche della stella bersaglio (s).

Tuttavia, sembra chiaro che quando si tratta di scegliere una stella obiettivo finale la presenza di un sistema planetario, e soprattutto la presenza di pianeti abitabili o abitati, sarà vincente tutte le altre motivazioni scientifiche. Anche se, come descritto nel mio precedente articolo, la nostra conoscenza dei sistemi planetari, entro 15 anni luce del sole è ancora frammentaria, nel corso dei prossimi decenni i progressi nelle tecniche astronomiche possono darci un inventario molto più completo di pianeti vicini.

Adattamento e traduzione a cura di Arthur McPaul

Fonte:
http://news.discovery.com/space/project-icarus-science-objectives-biosignatures-111024.html

Pubblicato da arthurmcpaul alle 10:54 Nessun commento:
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venerdì 28 ottobre 2011

Lutetia Uno Dei Corpi Piu Antichi Del Sistema Solare




La sonda dell’ESA Rosetta, in viaggio verso il suo obiettivo scientifico principale, la cometa Churyumov-Gerasimenko che incontrerà nel 2014, ha osservato con i suoi strumenti di bordo, l’asteroide Lutetia, uno degli oggetti celesti più antichi del Sistema Solare. I risultati di queste analisi sono stati pubblicati in tre articoli sulla rivista Science.

Uno in particolare, che vede come primi firmatari i pricercatori INAF, è basato sulle osservazioni dello strumento VIRTIS, ideato all’INAF e realizzato con un finanziamento dell’ASI. Grazie ad esse è stata ottenuta la mappatura della temperatura superficiale dell’asteroide, che oscilla tra i -210 e i -28 gradi centigradi, ed è stata analizzata la composizione della sua superficie, che risulta essere molto simile a quella delle meteoriti primitive.

Il 10 luglio del 2010 la sonda dell’Agenzia Spaziale Europea Rosetta, dedicata allo studio della cometa Churyumov-Gerasimenko, che raggiungerà nel 2014, ha attivato i suoi strumenti durante il suo passaggio ravvicinato (solo 3170 km) con l’asteroide denominato "21 Lutetia", per analizzare le sue caratteristiche fisiche e la sua composizione chimica. I numerosi risultati scientifici ottenuti, presentati in tre articoli pubblicati oggi sulla rivista Science, indicano che Lutetia è un corpo celeste complesso dal punto di vista geologico ed estremamente antico. L’analisi delle misure raccolte dalla camera Osiris, il cui co-Principal Investigator è Cesare Barbieri, dell’Università di Padova e associato INAF, indicherebbe infatti che alcune regioni della sua superficie sarebbero databili a circa 3,6 miliardi di anni, un’età che lo portebbe tra i primi corpi che hanno popolato il nostro Sistema Solare. Per altre zone invece sino state stimate delle età di ‘solo’ 50-80 milioni di anni.

Un’altra caratteristica saliente di Lutetia è la sua elevata densità, pari a 3,4 grammi per centimetro cubo. Il dato è stato ottenuto combinando le misure di massa ottenute dall’esperimento di Radio Scienza e di volume, determinato grazie alle osservazioni della camera Osiris. Per paragone, la densità media della Terra è di 5,5 grammi per centimetro cubo. Questo valore così elevato potrebbe far supporre che Lutetia nel corso della sua evoluzione abbia subìto un processo di fusione interna, dovuta al riscaldamento generato dal decadimento di materiali radioattivi presenti nella sua struttura. Questo fenomeno avrebbe prodotto la separazione di un nucleo ferroso, un mantello ed una crosta formata da silicati leggeri.

Uno scenario che però è stato messo in discussione dalle misure effettuate da un altro strumento a bordo di Rosetta, lo spettrometro VIRTIS (Visible and Infrared Thermal Imaging Spectrometer) ideato dall’INAF e realizzato dalla Galileo Avionica grazie a un finanziamento dell’Agenzia Spaziale Italiana. I risultati di queste osservazioni sono stati pubblicati in uno dei tre articoli su Science di cui primo autore è Angioletta Coradini, ricercatrice INAF e planetologa di fama internazionale recentemente scomparsa. “I dati provenienti da VIRTIS dimostrano che la superficie di Lutetia è estremamente uniforme dal punto di vista della sua composizione e che ha mantenuto le caratteristiche di una crosta primordiale, cioè formata da materiali assimilabili a meteoriti primitive, come condriti carbonacee ed enstatitiche” dice Fabrizio Capaccioni, dell’INAF-IFSI di Roma, co-autore dell’articolo e Principal Investigator di VIRTIS. Questa osservazione combinata con le informazioni sull’età permette di ipotizzare che Lutetia sia un planetesimo (cioé uno dei corpi che formarono nel Sistema Solare primordiale e da cui i pianeti hanno avuto origine), fossile che ha attraversato indenne la storia del Sistema Solare. Inoltre, i risultati di VIRTIS smentiscono precedenti osservazioni che indicavano sulla superficie di Lutetia la presenza di minerali idrati, prodotti da alterazioni di rocce basaltiche dovute ad interazioni con l’acqua.

VIRTIS ha anche permesso di determinare la sua temperatura superficiale, che oscilla tra i -210 e i -28 gradi centigradi. Ma non solo: l’analisi dei dati raccolti dallo strumento, ha rivelato che l’asteroide possiede una superficie ricoperta da uno strato di polvere molto fine ed omogeneo, con particelle delle dimensioni comprese tra 50 e 100 micron (milionesimi di metro), molto simile per struttura a quella che ricopre la Luna, la cosiddetta regolite. “È molto strano che un corpo celeste delle dimensioni di Lutetia possa avere una superficie così omogenea come quella mostrata dalle osservazioni di Rosetta”, sottolinea Capaccioni. “Ciò, assieme alla sua elevata densità, farebbe supporre che se nel passato fossero effettivamente avvenuti processi di stratificazione nella struttura dell’asteroide, essi avrebbero avuto luogo solo al suo interno, senza influenzare i materiali superficiali che avrebbero invece mantenuto proprietà tipiche di una crosta primordiale di tipo condritico”.

Foto di Apertura:
Nel doppio pannello è mostrata l’immagine dell’asteroide Lutetia osservato dallo strumento VIRTIS, lo spettrometro ad immagine della sonda Rosetta. Nel pannello di sinistra è mostrata la superficie di Lutetia al massimo avvicinamento come la vedremmo se i nostri occhi fossero sensibili alla radiazione infrarossa. La croce rossa rappresenta la posizione del polo nord. Nel pannello di destra, dalla misura della radiazione emessa dall’asteroide è stata ricavata la mappa di temperatura sulla superficie dell'asteroide, che raggiunge un massimo di circa 245 gradi Kelvin, ovvero -28 gradi centigradi (Crediti: ESA/VIRTIS/INAF)

A cura di Marco Galliani.

Revisione del testo a cura Arthur McPaul :( !!!


Fonte:
http://www.media.inaf.it/wp-content/uploads/2011/10/Lutetia-fossile-del-sistema-solare.doc

Pubblicato da arthurmcpaul alle 01:29 Nessun commento:
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Ai Confini Del Sistema Solare: Eris Gemello di Plutone




Gli astronomi hanno accuratamente misurato il diametro del pianeta nano Eris durante il passaggio su una stella debole. Questo evento è avvenuto alla fine del 2010 dai telescopi in Cile, ripreso dal telescopio belga dell'ESO di La Silla. Le osservazioni hanno mostrato che Eris è un gemello quasi perfetto di Plutone e sembra avere una superficie molto riflettente, suggerendo che è uniformemente coperto da un sottile strato di ghiaccio, probabilmente un'atmosfera congelata. I risultati sono stati pubblicati nel numero del 27 di Nature.

Nel novembre del 2010, il distante pianeta nano Eris passó davanti ad una debole stella di fondo, un evento chiamato occultazione. Questi eventi sono molto rari e difficili da osservare soprattutto nel caso di un pianeta nano distante e molto piccolo. Un evento simile che interesserà Eris non si ripeterà fino al 2013.

Le occultazioni forniscono il modo più accurato e spesso l'unica possibilità, per misurare la forma e le dimensioni di un corpo posto nelle zone più remote del Sistema Solare.

La stella candidata all'occultazione è stata identificata studiando le immagini dal telescopio MPG / ESO di 2.2 metri di La Silla. Le osservazioni sono state accuratamente pianificate ed eseguite da un team di astronomi provenienti da una serie di università (principalmente francesi, belgi, spagnoli e brasiliani) con il telescopio TRAPPIST [1] anch'esso a La Silla.

"Osservare le occultazioni degli organismi minuscoli oltre Nettuno richiede grande precisione e una pianificazione molto accurata. Questo è il modo migliore per misurare la dimensione di Eris, a meno di andarci in realtà", spiega Bruno Sicardy, l'autore principale.
Le osservazioni dell'occultazione sono state tentate da 26 sedi in tutto il mondo sul sentiero d'ombra previsto del pianeta nano (tra cui diversi telescopi e osservatori amatoriali, ma solo due siti sono stati in grado di osservare l'evento direttamente) entrambi situati in Cile. Uno era quello dell'ESO di La Silla utilizzando il telescopio TRAPPIST, e l'altro si trovava a San Pedro de Atacama e ha usato due telescopi [2]. Tutti e tre i telescopi hanno registrato un improvviso calo di luminosità, mentre Eris bloccava la luce della stella lontana.

