giovedì 30 giugno 2011

Scoperto Quasar Dell'Universo Primordiale



Un team di astronomi europei ha utilizzato l'European Southern Observatory Very Large Telescope e una serie di altri telescopi per scoprire e studiare i quasar più distanti. Questo faro brillante, alimentato da un buco nero con una massa di 2.000 milioni di volte quella del Sole, è di gran lunga l'oggetto più luminoso mai scoperto nell'Universo primordiale. I risultati sono apparsi il 30 giugno 2011, sulla rivista Nature.

"Questo quasar è una sonda vitale nell'Universo primordiale. E' un oggetto molto raro che ci aiuterà a capire come i buchi neri supermassicci sono cresciuti a poche centinaia di milioni di anni dopo il Big Bang", afferma Stephen Warren, team leader dello studio.

I quasar sono galassie molto luminose e lontane che si ritiene siano alimentate da buchi neri supermassicci al loro centro. Il loro splendore li rende potenti fari che possono aiutare a sondare il periodo in cui le prime stelle e galassie si stavano formando. Il quasar appena scoperto è così lontano che la sua luce fa lparte dell'Era della rionizzazione dell'Universo [1].
 
Il quasar, classiificato come Ulas J1120 0641 [2] è nato solo 770 milioni anni dopo il Big Bang (redshift 7.1, [3]). Ci sono voluti 12,9 miliardi anni affinché la sua luce ci abbia raggiunti.
Anche se gli oggetti più distanti sono stati confermati (come un lampo di raggi gamma a redshift 8.2 e una galassia a redshift 8.6), la recente scoperta dei quasar è centinaia di volte più luminosa di questi. Tra gli oggetti luminosi da poter essere studiati in dettaglio, questo è il più lontano con un ampio margine dal precedente quasar nato 870 milioni anni dopo il Big Bang (redshift 6.4). Oggetti simili più lontani non possono essere osservati nella luce visibile 
ma nello spettro infrarosso.

L'Ufficio europeo UKIRT Infrared Deep Sky Survey (UKIDSS) che usa telescopio della tecnologia ad infrarossi del Regno Unito [4] alle Hawaii è stato progettato per risolvere questo problema. 
Il team di astronomi osserva milioni di oggetti del database UKIDSS per trovare quelli che potrebbero essere quasar lontani.

"Ci sono voluti cinque anni per trovare questo oggetto", spiega Bram Venemans, uno degli autori dello studio. "Eravamo alla ricerca di un quasar con redshift superiore a 6,5. Trovarne uno che superiore a 7, è stata una sorpresa entusiasmante. Appartenendo all'Era della rionizzazione, questo quasar fornisce un'opportunità unica per esplorare una finestra di 100 milioni di anni nella storia del cosmo che in precedenza era fuori portata".

La distanza dal quasar è stata determinata da osservazioni effettuate con lo strumento FORS2 sul Very Large Telescope (VLT) dell'ESO e da strumenti sul telescopio Gemini Nord [5]. Poiché l'oggetto è relativamente brillante, è possibile prendere uno spettro di esso (che prevede la separazione della luce dall'oggetto nei suoi colori componenti). Questa tecnica ha permesso agli astronomi di scoprire un bel pó di informazioni sui quasar.

Queste osservazioni hanno mostrato che la massa del buco nero al centro di Ulas J1120 0641 è di circa due miliardi di volte quella del Sole. Questa massa molto alta è difficile da spiegare così presto dopo il Big Bang. Le attuali teorie per la crescita di buchi neri supermassicci prevedono un lento accumulo di massa mentre l'oggetto compatto attira la materia che lo circonda.
"Pensiamo che ci sono solo circa 100 quasar luminosi con redshift superiore a 7 nel cielo", conclude Daniel Mortlock, l'autore principale della carta. 

"La ricerca di questo oggetto richiede una ricerca attenta, ma valeva la pena essere in grado di svelare alcuni dei misteri dell'Universo primordiale".

Note:
[1] Circa 300 000 anni dopo il Big Bang, avvenuto 13,7 miliardi anni fa, l'Universo si era raffreddato abbastanza da permettere agli elettroni e ai protoni di combinarsi nell'idrogeno neutro (un gas senza carica elettrica). Questo gas fresco e buio permeava l'universo fino a quando le prime stelle iniziarono a formarsi tra i 100 e i 150 milioni di anni dopo. La loro intensa radiazione ultravioletta ha lentamente dividere gli atomi di idrogeno di nuovo in protoni ed elettroni, un processo chiamato reionisation, rendendo l'Universo più trasparente alla luce ultravioletta. E 'credere che questo era avvenuto tra circa 150 a 800 milioni anni dopo il Big Bang.