Le osservazioni combinate dei due siti cileni hanno indicato che Eris è di forma sferica. Queste misure dovrebbero indicare con precisione la sua forma e dimensione, purché non vengano alterate dalla presenza di grandi montagne. Tali caratteristiche sono, comunque, improbabili in un grande corpo ghiacciato.
Eris è stato identificato come un grande oggetto del Sistema Solare esterno nel 2005. La sua scoperta è stata uno dei fattori che hanno portato alla creazione di una nuova classe di oggetti chiamati pianeti nani e la riclassificazione di Plutone da pianeta a pianeta nano nel 2006. Eris è attualmente tre volte più lontano dal Sole di Plutone.

Mentre le prime osservazioni utilizzando altri metodi suggerivano che Eris era probabilmente circa il 25% più grande di Plutone con un diametro stimato di 3000 chilometri, il nuovo studio dimostra che i due oggetti sono essenzialmente delle stesse dimensioni. Il nuovo diametro determinato di Eris lo porta a 2326 km, con una precisione fino a 12 chilometri. Questo rende la sua dimensione nota più precisa di quella della sua controparte Plutone, che ha un diametro stimato tra i 2300 e i 2400 chilometri.

Il diametro di Plutone è più difficile da misurare perché la presenza di un'atmosfera rende il suo margine impossibile da rilevare direttamente con le occultazioni. Il moto del satellite Dysnomia di Eris [3] è stato invece utilizzato per stimare la massa di Eris, che è il 27% più pesante di Plutone [4].
In combinazione con il suo diametro, questo ha fornito la densità di Eris, stimata in 2,52 grammi per cm3 [5].

"Questa densità significa che Eris è probabilmente un grande corpo roccioso ricoperto di un manto relativamente sottile di ghiaccio", commenta Emmanuel Jehin, che ha contribuito allo studio [6].
La superficie di Eris è risultata essere estremamente riflessiva, riflettendo il 96% della luce che cade su di esso (visibile un albedo di 0.96 [7]). Questa è ancora più luminosa della neve fresca sulla Terra, facendo di Eris uno degli oggetti più riflettenti del Sistema Solare, insieme ad Encelado, la luna ghiacciata di Saturno.
La superficie luminosa di Eris è più probabilmente composta da ghiaccio di azoto mescolato con metano congelato (come indicato dallo spettro di un oggetto), che rivestono la sua superficie in uno strato sottile e molto riflettente ghiacciato dallo spessore di meno di un millimetro.

"Questo strato di ghiaccio potrebbe derivare da azoto o metano nell'atmosfera che si sono condensati come brina sulla sua superficie, a causa dell'allontanamento dal Sole nella sua orbita allungata man mano sempre più fredda", aggiunge Jehin. Il ghiaccio potrebbe poi tornare gassoso quando Eris si avvicinerá al punto più vicino al Sole, ad una distanza di circa 5,7 miliardi di chilometri.

I nuovi risultati consentiranno al team di fare una nuova misurazione della temperatura della superficie del pianeta nano. Le stime indicano una temperatura di superficie di fronte al Sole di -238 gradi Celsius e un valore ancora più basso per il lato oscuro
"E' straordinario quanti dati possiamo raccogliere su di un piccolo oggetto distante, come Eris, guardandolo passare davanti ad una stella debole, usando telescopi relativamente piccoli. Cinque anni dopo la creazione della nuova classe di pianeti nani, siamo finalmente davvero vicini a conoscere uno dei suoi soci fondatori ", conclude Bruno Sicardy.

Note:

[1] TRAPPIST è uno degli ultimi telescopi robotici installati presso La Silla. Con uno specchio principale di soli 0,6 metri, è stato inaugurato nel giugno 2010 ed è principalmente dedicato allo studio di pianeti extrasolari e comete. Il telescopio è un progetto finanziato dal Fondo belga per la Ricerca Scientifica (FRS-FNRS), con la partecipazione del Fondo nazionale svizzero, ed è controllato da Liegi.

[2]I telescopi Caisey Harlingten e ASH2.

[3] Eris è la dea greca del caos e della discordia. Dysnomia è la figlia di Eris e la dea dell'illegalità.

[4] La massa di Eris è 1,66 x 1022 kg, corrispondente al 22% della massa della Luna.

[5] Per confronto, la densità della Luna è di 3,3 grammi per cm3, e l'acqua è 1,00 grammi per cm3.

[6] Il valore della densità suggerisce che Eris è principalmente composto da roccia (85%), con un piccolo contenuto di ghiaccio (15%). Quest'ultimo è probabile che sia un livello di circa 100 km di spessore e circonda il nucleo roccioso. Questo strato molto spesso di ghiaccio d'acqua per lo più non deve essere confuso con lo strato molto sottile di atmosfera ghiacciata sulla superficie Eris che lo rende così riflessivo.

[7] L'albedo di un oggetto rappresenta la frazione della luce che cade su di esso che è viene dispersa nello spazio, piuttosto che assorbita. Un albedo di 1 corrisponde ad una superficie perfettamente riflettente bianca, mentre 0 è totalmente assorbente e nera. Per confronto, l'albedo della Luna è solo 0,136, simile a quella del carbone.

Traduzione a cura di Arthur McPaul

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2011/10/111026143805.htm

Pubblicato da arthurmcpaul alle 00:55 Nessun commento:
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mercoledì 26 ottobre 2011

Comete Bombardano Sistema Solare Alieno




Il NASA Spitzer Space Telescope ha rilevato segni di corpi ghiacciati che piovono in un sistema solare alieno. La pioggia assomiglia al nostro sistema solare com'era diversi miliardi di anni fa durante un periodo noto come "tardo bombardamento pesante", che avrebbe portato acqua e altri ingredienti che formano la vita sulla Terra.

Durante questa epoca, comete e altri oggetti gelidi espulsi dal sistema solare esterno, colpirono i pianeti interni.
Ora Spitzer ha individuato una banda di polveri intorno a una luminosa stella vicina presente nel cielo del nord, chiamata Eta Corvi, che corrisponde fortemente al contenuto di una cometa gigante. Questa polvere si trova abbastanza vicino ad Eta Corvi in cui potrebbero esistere mondi come la Terra, il che suggerisce una collisione avvenuta tra un pianeta e una o più comete. Il sistema di Eta Corvi è di circa un miliardo di anni, e i ricercatori ritengono che abbia l'età giusta per una tale grandinata.

"Crediamo di avere una prova diretta di un continuo bombardamento cometario nel vicino sistema stellare di Eta Corvi, che si sta verificando nello stesso periodo che avvenne nel nostro Sistema Solare", ha dichiarato Carey Lisse, ricercatore senior presso la Johns Hopkins University Applied Physics Laboratory a Laurel , Maryland, e autore di un articolo contenente i risultati.
I risultati saranno pubblicati sulla rivista Astrophysical Journal. Lisse ha presentato i risultati alla riunione Segnaletica dei Pianeti al NASA Goddard Space Flight Center di Greenbelt, nel Maryland, il 19 ottobre.

Gli astronomi hanno usato il rilevatore ad infrarossi montato sullo Spitzer Space Telescope per analizzare la luce proveniente dalla polvere intorno ad Eta Corvi. Le impronte chimiche osservati, vanno dal ghiaccio d'acqua, a sostanze organiche e roccia, che indicherebbero una fonte gigantesca cometaria.

Le tracce impresse nella luce dalla polvere intorno ad Eta Corvi assomiglia anche a quella del meteorite Almahata Sitta che cadde sulla Terra in frammenti su tutto il Sudan nel 2008. Le somiglianze tra il meteorite e l'oggetto cancellato in Eta Corvi implica un'origine comune nei loro rispettivi sistemi solari.

Un secondo anello più massiccio di polveri fredde situato al limite estremo del sistema di Eta Corvi mostra la presenza di un ambiente adeguato per un serbatoio di corpi cometari. Questo anello luminoso, scoperto nel 2005, è posto per paragone a circa 150 volte la distanza dalla Terra al Sole. Il nostro sistema solare ha una regione simile, conosciuta come fascia di Kuiper, dove sono presenti resti di ghiaccio dalla formazione dei pianeti rocciosi. I nuovi dati suggeriscono che il meteorite Almahata Sitta potrebbe aver avuto origine nella nostra fascia di Kuiper.

La Fascia di Kuiper è stata sede di un numero enormemente maggiore di questi corpi congelati, collettivamente soprannominati oggetti della Cintura di Kuiper. Circa 4 miliardi di anni fa, 600 milioni di anni dopo che il nostro sistema solare si era formato, la fascia di Kuiper fu disturbato dalla migrazione dei pianeti giganti gassosi Giove e Saturno. Questo cambiamento nell'equilibrio gravitazionale del sistema solare disperse i corpi ghiacciati nella Fascia di Kuiper, lanciandoli nello spazio interstellare e producendo la polvere fredda ora presente nella cintura. Alcuni oggetti della Cintura di Kuiper, tuttavia, furono deviati su percorsi che attraversavano le orbite dei pianeti interni.

Il bombardamento di comete risultante durò fino a 3.8 miliardi di anni. Dopo gli impatti sul lato della luna che si affaccia su Terra, il magma filtró fuori della crosta lunare, formando le aree scure dette "mari" o Maria. Interpretato alla luce le aree più chiare circostanti della superficie lunare, i mari formano il caratteristico "Man in the Moon" viso. Le comete che colpirono anche la Terra si pensa che abbiano contribuito a depositare acqua e carbonio sul nostro pianeta. Questo periodo di impatti potrebbe avere contribuito a formare la vita, offrendo i suoi ingredienti fondamentali.

"Pensiamo che il sistema di Eta Corvi dovrebbe essere studiato nel dettaglio per conoscere meglio i dettagli di questa pioggia di comete e altri oggetti che stanno impattando al fine di ottenere indizi su quello che è accaduto e ha portato la vita sul nostro pianeta", ha detto Lisse.


Traduzione a cura di Arthur McPaul

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2011/10/111019161940.htm

Pubblicato da arthurmcpaul alle 15:27 Nessun commento:
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Scoperta Acqua In Un Disco Di Formazione Planetaria




Per la prima volta, gli astronomi hanno individuato attorno a un sistema solare nascente una nuvola di vapore acqueo abbastanza fredda da formare le comete, che potrebbero eventualmente fornire di oceani i pianeti secchi.

L'acqua è un ingrediente essenziale per la vita. Gli scienziati hanno trovato l'acqua all'interno di un disco di formazione planetario attirno alla stella TW Hydrae, posta a 176 anni luce di distanza dalla Terra, nella costellazione dell'Idra. Esso è anche il più vicino sistema solare noto.

Il professore di astronomia Ted Bergin della University of Michigan è co-autore di un documento sui risultati pubblicati nell'edizione del 21 ottobre di Science.

I ricercatori hanno utilizzato lo strumento Far-Infrared (HIFI) posto sull'Herschel Space Observatory per rilevare le tracce chimiche dell'acqua.
"Questo ci dice che i materiali chiave di cui ha bisogno la vita sono presenti in un sistema prima che i pianeti si siano formati", ha detto Bergin, un co-ricercatore di HIFI. "Ci aspettavamo in teoria che questa ipotesi fosse vera ma fino ad ora non avevamo mai avuto direttamente la conferma".

Gli scienziati avevano precedentemente trovato vapore d'acqua calda in dischi vicini alla stella centrale di formazione planetaria. Ma fino ad ora, le prove di grandi quantità di acqua fresca che si estendono nelle zone di formazione planetaria e cometaria nei dischi protoplanetari, non erano mai state rilevate.
Più acqua è disponibile nei dischi per la formazione di comete ghiacciate, maggiore è la probabilità che una grande quantità di acqua alla fine possa raggiungere nuovi pianeti attraverso l'impatto.

"La scoperta dell'acqua nel disco di formazione sarebbe simile agli eventi in evoluzione del nostro Sistema Solare, dove nel corso di milioni di anni, questi grani di polvere si fondono fino a formare le comete. Questo meccanismo sarebbe il primo rifornimento di acqua per i corpi planetari", ha detto il Principal Investigator Michiel Hogerheijde della Leiden University in Olanda.

Altre recenti scoperte fatte da HIFI sostengono la teoria che le comete avrebbero fornito una parte significativa degli oceani alla Terra. I ricercatori hanno scoperto che il ghiaccio presente sulla cometa Hartley 2 ha la stessa composizione chimica dei nostri oceani.
HIFI sta aiutando gli astronomi ad ottenere una migliore comprensione di come l'acqua sia arriva sui pianeti terrestri. Se TW Hydrae e il suo disco di ghiaccio sono rappresentativi di molti altri sistemi stellari giovani, allora il processo di creazione di pianeti intorno a numerose stelle con abbondante acqua sarebbe un fenomeno comune in tutto l'Universo, secondo gli scienziati della NASA, pertanto la vita potrebbe davvero essere altrettanto comune.

Traduzione a cura di Arthur McPaul

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2011/10/111020171448.htm

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martedì 25 ottobre 2011

Scoperta Nana Bruna Più Fredda In Assoluto


Il professor Penn State e il collega Kevin Luhman hanno presentato (durante la Conferenza sui Pianeti della NASA al Goddard Space Flight Center del 20 Ottobre 2011), l'oggetto più freddo mai direttamente fotografato al di fuori del Sistema Solare.

"Questo pianeta", ha detto Luhman, che ha guidato il team, "ha una massa come molti pianeti extra-solari noti, cioè di circa 6-9 volte quella di Giove, ma con una temperatura atmosferica fresca come quella della Terra".
Luhman classifica questo oggetto come una "nana bruna", con una temperatura superficiale compresa tra gli 80 e 160 gradi Fahrenheit, in media di circa 37 C.

Fin dalle prime nane brune scoperte a partire dal 1995, gli astronomi hanno cercato di scoprirne di molto fredde poiché questi oggetti sono preziosi laboratori per lo studio delle atmosfere dei pianeti come le terre extrasolari.

Gli astronomi hanno chiamato la nana bruna "WD 0806-661 B" perché è la compagna di un oggetto denominato "WD 0806-661", una "nana bianca" residuo di una stella come il Sole.

"La distanza di questa nana bianca dal Sole è di 63 anni luce, che la rende molto vicina al nostro Sistema Solare rispetto alla maggior parte delle stelle della nostra galassia", ha detto Luhman.
"La distanza di questa nana bianca dalla sua compagna nana bruna è di 2500 unità astronomiche (UA) (circa 2500 volte la distanza tra la Terra e il Sole, quindi la sua orbita è molto grande rispetto alle orbite dei pianeti, che formano all'interno di un disco di polvere che turbinano strette attorno a una stella appena nata" ha detto Adam Burgasser presso la University of California, San Diego, un membro del team.

Poiché ha una grande orbita, gli astronomi ritengono che molto probabilmente sia nata nello stesso modo come molte altre compagne di stelle binarie, in genere separate da grande distanza, pur rimanendo legate gravitazionalmente tra di esse.

Luhman e i suoi colleghi avevano presentato questo nuovo candidato per la nana bruna più fredda conosciuta, in un articolo pubblicato nella primavera del 2011, ma hanno confermato il record di temperatura in un nuovo documento che sarà pubblicato sulla rivista Astrophysical Journal.

Per confermare la loro scoperta, Luhman e suoi colleghi hanno cercato tra le immagini a infrarossi di oltre 600 stelle vicine al nostro Sistema Solare. Hanno confrontato quelle delle stelle vicine riprese a pochi anni distanza, con eventuali punti deboli di luce che mostrassero lo stesso movimento attraverso il cielo. "Gli oggetti con temperature fresche come la Terra sono più luminose a lunghezze d'onda infrarosse," ha detto Luhman. "Abbiamo usato il NASA Spitzer Space Telescope perché è il più sensibile telescopio ad infrarossi a disposizione".

Luhman e il suo team hanno scoperto la nana bruna WD 0806-661 B muoversi in tandem con la nana bianca WD 0806-661 in due immagini dello Spitzer riprese nel 2004 e nel 2009. (foto in basso)



"Questa animazione è una divertente illustrazione della nostra tecnica, che ricorda il metodo usato per la scoperta di Plutone nel nostro Sistema Solare", ha detto Luhman.

Bochanski John e colleghi hanno fatto inoltre una misurazione ancora più dettagliata dell'ammoniaca presente nell'atmosfera dell'oggetto fuori del nostro Sistema Solare. "Questi nuovi dati sono di qualità molto più alta che in precedenza, rendendo possibile lo studio, in modo molto più dettagliato rispetto al passato. Le atmosfere delle nane brune più fredde, che assomigliano molto alle atmosfere possibili attorno ai pianeti", ha detto Bochanski.

"Le nane brune che orbitano lontane dal loro compagno stellare sono molto più facili da studiare rispetto a quelle che in genere si perdono nel bagliore delle stelle in cui orbitano", ha detto Burgasser.
"Le nane brune con temperature terrestri ci permettono di affinare le teorie circa le atmosfere di oggetti fuori del nostro Sistema Solare che hanno atmosfere relativamente fresche come quelle del nostro pianeta".

Traduzione a cura di Arthur McPaul

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2011/10/111019165226.htm

Pubblicato da arthurmcpaul alle 11:18 Nessun commento:
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giovedì 20 ottobre 2011

Marte: da riscrivere il suo passato geologico?




In uno dei paesaggi apparentemente meglio noti e meno interessanti di Marte si nasconde qualcosa che potrebbe riscrivere la storia del pianeta. Infatti, ciò che è certo è che le ipotesi che per decenni hanno spiegato la storia della piatta Hesperia Planum non reggono molto bene sotto un nuovo riesame con una maggiore risoluzione, grazie ai dati spaziali più recenti.