[2] L'oggetto è stato trovato utilizzando i dati del Large Area Survey UKIDSS, o Ulas. I numeri e il  prefisso J si riferiscono alla posizione del quasar nel cielo.

[3] Dato che la luce viaggia a una velocità finita, gli astronomi guardano indietro nel tempo più guardano lontano nell'Universo. Ci sono voluti 12,9 miliardi di anni prima che la luce di Ulas J1120 0641 raggiungesse la Terra e il quasar fosse visto come era quando l'universo aveva solo 770 milioni anni fa. 
In questi 12,9 miliardi anni, l'Universo si espande e la luce dall'oggetto si è allungata di conseguenza. Il redshift cosmologico, o semplicemente redshift, è una misura da quando  l'Universo ha emesso la luce e da quando è stata ricevuta.

[4] UKIRT è lo UK Infrared Telescope'di proprietà del Regno Unito Science and Technology Facilities Council ed è gestito dallo staff del Centro di Astronomia a Hilo, nelle Hawaii.

[5] FORS2 è lo spettrografo riduttore di focale a bassa dispersione del VLT. Altri strumenti usati per suddividere la luce l'oggetto sono il Multi-Object Spectrograph Gemini (OGM) e la Gemini Near-Infrared Spectrograph (Gnirs). Il telescopio di Liverpool, il telescopio Isaac Newton e il Regno Unito Infrared Telescope (UKIRT) sono stati utilizzati anche per confermare le misure di indagine.

Maggiori informazioni:
Questa ricerca è stata presentata in un articolo sulla rivista Nature del 30 giugno 2011.
Il team è composto da Daniel J. Mortlock (Imperial College di Londra, Gran Bretagna), Stephen J. Warren, Bram P. Venemans (ESO, Garching, Germania), Mitesh Patel, Paul C. Hewett (Istituto di Astronomia [IOA], Cambridge, UK), Richard G. McMahon (IOA), Chris Simpson (Liverpool John Moores University, UK), Tom Theuns (Institute for Computational Cosmology, Durham, Regno Unito e l'Università di Anversa, Belgio) , Eduardo A. Gonzales-Solares (IOA), Andy Adamson (Joint Astronomy Centre, Hilo, Stati Uniti d'America), Simon Dye (Centro per l'astronomia e la teoria delle particelle, Nottingham, UK), Nigel C. Hambly (Istituto di Astronomia, Edimburgo, Regno Unito ), Paul Hirst (Gemini Observatory, Hilo, Stati Uniti d'America), Mike J. Irwin (IOA), Ernst Kuiper (Osservatorio di Leiden, Olanda), Andy Lawrence (Istituto di Astronomia, Edinburgh, UK), Huub JA Rottgering (Leiden Observatory, Paesi Bassi).


Traduzione a cura di Arthur McPaul


Fonte:  
http://www.sciencedaily.com/releases/2011/06/110629132527.htm


mercoledì 29 giugno 2011

Fiammata Da Stella Di Neutroni



L'osservatorio spaziale XMM-Newton dell'ESA ha scorto una  fiammata emessa da una stella di neutroni nei raggi X, con una lunghezza d'onda fino a quasi 10,000 volte la sua luminosità normale.

Gli astronomi credono che l'esplosione sia stata causata dalla stella mentre cercava di mangiare un grumo gigante di materia.

La fiammata si è svolta su una stella di neutroni, il cuore collassato di una stella, che era una volta molto più grande di adesso. Ora è solo circa 10 km di diametro, ma è così densa che genera un forte campo gravitazionale.

La macchia di materia era molto più grande della stella di neutroni e proveniva dalla sua enorme stella compagna, una supergigante blu.
"Questo è stato un enorme proiettile di gas che ha sparato la stella di neutroni", dice Enrico Bozzo, dell'ISDC Data Centre di Astrofisica, Università di Ginevra, in Svizzera, e team leader di questa ricerca.
Il bagliore è durato quattro ore e i raggi X provenivano dal gas che è stato riscaldato a milioni di gradi pur essendo stato attirato in un campo di intensa gravità della stella di neutroni. Infatti, il gruppo era così grande che non ha colpito gran parte della stella di neutroni. Eppure, se la stella di neutroni non fosse giunta sul suo cammino, questo gruppo sarebbe probabilmente scomparso nello spazio senza lasciare traccia.