"La maggior parte degli scienziati non vogliono lavorare sulle cose piatte" ha osservato il geologo Gregg Tracy dell'Università di Buffalo di New York.
Ai primi scienziati che avevano esaminato Hesperia Planum era sembrata una pianura piena di lava, ma nessuno aveva veramente esaminato la questione e il luogo era stato utilizzato per esemplificare una cosa piuttosto importante: segnare la base di un periodo di transizione importante nella scala dei tempi geologici di Marte.

Il periodo era stato giustamente chiamato Hesperiano e risale a circa 3,7-3,1 miliardi di anni fa.

Ma quando Gregg e il suo allievo Carolyn Roberts hanno iniziato a guardare questa pianura lavica con i moderni dati, hanno notato che vi erano delle anomalie: "Hesperia Planum è un vulcano molto piccolo e poco evidente"; ha detto Gregg. "Quando ho iniziato a guardare più da vicino la regione non riuscivo a trovare le feritoie vulcaniche, o eventuali flussi e ho continuato a cercare le prove di colate laviche, ma non vi era niente di simile".

Una probabile causa di questo problema potrebbe essere la spessa polvere che copre Hesperia Planum" ha detto. "Si estende su tutto il pianeta molto facilmente come un manto nevoso"; Così rivolse la sua attenzione a quella che potrebbe essere individuata su Hesperia Planum: circa una dozzina di stretti e sinuosi canali, chiamati solchi, da poche centinaia di metri di larghezza fino a centinaia di chilometri. Questi solchi non hanno fonti o destinazioni e non è affatto chiaro se siano di origine vulcaniche. "La domanda che mi sono posto era capire cosa potesse aver formato i canali", ha detto Gregg.

Era l'acqua, la lava, o qualcos'altro? "Ci sono alcune lave che possono essere molto molto liquide. Ed entrambi sono liquidi che corrono in discesa"; Per cominciare a risolvere la questione, Gregg Roberts e colleghi hanno cercato indizi sulla Luna. I loro risultati preliminari sono stati presentati al Meeting annuale della Geological Society of America a Minneapolis.

"Sulla Luna vediamo questi stessi tipi di caratteristiche e sappiamo che l'acqua non avrebbe potuto formarsi", ha detto Gregg. Così abbiamo messo a confronto i canali sulla Luna e su Marte, con l'insieme di dati recenti dai veicoli spaziali, per gettare luce sulla questione. Tutti questi dati hanno evidenziato la presenza di enormi colate di lava", ha detto Gregg.

"Ma se fosse un lago, emergerebbe un quadro molto diverso di quello che stava accadendo su Marte in quel momento e Hesperia Planum diverrebbe un buon posto per cercare la vita, perché l'acqua più il calore vulcanico e i minerali, sono ampiamente creduti come ingredienti per una combinazione vincente sl fine di ottenere la vita". "L'ipotesi che sia di origine vulcanica è un'interpretazione che sta cominciando a crollare", ha detto Gregg. "Quello che resiste è che l'Hesperian segna un passaggio tra il Noachiano (un tempo di acqua allo stato liquido sulla superficie e la formazione di lotti di crateri da impatto) e quello amazzonico (un periodo più freddo e secco)".

Altri scienziati sono interessati al suo lavoro a causa della sue possibili implicazioni sulla scala temporale geologica di Marte. Gregg non è preoccupato che la storia di Marte potrebbe essere riscritta, ma sospetta che Hesperia Planum possa essere un sito molto più complicato di quanto si è da tempo ritenuto.

Adattamento a cura di Arthur McPaul

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2011/10/111012083440.htm

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venerdì 14 ottobre 2011

Abbondanza Di Titanio Sulla Luna




Una nuova mappa della Luna che combina le osservazioni nelle lunghezze d'onda del visibile e dell'ultravioletto mostra zone ricche di minerali di titanio. Non solo è un elemento prezioso ma anche la chiave per aiutare gli scienziati a svelare i misteri degli interni della Luna.

Mark Robinson e Brett Denevi hanno presentato i risultati della missione Lunar Reconnaissance Orbiter nel corso della riunione congiunta del Congresso Europeo di Scienza Planetaria e della divisione della American Astronomical Society per le Scienze Planetarie.

"Osservando la Luna, la sua superficie appare dipinta con sfumature di grigio, ma con gli strumenti giusti, può apparire colorata", ha detto Robinson, della Arizona State University. "La tonalità rossastra appare in alcuni luoghi e blu in altri. Anche se sottile, queste variazioni di colore ci dicono cose importanti sulla chimica e sull'evoluzione della superficie lunare. Esse indicano il titanio e l'abbondanza di ferro, così come la maturità di un suolo lunare".

La Lunar Reconnaissance Orbiter Camera (LROC) e la Wide Angle Camera (WAC) operano in sette differenti lunghezze d'onda con una risoluzione compresa tra i 100 e i 400 metri per pixel. I minerali riflettono o assorbono le parti dello spettro elettromagnetico, per cui le lunghezze d'onda rilevate da LROC e WAC aiutano gli scienziati a capire meglio la composizione chimica della superficie.

Robinson e il suo team avevano precedentemente sviluppato una tecnica che utilizzava le immagini dell'Hubble Space Telescope per mappare le abbondanze di titanio intorno ad una piccola area al centro del sito di atterraggio dell'Apollo 17. I campioni di tutto il sito erano attraversati da una vasta gamma di livelli di titanio. Confrontando i dati dell'Apollo con le immagini di Hubble, il team ha scoperto che i livelli di titanio corrispondevano al rapporto tra la luce ultravioletta e la luce visibile riflessa dal suolo lunare.

"La nostra sfida era quella di scoprire se la tecnica poteva funzionare su grandi aree, o se c'era qualcosa di speciale sulla zona dell'atterraggio dell'Apollo 17", ha detto Robinson.
La squadra di Robinson ha costruito un mosaico di circa 4000 immagini riprese da LROC e WAC in oltre un mese. Con la tecnica che avevano sviluppato con le immagini dell'Hubble hanno usato il rapporto di WAC della luminosità dall'ultravioletto alla luce visibile per dedurre l'abbondanza di titanio, sostenuta dai campioni di superficie raccolti da missioni Apollo.

Le abbondanze più alte di titanio nei tipi di rocce simili sulla Terra sono circa l'uno per cento o meno. La nuova mappa mostra che nei "mari", le abbondanze di titanio vanno da circa l'uno per cento a poco più del dieci per cento. Negli altopiani, ovunque il titanio è meno dell'uno per cento. I valori corrispondono a quelli del titanio misurati nei campioni di terreno a circa l'uno per cento.
"Ancora non capisco perché troviamo abbondanze molto più elevate di titanio sulla Luna rispetto a tipi simili di rocce sulla Terra. Tale ricchezza ci fornisco indicazioni circa le condizioni all'interno della Luna poco dopo la sua formazione. La consapevolezza è che il valore geochimico puó farci comprendere l'evoluzione della Luna", ha detto Robinson.

Il titanio lunare si trova soprattutto nel minerale ilmenite, un composto contenente ferro, titanio e ossigeno. I minatori del futuro che vivranno e lavoreranno sulla Luna potrebbero cercare la ilmenite per ottenere questi elementi. Inoltre, I dati dell'Apollo ci mostrano che i minerali ricchi di titanio sono più efficienti a trattenere le particelle del vento solare, come l'elio e idrogeno. Questi gas offrirebbero anche una risorsa vitale per i futuri abitanti umani delle colonie lunari.
"La nuova mappa è uno strumento prezioso per la pianificazione delle esplorazione lunari dei futuri astronauti che vorranno visitare i luoghi sia con alto valore scientifico sia un alto potenziale di risorse che potrebbero essere utilizzate per supportare le attività di esplorazione e estrazione del titanio. Un percorso per comprendere l'interno della Luna e le potenziali risorse minerarie", ha detto Robinson.

Le nuove mappe hanno anche messo in luce come il tempo cambia la superficie lunare. Nel corso del tempo, i materiali superficiali lunare vengono alterati dall'impatto delle particelle cariche dal vento solare e all'alta velocità di impatto con i micrometeoriti. Insieme, questi processi polverizzano la roccia in una polvere fine e alterano la composizione chimica della superficie e quindi il suo colore. Le rocce recentemente esposte, come i raggi che vengono gettati intorno ai crateri da impatto, appaiono più blu e hanno una maggiore riflessione d terreno maturo. Nel corso del tempo questa parti 'giovane' si scuriscono e si arrossano scomparendo in secondo piano dopo circa 500 milioni di anni.

"Una delle scoperte entusiasmanti che abbiamo fatto è che gli effetti degli agenti atmosferici appaiono molto più rapidamente nei raggi ultravioletti rispetto alle lunghezze d'onda visibili o infrarosse. Nel mosaico ultravioletto del LROC, anche i crateri che avevamo ritenuto che fossero molto giovani sembrano relativamente maturi. Soltanto i piccoli crateri di recente formazione appaiono come la regolite fresca esposta sulla superficie", ha detto Denevi, della Johns Hopkins University Applied Physics Laboratory.
I mosaici hanno dato anche importanti indizi sul motivo per cui i vortici lunari (quelle caratteristiche sinuose associate ai campi magnetici sulla crosta lunare) sono altamente riflettenti. I nuovi dati suggeriscono che quando un campo magnetico è presente, devia il vento solare carico rallentando il processo di maturazione e la conseguente turbolenza luminosa. Il resto della superficie lunare, che non beneficia dello scudo protettivo di un campo magnetico, è più rapidamente eroso dal vento solare. Questo risultato potrebbe suggerire che il bombardamento di particelle cariche può essere più importante dei micrometeoriti come agenti atmosferici per la superficie lunare.