L'XMM-Newton ha catturato il bagliore nel corso di una osservazione programmata di 12,5 ore del sistema conosciuto dal suo numero di catalogo IGR J18410-0535, ma gli astronomi non erano a conoscenza di quello che stava per avvenire.
Il telescopio funziona attraverso una sequenza di osservazioni accuratamente pianificate per utilizzare nel miglior modo il tempo per inviare poi i dati a terra.
Tali dati sono giunti circa dieci giorni dopo l'osservazione. Il dottor Bozzo e i suoi colleghi hanno capito subito che avevano osservato qualcosa di speciale. Non avevano osservato nella giusta direzione per vedere il bagliore, ma l'osservazione era durata abbastanza a lungo per l
scorgere il fenomeno dall'inizio alla fine.
"...siamo stati estremamente fortunati", spiega Bozzo. Si stima che una radiografia del bagliore di questa portata si può aspettare un paio di volte all'anno al massimo per questo sistema stellare così particolare.

La durata della fiammata ha permesso loro di stimare la dimensione del gruppo. E' stato molto più grande della stella, probabilmente di circa 16 milioni km di diametro, pari a circa 100 miliardi di volte il volume della Luna. Eppure, secondo la stima fatta dalla luminosità del riflesso, il ciuffo conteneva solo un millesimo di massa nostro satellite naturale.
Questi dati aiuteranno gli astronomi a comprendere il comportamento delle supergiganti blu e il modo in cui emettono la materia nello spazio.

Tutte le stelle espellono gli atomi nello spazio, creando un vento stellare. Il bagliore emesso nei raggi X da questa particolare supergigante blu è disomogeneo, e la dimensione stimata e la massa della nube permettono di essere immessi sul processo.

"Questo notevole risultato evidenzia che l'XMM-Newton ha capacità uniche", ha commentato Norbert Schartel, scienziato del progetto. "Le sue osservazioni indicano che questi fenomeni possono essere collegati alla stella di neutroni nel tentativo di ingerire un grumo gigante di materia".


Traduzione a cura di Arthur McPaul


Fonte:
http://www.sciencedaily.com/releases/2011/06/110628111848.htm


martedì 28 giugno 2011

DAWN Sempre Più Vicino a Vesta



La navicella spaziale DAWN della NASA si sta avvicinando al protopianeta Vesta, uno degli oggetti più grandi della Fascia degli Asteroidi Principale. Se tutto andrà come previsto, entrerà in orbita il 16 luglio 2011.
Dopo aver viaggiato per quattro anni e aver persorso ben 2,7 miliardi di km, DAWN è adesso a circa 155,000 km da Vesta e quando entrerá in orbita sarà a circa 16,000 km dal protopianeta e distante dalla Terra approssimativamente 188 milioni di km. [Credito dell'Immagine NASA/JPL-Caltech/UCLA/MPS/DLR/PSI]



Le immagini di Vesta riprese da DAWN mostrano giá enormi progressi rispetto a quelle fino ad ora a disposizione, sfocate che aveva ripreso in passato l'Hubble Space Telescope della NASA/ESA. Tuttavia la superficie resta ancora misteriosa e per le immagini ravvicinate non resta che attendere agosto per l'elaborazione dei primi dati. [Crediti dell'immagine: NASA/JPL-Caltech/UCLA/MPS/DLR/PSI e NASA/ESA/STScI/UMd]



A cura di Arthur McPaul

Fonte: http://www.jpl.nasa.gov/news/news.cfm?release=2011-192

L'Incognita Vita Extraterrestre


Come possiamo stabilire se su un pianeta ci può essere vita osservandolo a distanza? Quali gli indizi da cercare? Se lo chiedono i ricercatori di un programma americano di Esiobiologia, in parte finanziato dall’ Istituto di Astrobiologia della NASA. Seduti davanti ai computer, costruiscono simulazioni virtuali dalle quali determinare tutti gli indizi che in qualche modo indicano la possibile presenza di vita o quantomeno di elevate condizioni di abitabilità.

Tenendo presenti i costituenti tipici delle varie atmosfere planetarie, i ricercatori si sono concentrati sulle abbondanze dei composti organici che presentano zolfo, un fattore strettamente legato  alla quantità di calore proveniente dalla stella attorno alla quale orbita il pianeta che a sua volta è un fattore primario che ne determina la possibile abitabilità. Le simulazioni hanno mostrato che le diverse abbondanze di questi composti hanno, tra le conseguenze, quella di variare a loro volta i livelli di etano e metano presenti nell’atmosfera.

Il risultato, pubblicato da poco in un articolo su Astrobiology, acquista particolare rilevanza per chi si troverà a studiare pianeti e satelliti dotati di un’atmosfera simile a quella della Terra primordiale, dove ancora non dominano gas quali ossigeno e azoto ma che presentano invece forti concentrazioni di idrocarburi quali l’etano e il metano. Misurandone i livelli, operazione possibile anche a distanza senza la necessità di recarsi sul posto, in base a quanto ottenuto dai modelli sviluppati dai ricercatori, sarà possibile calcolare il “livello di abitabilità” del corpo celeste.

La stima non potrà essere considera definitiva ma andrà associata ad altre valutazioni basate su altri indizi. Tuttavia rappresenterà un ulteriore e importante elemento discriminante, utile per selezionare in modo mirato i pianeti con maggiore probabilità di ospitare la vita  sui quali conviene continuare a indagare.


A cura di Luca Nobili


Fonte:
http://www.media.inaf.it/2011/06/28/il-cluedo-della-vita/


Inseguendo L'Ombra Di Plutone




È stato un volo davvero fuori dall’ordinario e carico di suspense quello di un Boeing 747 sui cieli dell’Oceano Pacifico il 23 giugno scorso. Ma per fortuna non ci sono stati problemi tecnici, tentati dirottamenti o, peggio, attentati. Il volo era una missione speciale di un altrettanto speciale osservatorio: SOFIA (Stratospheric Observatory for Infrared Astronomy), un telescopio di ben due metri e mezzo di diametro, a bordo di un gigantesco aereo di linea appositamente adattato. Il suo obiettivo: inseguire e studiare l’ombra Plutone proiettata sulla Terra, a seguito del passaggio del pianeta nano davanti a una stella distante. Quella che gli astronomi chiamano occultazione, in pratica una sorta di mini eclissi. E questo per studiare la struttura e la composizione dell’atmosfera di Plutone.

“Le occultazioni ci danno la possibilità di misurare la pressione, densità e profili di temperatura dell’atmosfera di Plutone senza lasciare la Terra”, ha detto Ted Dunham del Lowell Observatory di Flagstaff, in Arizona, che ha guidato il team di scienziati a bordo SOFIA durante le osservazioni di Plutone. “Poiché siamo stati in grado di guidare SOFIA così vicino al centro dell’occultazione, abbiamo osservato un piccolo ma evidente incremento della luminosità in in prossimità della fase centrale dell’occultazione. Questo cambiamento ci permetterà di sondare l’atmosfera di Plutone a quote più basse di quanto sia normalmente possibile con le occultazioni stellari”.

La missione si è rivelata dunque un successo, ma per alcuni lunghissimi minuti ha rischiato di fallire.  Sia gli astronomi che l’equipaggio del Boeing su cui viaggiava SOFIA non avevano inizialmente dati precisi della traiettoria lungo la quale sarebbe transitata la proiezione dell’ombra di Plutone. L’aereo è dunque decollato conoscendo solo approssimativamente la  zona dove si sarebbe potuto osservare al meglio il fenomeno. Le informazioni definitive sono giunte via radio all’equipaggio solo due ore prima dell’occultazione, rivelando che il massimo dell’occultazione sarebbe avvenuta 200 chilometri più a nord del piano di volo programmato. Scatta subito una febbrile conversazione tra il Boeing e i controllori del traffico aereo per ottenere l’autorizzazione al cambiamento di rotta. E fortunatamente questa viene concessa dopo venti minuti, permettendo così alla missione di raggiungere in tempo la zona di operazione e osservare finalmente l’occultazione con il telescopio SOFIA.