Foto:
Immagine lunare ripresa dalla WAC in tre colori composito (566 nm immagine filtro in rosso, 360 nm in verde, e 321 nm in blu) che evidenzia la regione dei mari con composizioni diverse ed enigmatiche piccole strutture vulcanicche note come "cupole". (Credit: NASA / GSFC / Arizona State University)

Traduzione a cura di Arthur McPaul

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2011/10/111007102109.htm

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martedì 11 ottobre 2011

Urano: Risolto Il Mistero Del Suo Asse Di Rotazione Anomalo?




L'asse di rotazione di Urano lo rende assai singolare nel nostro Sistema Solare. Si ritiene che sia stato inclinato su un fianco da un unico grande impatto, ma la nuova ricerca presentata alla riunione congiunta EPSC-DPS a Nantes riscrive le nostre teorie in merito. Utilizzando delle simulazioni sulla formazione dei pianeti e delle collisioni, agli albori della sua vita, Urano avrebbe sperimentato una serie di piccole collisioni piuttosto che un singolo grande evento. Questa ricerca ha importanti implicazioni per le teorie sulla formazione dei pianeti giganti.

Urano è assai particolare in quanto il suo asse di rotazione è inclinato di 98 gradi rispetto al suo piano orbitale intorno al Sole. Questo è molto più pronunciato di altri pianeti, come Giove (3 gradi), la Terra (23 gradi), o Saturno e Nettuno (29 gradi). Urano in effetti ruota sul suo lato.

La teoria generalmente accettata è che in passato un corpo un paio di volte più massiccio della Terra si scontró con esso. Vi è, tuttavia, un difetto significativo in questa nozione: le lune di Urano avrebbero dovuto essere lasciate in orbita nelle loro angolazioni originali, ma anche loro sono quasi esattamente di 98 gradi.
Questo mistero è stato risolto da un team internazionale di scienziati guidato da Alessandro Morbidelli (Observatoire de la Cote d'Azur a Nizza, Francia), che sta presentando i risultati del suo gruppo di ricerca alla riunionr congiunta EPSC-DPS congiunta a Nantes, Francia.

Morbidelli e il suo team hanno utilizzato delle simulazioni per riprodurre vari scenari di impatto al fine di accertare la causa più probabile di tale inclinazione. Hanno scoperto che se fosse stato colpito quando era ancora circondato da un disco protoplanetario (il materiale da cui si sarebbero poi formate la lune) allora il disco avrebbe riformato una forma di ciambella altamente inclinata al piano equatoriale. Le collisioni all'interno del disco avrebbero poi appiattito la ciambella, che avrebbe poi originato le lune nelle posizioni che vediamo oggi.

Tuttavia, le simulazioni hanno rilasciato un risultato inaspettato: nello scenario precedente, le lune sono state visualizzate in moto retrogrado (vale a dire, che orbitano nella direzione opposta a quella che osserviamo) Il team di Morbidelli ha modificato i parametri per spiegare questo risultato. La scoperta sorprendente è stato che Urano non è stato inclinato in un colpo solo, come comunemente si crede, ma è stato urtato in almeno due collisioni più piccole, offrendo una probabilità molto più alta di vedere l'orbita delle lune nella direzione che osserviamo.

Questa ricerca è in contrasto con le attuali teorie su come si sono formati i pianeti. Morbidelli ha spiegato così: "La teoria standard presuppone che la formazione dei pianeti come Urano, Nettuno, Giove e Saturno è avvenuta dall'accrescimento di piccoli oggetti nel disco protoplanetario Essi devono aver subito delle grosse collisioni per giustificare Il fatto che Urano è stato colpito almeno due volte, impatti significativi che erano tipici per la formazione dei pianeti giganti. Quindi, la teoria standard deve essere rivista".

Traduzione a cura di Arthur McPaul

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2011/10/111006084235.htm

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domenica 9 ottobre 2011

C’è ozono intorno a Venere


Annunciata nel corso dello European Planetary Science Congress la scoperta di uno strato di ozono nell’atmosfera di Venere. Il pianeta mostra così di avere un altro aspetto in comune con la Terra e Marte.

Con una atmosfera così spessa e densa, intorno a Venere non poteva mancare l’ozono. Uno strato di questo gas, composto da tre atomi di ossigeno, avvolge il pianeta: la scoperta è stata annunciata nell’ambito del congressoEPSC (European Planetary Science Congress), in corso dal 2 al 7 ottobre a Nantes, in Francia.

Individuare proprio il sottile strato di ozono all’interno del guscio gassoso che costituisce l’atmosfera venusiana è stato possibile grazie allo strumento SPICAV: si tratta di uno dei tre spettrometri (fra cui anche VIRTIS realizzato con un fortissimo coinvolgimento italiano di cui è CoPIGiuseppe Piccioni dell’INAF-IASF di Roma) che si trovano a bordo della sonda Venus Express, attualmente in orbita intorno al pianeta. Per scovare l’ozono, potremmo dire che SPICAV si è servito di un trucco: più che puntare direttamente all’involucro gassoso di Venere, ha guardato le stelle visibili dall’altra parte di esso. Prima di arrivare a SPICAV, quindi, la luce delle stelle osservate doveva passare attraverso l’atmosfera che si comporta come un filtro, lasciando passare la radiazione corrispondente a certe lunghezze d’onda e bloccando, ovvero assorbendo, quella tipica di certe altre.

Poiché certi gas si possono riconoscere proprio dal tipo di radiazione che assorbono, SPICAV ha potuto stabilire che se certe lunghezze d’onda mancavano all’appello era perché c’era l’ozono ad assorbirle. Ora sappiamo che anche nell’atmosfera di Venere, come in quelle di Marte e della Terra, c’è uno strato di questo gas. Sul nostro pianeta la sua presenza è in larga parte dovuta alla vita e, allo stesso tempo, è fondamentale per la vita. L’ozono terreste, infatti, è stato e continua ad essere tutt’ora prevalentemente prodotto da processi biologici. La sua presenza è fondamentale perché assorbendo la radiazione ultravioletta funziona coma una sorta di scudo protettivo. L’ozono di Marte e Venere è distribuito lungo uno strato molto meno denso di quello terrestre ed è prodotto quando la radiazione solare “rompe” le molecole di anidride carbonica liberando atomi di ossigeno che poi si uniscono in coppie, formando molecole di ossigeno, o in gruppi di tre, formando appunto ozono.

La presenza di ozono atmosferico è, da ora, una caratteristica che accomuna tre pianeti rocciosi intorno al Sole. Nel momento in cui ne individuassimo uno in orbita intorno a un’altra stella e nella sua atmosfera rilevassimo la presenza di ozono, facendo gli opportuni confronti con i nostri tre “casi noti” potremmo trarre conclusioni molto interessanti sulle sue condizioni di abitabilità.

di Elena Lazzaretto

Fonte: http://www.media.inaf.it/2011/10/06/c%E2%80%99e-ozono-intorno-a-venere/

Pubblicato da arthurmcpaul alle 09:38 Nessun commento:
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Mappatura Globale In Corso Per Titano




Un team internazionale guidato dall'Università di Nantes ha messo insieme le immagini raccolte in oltre sei anni dalla missione Cassini per creare un mosaico globale della superficie di Titano.

Le mappe globali e le animazioni della più grande luna di Saturno sono state presentate da Stéphane Le Mouélic alla riunione EPSC-DPS a Nantes, Francia.
Il team ha compilato tutte le immagini a infrarossi acquisite dal Mapping Vision Spectrometer a infrarossi (VIMS) durante i flyby della sonda Cassini con Titano. Il montaggio dei pezzi del puzzle è stato un compito faticoso. Le immagini sono state corrette per le differenti condizioni di illuminazione e ogni immagine è stata filtrata pixel per pixel per escludere distorsioni atmosferiche. Titano è velato da una spessa e opaca atmosfera composta principalmente da azoto.
Ha nuvole di metano ed etano e vi è una crescente evidenza per la presenza della pioggia di metano. Solo un paio di lunghezze d'onda specifiche negli infrarossi possono penetrare la nube e la foschia per fornire una finestra fino sulla superficie di Titano. Un mondo esotico simile alla Terra ma congelato con molte caratteristiche geologiche è progressivamente emerso dalle tenebre.

Stéphane Le Mouélic spiega: "Quando Cassini orbita intorno a Saturno e Titano può osservare Titano solo una volta al mese in media e la superficie di Titano è quindi stata rivelata anno dopo anno, come i pezzi di un puzzle che sono stati progressivamente messi insieme in una mappa senza cuciture, eliminando gli effetti del clima come le nuvole, la nebbia, e le differenze di osservazione di ogni flyby".