A cura di Marco Galliani


Fonte:  
http://www.media.inaf.it/2011/06/28/rincorrendo-l’ombra-di-plutone/


Il Mistero Di Geminga


Si chiama Geminga, dalla costellazione Gemini e dai raggi gamma che emette, ma anche Gh’è Minga, in onore agli scienziati milanesi che hanno contribuito non poco al suo studio, a partire da Giovanni Fabrizio Bignami e, in particolare, da Patrizia Caraveo, direttrice dello IASF-INAF di Milano e premiata lo scorso anno dal Presidente Napolitano proprio per il lavoro svolto su questo oggetto celeste. Geminga è una pulsar, una stella di neutroni che gira velocemente su se stessa 5 volte al secondo. Ma non solo, è il prototipo di una classe di pulsar molto particolare, le cosiddette pulsar radio-quiete, cioè che non producono emissioni radio, peculiarità di questi oggetti celesti. Identificata all’inizio degli anni ’90, questa pulsar che si trova a “soli” 600 anni luce circa dalla Terra, astronomicamente vicino, è oggetto di studio da parte di pulsaristi di tutto il mondo.

Tra questi Alberto Pellizzoni, ricercatore dell’Osservatorio Astronomico di Cagliari dell’INAF, autore di un recente studio su Geminga, che apparirà a breve su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.

Lo studio prodotto insieme ai colleghi dell’OA di Cagliari, Federica Govoni, Paolo Esposito, Matteo Murgia e Andrea Possenti , ha portato ad un’importante novità, come ci spiega lo stesso ricercatore. “Per decenni – dice Pellizzoni – numerosi gruppi hanno cercato senza successo segni di emissione radio da questa strana pulsar. Da una collaborazione interdisciplinare tra il gruppo di astrofisica delle alte energie e di radioastronomia dell’Osservatorio Astronomico di Cagliari, si è giunti alla clamorosa e inaspettata detezione di un segnale radio molto significativo da Geminga, grazie a profonde osservazioni ottenute con il Very Large Array (VLA), una delle principali reti di radio-telescopi al mondo”.

Insomma Geminga produce emissioni radio, ma sembra essere l’origine di queste emissioni radio a porsi come un nuovo mistero da affrontare. “Riteniamo di poter escludere con buona probabilità – continua Pellizzoni – che possa trattarsi della tipica emissione delle pulsar, cioè radiazione pulsata proveniente dalla magnetosfera, ma anche la possibile origine associata ad una ipotetica nebula radio-emittente (una Pulsar Wind Nebula) che circonda la stella di neutroni è difficile da giustificare in modo semplice con i modelli attuali”.

Insomma Geminga continua a stupire e incuriosire. Secondo lo studio questa tipologia di emissioni radio potrebbe essere apprezzabile solo nelle pulsar “radio quiete” altamente energetiche e a noi molto vicine, come è appunto Geminga. Solo nuove osservazioni e studi radio di Geminga, che continueranno grazie all’Extended Very Large Array, una versione potenziata del VLA, permetterà di confermare o meno la natura diffusa o meno dell’emissione e di studiarne la struttura.

“Certo è – conclude il ricercatore – che Geminga, nonostante il nome, non può proprio più essere considerato un oggetto radio-quieto”.


A cura di Francesco Rea


Fonte:
http://www.media.inaf.it/2011/06/24/ghe-minga-ora-ce/




SETI Sospeso: Parte La Raccolta Fondi


Proprio in questi mesi di grande fermento per la ricerca di vita extraterrestre da parte degli astrobiologi e radioastronomi, giunge una notizia poco gradita per il settore.

A causa della mancanza di finanziamenti, il SETI Allen Telescope Array (ATA) è stato temporaneamente messo fuori servizio.

In un momento in cui il telescopio Keplero della NASA e altri da Terra stanno scoprendo centinaia di mondi alieni attorno ad altre stelle, sarebbe stato molto utile puntare l'ATA e altri radiotelescopi su  alcuni di questi mondi per cercare di ascoltare l'eventuale presenza di civiltà aliene.

Ma il mese scorso, il SETI Institute ha annunciato che avrebbe dovuto sospendere l'uso dell'ATA appena avrebbero terminato i soldi.

A causa di tagli di bilancio da parte dello Stato della California e della National Science Foundation, mantenere la gestione dell'ATA è diventato un compito impossibile in quanto il SETI non è una organizzazione governativa,

Ora, attraverso una iniziativa della Silicon Valley, denominata SETIStars, istituita per generare fondi per quella che consideriamo essere uno dei più nobili sforzi dell'umanità, tutti noi possiamo aiutare il SETI a tornare a fare quello che sa fare meglio: la ricerca di segnali ET. L'obiettivo è di raccogliere 200.000 dollari.

Dal sito web SETIStars si legge:

"Grazie l'Istituto SETI, abbiamo creato un marchio che ha esplorato lo spazio. Ma è la nostra passione e la nostra creatività che ci distingue veramente. Ecco perché abbiamo deciso di lanciare il SETIstars, un'iniziativa per unire collegarci ancor di più con i nostri sostenitori.

La priorità assoluta è avere l'Allen Telescope Array (ATA) di nuovo online nel più breve tempo possibile ancora una volta, per fissare lo sguardo sulle stelle. L'ATA è una potente rete di radiotelescopi collegati assieme che consentono innumerevoli tipi studi astronomici, primo fra tutti la ricerca di prove di civiltà extraterrestri e la comprensione della natura delle nostre origini cosmiche.
Sulla scia di una recente mancanza di fondi, però, questo prezioso strumento si trova in sospeso e la nostra visione dell'Universo che ci circonda è stata oscurata. Con il vostro aiuto, possiamo cambiare questa situazione.

Ma come ogni sforzo utile, la prima sfida è improbabile che sia l'ultima. Si tratta di un viaggio che durerà per tutta la nostra vita, perchè ci sforziamo continuamente di avvicinarsi a rispondere a domande che potrebbero un giorno cambiare tutto sul nostro mondo.
Non accadrà durante la notte, ma con il vostro sostegno, accadrà.

Il SETI Institute sta facendo un appello al potere della collaborazione umana e ora è il momento di farsi coinvolgere. Unisciti a noi!

La ricerca di intelligenza extraterrestre non è un esercizio "bello, ma non importante", è un programma che spera di definire il nostro posto dell'uomo nell'Universo. La nostra è l'unica vita intelligente nell'Universo oppure bisogna  solo aspettare di puntare correttamente lo strumento corretto del SETI per entrare in ascolto sulla frequenza giusta?

Più a lungo l'ATA rimarrà in ascolto, prima riusciremo a rispondere al più grande enigma dell'umanità".


Ricordiamo brevemente cosa è il SETI e cosa ha fatto negli anni della sua storia.


SETI, indica l'abbreviazione inglese di Search for Extra-Terrestrial Intelligence (Ricerca di Intelligenza Extraterrestre), ed è nato per cercare la presenza di vita intelligente extraterrestre, abbastanza evoluta da poter inviare segnali radio nel cosmo.
Il programma si occupa anche di inviare segnali della nostra presenza ad eventuali altre civiltà in grado di captarli (SETI attivo).

Il SETI Institute, fu proposto nel 1960 da Frank Drake (tuttora uno dei suoi direttori), è nato ufficialmente nel 1974. È un'organizzazione scientifica privata, senza scopi di lucro. La sede centrale è a Mountain View, in California.

Scandagliare l'intero cielo non è un'operazione difficile ma si deve anche considerare la complicazione di dover sintonizzare il ricevitore sulla frequenza giusta, esattamente come si fa cercando una stazione radio. Anche in questo caso per restringere il campo d'indagine si può ragionevolmente presupporre che il segnale venga trasmesso su una banda stretta, perché sarebbe altrimenti molto oneroso in termini di energia utilizzata per chi lo trasmette. Questo significa però che per ogni punto del cielo occorre provare a captare tutte le possibili frequenze che arrivano ai nostri ricevitori.

Inoltre, un eventuale segnale radio alieno potrebbe esere disturbato da rumori di fondo e da interferenze cosmiche.

Al di sotto di 1 gigahertz, la radiazione di sincrotrone emessa dagli elettroni in movimento nei campi magnetici delle galassie tende a coprire le altre sorgenti radio. Sopra i 10 gigahertz invece esse subirebbero l'interferenza dovuta al rumore prodotto dalle molecole di acqua e dagli atomi di ossigeno della nostra atmosfera. Anche se mondi alieni avessero atmosfere molto diverse, effetti di rumore quantistico rendono comunque difficile costruire apparecchi riceventi capaci di operare a frequenze superiori ai 100 gigahertz.