Cassini ha fatto 78 flyby con Titano dal suo arrivo in orbita attorno a Saturno nel luglio 2004. Altri 48 flyby sono previsti fino al 2017. In quelli fatti fino ad ora VIMS ha avuto poche occasioni per osservare Titano con una elevata risoluzione spaziale. Ciò significa che la mappa globale mostra attualmente alcune regioni in modo più dettagliato rispetto ad altre.
"Abbiamo creato le mappe con immagini a bassa risoluzione come sfondo per i dati ad alta risoluzione. In poche occasioni in cui abbiamo le immagini VIMS dal massimo avvicinamento, possiamo mostrare i dettagli più bassi fino a 500 metri per pixel. Un esempio di questo è stato il flyby 47, che ha permesso l'osservazione del sito in cui il modulo di discesa di Huygens è atterrato. Questa osservazione è una chiave che potrebbe aiutarci a colmare il divario tra i dati da terra forniti da Huygens, e la mappatura globale dall'orbita, che continuerà fino al 2017".

Oltre a migliorare la copertura territoriale, la futura mappatura permetterà l'osservazione dei cambiamenti stagionali, atmosferici e della superficie. Mentre la primavera arriverà anche per gli emisferi nord di Saturno e per le sue lune, alcune aree stanno venendo alla luce.
"I laghi nell'emisfero nord di Titano sono stati scoperti dallo strumento RADAR nel 2006, che appaiono come aree completamente liscie. Tuttavia, abbiamo dovuto aspettare fino a giugno 2010 per ottenere le prime immagini a infrarossi dei laghi del nord, che sono emersi progressivamente dall'oscurità dell'inverno del nord", dice Le Mouélic.

"Le osservazioni a raggi infrarossi offrono l'opportunità aggiuntiva di indagare la composizione dei liquidi all'interno della zona dei laghi. L'etano liquido è già stato identificato con questo mezzo".

Traduzione a cura di Arthur McPaul

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2011/10/111004132819.htm

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Dalle Esplosioni Stellari Pericolo Per La Vita Sulla Terra




Lo spazio è un luogo violento. Se una stella esplodesse o due buchi neri si scontrassero nella nostra zona della Via Lattea, emanerebbero colossali esplosioni letali di raggi gamma, raggi X e raggi cosmici, ed è perfettamente ragionevole aspettarsi che la Terra sarebbe immersa in essi.

Un nuovo studio di tali eventi ha prodotto alcune nuove informazioni circa i potenziali effetti di ciò che sono chiamati eventi di radiazione interstellare a "breve durata".
Numerosi studi in passato hanno dimostrato come la più alta energia dei fasci di radiazioni, come quella causate dalle supernove e di brillamenti solari estremi possono esaurire l'ozono stratosferico, che consente alle forme più potenti e dannose di raggi ultravioletti di penetrare sulla superficie terrestre.

La probabilità di un evento abbastanza intenso per disturbare la vita sulla terra e negli oceani diventa grande, è plausibile se viene considerato su scale temporali geologiche.
Per ottenere una stima sui tassi e intensità di tali eventi è importante collegarli alle estinzioni nella documentazione fossile.
"Pensiamo che una sorta di esplosione di raggi gamma (un breve scoppio di raggi gamma) è probabilmente più significativo di uno di raggi gamma più lungo", ha detto l'astrofisico Brian Thomas Washburn University. Il Potenziate dei dati accumulati dal satellite SWIFT, che cattura le esplosioni di raggi gamma in azione in altre galassie, sta fornendo maggiori informazioni per una migliore comprensione sulla potenza e sulla minaccia di tali esplosioni per la vita sulla Terra.

Le raffiche più brevi sono davvero brevi: meno di un secondo. Si pensa che siano causate dalla collisione di due stelle di neutroni, o forse addirittura dai buchi neri. Nessuno è certo ma ciò che è chiaro è che si tratta di eventi incredibilmente potenti.
"La durata non è importante quanto la quantità di radiazione emessa", ha detto Thomas. Se una tale esplosione fosse avvenuta all'interno della Via Lattea, i suoi effetti sarebbero molto più lunghi per la superficie terrestre e gli oceani.
"Quello su cui mi sono concentrato sono stati gli effetti a lungo termine", ha detto Thomas. Il primo effetto è quello di impoverire lo strato di ozono colpendo l'ossigeno libero e gli atomi di azoto in modo che si ricombinano distruggendo l'ozono creando ossidi di azoto. Queste longeve molecole durerebbero fino a quando distruggono l'ozono.
Tali effetti potrebbero essere devastanti per molte forme di vita sulla superficie, tra cui le piante terrestri e marine che sono alla base della catena alimentare.

Sulla base di ciò che si vede tra le altre galassie, questi brevi eventi si verificano una volta ogni 100 milioni di anni. Se questo fosse corretto, allora è molto probabile che la Terra sia già stata esposta a tali eventi numerose volte durante la sua storia.
La questione è se hanno lasciato tracce nel cielo nella geologia della Terra.
"La prova astronomica non è facile da trovare" ha detto "Thomas, perché le galassie girano e si mescolano molto bene ogni milione di anni, così ogni traccia di esplosioni sono probabilmente irreperibili. Ci potrebbe però essere la prova sulla Terra" ha detto. Alcuni ricercatori stanno guardando l'isotopo del ferro-60, per esempio, che è stato sostenuto come prova per gli eventi di possibili radiazioni.
Se gli isotopi come il ferro-60 sono in grado di rivelare gli strati degli eventi, diventa allora una questione di ricerca di eventi di estinzione correlati a ciò che è morto e a ciò che è sopravvissuto, che potrebbero far luce sull'evento stesso.

"Io lavoro con alcuni paleontologi e stiamo cercando correlazioni con le estinzioni, ma sono scettico", ha detto Thomas. "Quindi, se vai a fare una conferenza con i paleontologi, non sembrano abbastanza sicuri ma per gli astrofisici, sembrerebbe un'ipotesi piuttosto plausibile."
Thomas ha presentato il suo lavoro il 9 ottobre 2011, in occasione della riunione annuale della Geological Society of America a Minneapolis.

Questo lavoro è stato supportato dalla NASA Astrobiology.

Traduzione a cura di Arthur McPaul

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2011/10/111007103227.htm

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venerdì 7 ottobre 2011

WISE ridimensione stima degli asteroidi pericolosi




Nuove analisi dai dati di WISE della NASA, dimostrano che vi sono un numero significativamente inferiore di asteroidi vicini alla Terra di medie dimensioni rispetto a quanto si potesse pensare. I risultati indicano anche che la NASA ha trovato più del 90% dei più grandi asteroidi vicini alla Terra.

Gli astronomi stimano che ora ci sono circa dai 19.500 ai 35.000 asteroidi di medie dimensioni vicino alla Terra. Gli scienziati dicono che questa migliore comprensione della popolazione indica che il pericolo per la Terra potrebbe essere un pó meno grave di quanto si pensasse.

Tuttavia, la maggior parte di questi asteroidi di medie dimensioni rimangono da scoprire. Ulteriori ricerche sono necessarie anche per stabilire se esiste un numero inferiore di asteroidi di medie dimensioni (tra 330 e 3.300 metri di larghezza) significa anche un minor numero di asteroidi potenzialmente percolosi.

I risultati provengono dal censimento più accurato degli asteroidi vicini alla Terra, le rocce spaziali che orbitano entro 120 milioni miglia (195 milioni di chilometri) di distanza dal Sole.
WISE li ha osservati nella luce infrarossi da quelli medi a quelli di grandi dimensioni. Il progetto di indagine, denominato NEOWISE, è un prolungamento della missione WISE. I risultati dello studio sono apparsi sulla rivista Astrophysical Journal.

"NEOWISE ci ha permesso di osservare una fetta più rappresentativa dello spazio vicino alla Terra per poter stimare più accuratamente il numero degli asteroidi su tutta la popolazione", ha detto Amy Mainzer, autore principale del nuovo studio e ricercatore principale per il progetto NEOWISE al Jet della NASA Propulsion Laboratory di Pasadena, in California.
"E' come un censimento della popolazione, in cui si effettua il prelevamento di un piccolo gruppo di persone per trarre delle conclusioni circa l'intero paese".

WISE ha scansionato l'intero cielo due volte nella luce infrarossa tra gennaio il 2010 e il febbraio del 2011, fotografando di tutto, dalle galassie lontane ai vicini asteroidi e comete.
NEOWISE ha osservato più di 100.000 asteroidi nella fascia principale tra Marte e Giove, in aggiunta ad almeno 585 vicini alla Terra.
Ha catturato un campione più accurato della popolazione di asteroidi rispetto alle precedenti rilevazioni nella luce visibile, perché i suoi rilevatori a infrarossi possono vedere gli oggetti chiari e scuri. E' difficile per i telescopi ottici vedere la fioca luce visibile riflessa da asteroidi scuri.

I telescopi a raggi infrarossi rilevano il calore di un oggetto, che dipende dalla dimensione e dalle proprietà non riflettenti.
Anche se i dati di WISE rivelano solo un lieve calo del numero stimato per gli asteroidi più grandi vicini alla Terra, che sono oltre 1 chilometro, si nota che il 93% della popolazione stimata è presente. Questo soddisfa il primo obiettivo di "Spaceguard" concordato con il Congresso degli USA. Questi asteroidi grandi sono delle dimensioni di una piccola montagna e avrebbero conseguenze globali se colpissero la Terra.
I nuovi dati rivedono il loro numero totale di circa 1.000 fino a 981, dei quali 911 sono già stati trovati. Nessuno di loro rappresenta una minaccia per la Terra nei prossimi secoli. Si ritiene che tutti gli asteroidi vicini alla Terra di circa 10 chilometri, che si ritiene possano aver spazzato via i dinosauri, sono stati trovati.

"Il rischio di un asteroide molto grande che impatti sulla Terra prima che lo troviamo e mettere in guardia le nostre difese è stato sostanzialmente ridotto", ha detto Tim Spahr, direttore del Minor Planet Center presso la Harvard Smithsonian Center for Astrophysics di Cambridge, Mass.
La situazione è diversa per gli asteroidi di medie dimensioni, che potrebbero distruggere un'area metropolitana se dovessero impattare nel posto sbagliato.
I risultati di NEOWISE dimostrano la presenza di una popolazione maggiore rispetto a quella stimata rispetto a quello che è stato osservato per gli asteroidi più grandi. Finora, lo sforzo di Spaceguard e monitorare oltre 5.200 asteroidi vicini alla Terra, più grandi di un chilometro, lasciandone più di circa 15.000 ancora da scoprire.

Inoltre, gli scienziati stimano che ci sono più di un milione di piccoli asteroidi ancora non noti vicino alla Terra che potrebbero causare danni se dovessero impattare.
"NEOWISE era solo l'ultima risorsa della NASA che ha usato per trovare gli asteroidi più prossimi", ha detto Lindley Johnson, direttore del programma per il Programma di osservazione Near Earth Object presso la sede della NASA a Washington. "I risultati completano gli sforzi fatti da terra dagli osservatori negli ultimi 12 anni. Questi osservatori continuano a monitorare questi oggetti e trovarne ancora di più".

Foto
Le osservazioni di NEOWISE indica che ci sono circa 20,500 asteroidi vicino alla Terra in totale che sono più larghi di 330 piedi, il 43% minore della precedente stima 36,000. (Credit: NASA/JPL-Caltech)

Traduzione a cura di Arthur McPaul

Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2011/09/110929135053.htm

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mercoledì 5 ottobre 2011

Quelle supernovae… lontane lontane


Un team astronomi guidati da ricercatori dell'Università di Tel Aviv ha scoperto alcune supernovae esplose quando l'universo aveva poco più di un quarto dell'età attuale. Il risultato è stato ottenuto grazie a una serie di osservazioni con il telescopio Subaru alle isole Hawaii.

Ancora le supernovae in primo piano. Dopo la notizia dell’assegnazione del Premio Nobel 2011 per la Fisica a tre scienziati per la scoperta dell’espansione accelerata dell’Universo grazie all’utilizzo di questi oggetti celesti, arriva da un team internazionale di astronomi lo studio che ha permesso di individuare 150 supernovae, dodici delle quali sono tra le più distanti mai osservate finora.

“Queste immani esplosioni producono elementi chimici che sono poi i mattoni di nuove generazioni di stelle e pianeti” dice Dan Maoz, professore presso il Dipartimento di Astronomia dell’Università di Tel Aviv, tra gli autori del lavoro pubblicato sul numero di ottobre delle Monthly Notices of the Royal Astronomical Society. “Avvicinandoci a noi, questi elementi sono gli atomi che compongono il terreno sotto i nostri piedi, i nostri corpi e il ferro presente nel sangue che scorre nelle nostre vene”.

Il risultato è stato ottenuto grazie a una serie di quattro osservazioni di lunga durata con il telescopio Subaru, situato sulla sommità del vulcano spento Mauna Kea, nelle isole Hawaii, che è stato puntato su una porzione di cielo denominata Subaru Deep Field. In questa regione, che copre una superficie grande circa come quella apparente della Luna piena, sono presenti qualcosa come 150.000 galassie.

Alcune delle supernovae scoperte si trovano a una distanza di 10 miliardi di anni luce, e dunque sono esplose quando l’universo aveva poco più di un quarto dell’età attuale. Non solo. Dall’analisi dei dati emerge che le supernovae di tipo Ia in quell’epoca esplodevano con una frequenza cinque volte maggiore di quanto accade oggi. Un risultato molto importante, che aiuta a comprendere il ruolo che questi oggetti celesti hanno avuto nell’arricchire di elementi chimici più pesanti dell’ossigeno l’universo nei primi miliardi di anni dopo il Big Bang.

a cura di Marco Galliani

Fonte: http://www.media.inaf.it/2011/10/05/quelle-supernovae-lontane-lontane/
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martedì 4 ottobre 2011

Tre immagini rivelatrici



Dallo spettrometro italiano a bordo della sonda nuove immagini dell'asteroide che fanno luce su una zona curiosamente più chiara delle regioni circostanti.

DAWN continua a svelare i segreti di Vesta. La sonda NASA da luglio sta orbitando attorno al grande asteroide e grazie alle immagini e ai dati raccolti ne stiamo conoscendo sempre più a fondo composizione chimica e morfologia. Come dimostrano le ultime immagini ottenute attraverso uno dei suoi strumenti di punta, VIR (Visible and Infrared Mapping Spectrometer) spettrometro che lavora nelle bande del visibile e del vicino infrarosso. Finanziato dall’ Agenzia Spaziale Italiana e realizzato alla Selex Galileo, VIR è stato costruito con la guida scientifica dell’ INAF sotto la responsabilità di Angioletta Coradini, scomparsa recentemente.

Tra le immagini più interessanti prodotte da VIR ne spiccano tre, visibili qui a sinistra partendo dall’alto verso il basso, presentate per la prima volta proprio in questi giorni al Congresso Internazionale di Planetologia DPS-EPSC che si sta a svolgendo a Nantes, in Francia. Sono le riprese di una regione vicina all’equatore di Vesta, ottenute da una distanza di 2730 chilometri. La prima immagine, quella più in alto, mostra al centro un grande cratere sotto al quale si trova un cratere più piccolo circondato da una zona luminosa. Di cosa si tratta?

La prima ipotesi suggerisce che quella zona è apparsa più luminosa perché in quel momento maggiormente illuminata dal Sole. Ma potrebbe anche essere dovuto a una diversa composizione chimica rispetto alle regioni circostanti. Qui entra in gioco la seconda immagine, ottenuta da VIR nella banda dell’infrarosso a 5 micron: le zone più chiare evidenziano regioni più “calde”, con temperature sui -3 gradi Celsius, quelle più scure regioni più “fredde”, con temperature sui -30 gradi Celsius. La zona sotto esame appare più scura quindi è meno illuminata delle circostanti: cade allora la prima ipotesi.

Infine ulteriori informazioni arrivano dalla terza immagine, realizzata in falsi colori per far risaltare le diverse abbondanze di materiali presenti sulla superficie. Qui la zona appare di colore verde, in contrasto con il colore blu circostante. Ciò conferma che deve esserci una forte differenza della composizione chimica poco sotto la superficie, o che quella zona è più giovane rispetto alle regioni che la circondano. Il cerchio si sta quindi chiudendo e nuovi dati ci daranno la risposta definitiva.

DAWN continuerà a studiare Vesta per un anno, poi punterà verso il pianeta nano Cerere, il più grande tra i corpi della fascia principale degli asteroidi.

A cura di Luca Nobili

Fonte: http://www.media.inaf.it/2011/10/04/tre-immagini-rivelatrici/
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lunedì 3 ottobre 2011

Il passato di Marte, in un meteorite


Recuperato nel 1984 nella zona di Allan Hills, in Antartide,ALH84001 è un meteorite di circa 2 chili, precipitato sulla Terra 13.000 anni fa. Fin dal momento della sua scoperta ha attirato su di sé molte attenzioni per via della sua provenienza: è praticamente certo che un tempo si trovasse su Marte e che, a causa dell’impatto di un grosso meteorite schiantatosi sul pianeta rosso, sia schizzato nello spazio iniziando un viaggio poi conclusosi fra i ghiacci terrestri. ALH84001 è quindi un prezioso campione, contenente una parte di storia di Marte.

I risultati di uno studio recente, pubblicato nei Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America (PNAS), partono da nuove approfondite analisi e giungono a conclusioni molto interessanti sull’ambiente marziano così come poteva essere miliardi di anni fa, all’epoca in cui si formarono i minerali contenuti nel famoso meteorite.

Concentrando l’attenzione su un particolare tipo di carbonati, è stato possibile stabilire che si sono formati per precipitazione, in presenza di acqua e anidride carbonica, a una temperatura di 18°C. La formazione sarebbe inoltre avvenuta a temperatura costante, in un deposito d’acqua del sottosuolo soggetto a una graduale evaporazione, a metri o a decine di metri di profondità.

Si tratta di una ulteriore conferma all’ipotesi che un tempo Marte (o almeno certe sue regioni) fosse un ambiente più umido di quanto non lo sia oggi e che le temperature fossero moderate. D’altra parte però, si conferma anche la natura effimera dei depositi di acqua liquida: un fatto, questo, che ancora non permette di stabilire se Marte sia mai stato un mondo favorevole allo sviluppo di vita, per quanto elementare.

La questione rimane aperta, evidenziando la necessità di effettuare altre analisi, altrettanto approfondite, su altri frammenti marziani, senza aspettare che piovano dal cielo. A questo provvederanno le future missioni, che saranno in grado di raggiungere Marte, raccogliere campioni e spedirli poi sulla Terra.



A cura di Elena Lazzaretto

Fonte: http://www.media.inaf.it/2011/10/03/il-passato-di-marte-in-un-meteorite/

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domenica 2 ottobre 2011

Le conquiste di un cacciatore di pianeti

I risultati del telescopio spaziale Kepler, ideato per cercare pianeti in orbita intorno ad altre stelle, offrono un panorama molto vario, mostrando scenari molto diversi da quello del Sistema solare.

Lanciato nel 2009, il telescopio spaziale Kepler, della NASA, ha dato sorprendente dimostrazione delle sue abilità di “cacciatore di pianeti”. Puntando una specifica regione della nostra galassia, in direzione dellacostellazione del Cigno, osserva un consistente campione di stelle: ben 156’000. Di queste, è in grado di rilevare eventuali, impercettibili diminuzioni di luminosità, variazioni che possono verificarsi quando un pianeta si trova a passare davanti alla propria stella lungo la sua linea di vista. Di potenziali nuovi pianeti extrasolari, Kepler ne ha già individuati ben 1’235: i ricercatori analizzano questa notevole mole di dati, facendo le opportune verifiche, in modo da stabilire quanti di essi siano effettivamente pianeti.

Giunto ormai a buon punto della propria missione, la cui durata prevista è di 3 anni e mezzo, Kepler ha individuato sistemi planetari in cui pianeti giganti simili a Giove si trovano estremamente vicini alla propria stella. In altri casi i pianeti più piccoli si trovano alla periferia, mentre i maggiori nella parte interna del sistema. In altri ancora Kepler ha rilevato orbite estremamente eccentriche. Tutte caratteristiche decisamente diverse da quelle che ritroviamo nel nostro Sistema solare e che ci costringono ad ampliare le nostre vedute, perché lo scenario al quale siamo abituati si rivela essere solo uno dei tanti possibili.

Questo panorama così vario, suggerisce anche di rivedere e generalizzare la definizione della cosiddetta “fascia di abitabilità”, quella regione alla giusta distanza da una determinata stella perché sulla superficie di un pianeta roccioso in orbita intorno ad essa possa esserci acqua liquida. Le cosiddette super-Terre (pianeti la cui massa è superiore a quella della Terra, ma inferiore a quella dei giganti gassosi) ad esempio, potrebbero avere atmosfere molto dense e sviluppare un effetto serra che consenta all’acqua di mantenersi liquida anche se, per la distanza dalla propria stella, dovrebbe trovarsi allo stato ghiacciato.

Dal punto di vista statistico, i risultati di Kepler mostrano una certa abbondanza di pianeti il cui diametro è circa il doppio rispetto a quello della Terra. Certo, di pianeti effettivamente simili al nostro, per dimensioni, composizione, posizione, non ne sono ancora stati scoperti: potrebbero effettivamente essere più rari, ma essendo più piccoli potrebbero anche semplicemente essere più difficili da rilevare. Questo è un punto di partenza per la ricerca del futuro, ma ciò che conta è che grazie a Kepler le considerazioni sull’abbondanza delle varie tipologie planetarie individuate possono essere estese all’intera Galassia perché, pur se limitato spazialmente, il campione di stelle esaminato è senz’altro rappresentativo.

Il lavoro di Kepler, quindi, oltre a darci una visione di quanto vari e sorprendenti possano essere i sistemi planetari della Via Lattea (come la recente scoperta del pianeta in orbita intorno a due stelle), permette di trarre importanti conclusioni di tipo statistico, preparando il terreno per successori che eseguiranno una caccia più mirata, sapendo cosa cercare e dove. Grazie alle informazioni ottenute grazie a Kepler, le missioni future potranno puntare direttamente ai sistemi planetari più vicini, nella speranza di trovare, finalmente, un pianeta adatto a ospitare forme di vita.

di Elena Lazzaretto

Link: http://www.media.inaf.it/2011/09/20/le-conquiste-di-un-cacciatore-di-pianeti/





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Una doppietta per i Planet hunters



Oltre 40.000 navigatori del web stanno partecipando al progetto che permette di elaborare con il proprio pc i dai raccolti dal telescopio Kepler. E in un mese hanno già individuato due pianeti extrasolari. 

Prima doppietta segnata dai Planet Hunters, i cacciatori domestici di pianeti. Sono i 40.000 navigatori del web che hanno aderito al progetto ideato dalle Università di Yale, di Oxford e dal Planetario Adler di Chicago. Comodamente seduti a casa, davanti ai loro computer, i “planet hunters” hanno analizzato la luce emessa da 150.000 stelle per identificare quei segni che possono indicare la presenza di pianeti in orbita. E magari non il solito pianeta gigante gassoso ma uno di tipo roccioso e simile alla Terra. Obiettivo quasi del tutto raggiunto visto che dopo appena un mese dall’apertura della caccia sono già stati individuati due pianeti extrasolari, uno dei quali roccioso.

 I due pianeti orbitano attorno alle loro stelle con periodi che vanno da 10 a 50 giorni e hanno dimensioni da due volte e mezzo sino a otto volte quelle della Terra. Uno dei due sembra inoltre essere di tipo roccioso, anche se purtroppo non si trova alla giusta distanza dalla stella per poter sperare di trovarvi condizioni di abitabilità. La luce delle stelle è stata raccolta dal telescopio spaziale Kepler, che sta individuando decine di pianeti extrasolari e centinaia di candidati. Con numeri così elevati il team scientifico preposto alle analisi è obbligato a selezionare solo i candidati più probabili, posticipando o scartando gli altri. E’ qui che si inseriscono i planet hunters che possono scovare pianeti tra gli oggetti messi da parte. In questo caso avevano individuato 10 candidati di prima fascia che sono subito stati segnalati al team di Kepler.

L’analisi successiva di questi dieci ha portato all’identificazione di due pianeti sicuri. Considerato che questa prima doppietta è stata ottenuta in poche settimane è probabile che nei prossimi mesi i cacciatori di pianeti segnino altri punti sul loro tabellino. E chissà che non siano loro a trovare il tanto atteso primo pianeta abitabile. 

Il sito ufficiale del progetto Planet Hunters.

A cura di Luca Nobili

Fonte: http://www.media.inaf.it/2011/09/23/una-doppietta-per-i-planet-hunters/ 
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Il lato piatto di Mercurio



I dati dalla sonda MESSENGER confermano che Mercurio ha conosciuto un periodo di intensa attività vulcanica, dalla quale avrebbero avuto origine le zone piatte che osserviamo oggi.


Per oltre 35 anni le lisce “pianure” rocciose di Mercurio hanno fatto discutere astronomi e geologi. Riprese per la prima volta nel 1974 dalla sonda Mariner 10, sembravano essere il risultato di una remota attività vulcanica ma i dubbi non mancavano. Il colore, ad esempio, non era più scuro rispetto alle zone circostanti, come invece troviamo sulla Luna. Ora, grazie ai nuovi dati della sonda MESSENGER, abbiamo la conferma che dietro a quelle regioni così lisce ci sono state enormi fuoriuscite di lava.
Il risultato nasce dall’analisi della morfologia e della composizione chimica di alcune “pianure” presenti nell’emisfero settentrionale del pianeta. La loro formazione sembra risalire acirca 4 miliardi di anni fa, quando il pianeta era particolamente attivo da un punto di vista geologico. Non sono però il frutto delle classiche eruzioni vulcaniche, piuttosto si sono formate dal raffreddamento di estese colate di lava fuoriuscite dalle crepe della superficie.
Queste vere e proprie inondazioni di roccia fusa hanno ricoperto sino al 6% della superficie di Mercurio, corrispondente come estensione al 60% degli Stati Uniti. Riempiendo crateri e vallate, la lava si è poi raffreddata e solidificata, dando origine alle zone lisce e piatte che possiamo osservare oggi.
Prima di poter affermare di aver risolto il caso sono però necessarie altre conferme, per questo si attendono nuovi dati e osservazioni dalla MESSENGER. La sonda americana è la prima ad essere stata immessa nell’orbita del pianeta e lo studierà per vari anni. E chissà quali altre scoperte ci attenderanno quando nel 2014 arriverà Bepi Colombo, la sonda dell’Agenzia Spaziale Europea alla cui realizzazione ha contribuito anche l’Italia.

A cura di Luca Nobili

Fonte: http://www.media.inaf.it/2011/09/29/il-lato-piatto-di-mercurio/


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