L'estremità inferiore di questa "finestra di microonde" è particolarmente adatta per le comunicazioni, dato che a frequenze inferiori è generalmente più semplice produrre e ricevere segnali. Le frequenze più basse sono inoltre preferibili a causa dell'effetto Doppler dovuto ai moti planetari.

Cocconi e Morrison hanno segnalato come particolarmente interessante la frequenza di 1,420 gigahertz. È la frequenza emessa dall'idrogeno neutro. Spesso i radioastronomi cercano segnali di questa frequenza per poter mappare le nubi di idrogeno interstellare della nostra galassia; quindi la trasmissione di un segnale di frequenza simile a quella dell'idrogeno aumenta le probabilità che esso possa venire captato per caso.

Gli entusiasti di SETI chiamano a volte questa frequenza watering hole, ovvero il luogo dell'abbeverata, dove gli animali si incontrano per bere.

Ad eccezione del segnale Wow!, gli esperimenti SETI condotti fino ad ora non hanno rilevato nulla che possa somigliare ad un segnale di comunicazione interstellare. Per dirla con le parole di Frank Drake, del SETI Institute: "Ciò di cui siamo certi è che il cielo non è ingombro di potenti trasmettitori a microonde".

Tra gennaio e febbraio 2011 il SETI segnala però la ricezione di 2 segnali "non naturali" e "di probabile origine exraterrestre"[5], puntando le antenne su 50 candidati pianeti scoperti pochi mesi prima dalla missione Missione Kepler. Non essendosi più ripetuti i segnali, si suppone che fossero dovuti a interferenze terrestri. Tuttavia il SETI continuerà ad osservare quella regione di cielo su altre frequenze radio.

I risultati fin qui negativi pongono limiti sulla prossimità di certe "classi" di civiltà aliene, dove con il termine classe si fa riferimento alla cosiddetta scala di Kardašev, proposta dal ricercatore SETI sovietico Nikolaj S. Kardašev nei primi anni sessanta ed in seguito espansa da Carl Sagan. In questa classificazione, una civiltà è detta di "tipo I" se è in grado di sfruttare l'energia solare che cade su un pianeta di tipo terrestre per produrre un segnale interstellare; una di "tipo II" è in grado di utilizzare l'energia di un'intera stella; una di "tipo III" è in grado di fare uso di una galassia intera. Valori intermedi vengono assegnati tramite una scala logaritmica.

Assumendo che una civiltà aliena stia effettivamente trasmettendo un segnale che noi siamo in grado di ricevere, le ricerche finora eseguite escludono la presenza di una civiltà di "tipo I" nel raggio di 1.000 anni luce, benché possano esistere molte civiltà paragonabili alla nostra entro poche centinaia di anni luce che sono rimaste inosservate.

ALLEN TELESCOPE ARRAY
L'Allen Telescope Array è un radiotelescopio multiplo interferometrico situato nella contea di Shasta in California, frutto di una collaborazione tra il SETI e l' Università di Berkeley.

È intitolato a Paul Allen, co-fondatore della Microsoft e principale finanziatore della realizzazione di questo progetto.

Entrato in funzione in ottobre 2007, è costituito attualmente da 42 paraboloidi di 6,10 metri di diametro, ampliato a fine 2010 con 350 elementi disposti su un'area di 1 km di diametro, funzionanti come un unico radiotelescopio interferometrico. A progetto ultimato, la sensibilità complessiva è diventata equivalente a quella di un radiotelescopio di 100 metri di diametro.

È stato progettato in particolare per tenere sotto osservazione migliaia di stelle alla ricerca di segnali extraterrestri, di potenza simile a quelli generati dal radiotelescopio di Arecibo. La banda passante sarà da circa 1 GHz a 25 GHz.

Il progetto è stato "congelato" nell'aprile 2011 a causa dei tagli di bilancio del governo USA e dell'Università di Berkeley, che hanno ridotto i finanziamenti a un decimo di quanto richiesto. come già detto, il SETI Institute sta cercando di ottenere i fondi per la riattivazione con sottoscrizioni pubbliche e con collaborazioni con le forze armate statunitensi.


Traduzione e adattamento a cura di Arthur McPaul


Fonte:
http://news.discovery.com/space/seti-needs-our-help-to-catch-an-alien-110624.html

La Materia Oscura Potrebbe Scaldare Gli Esopianeti


La materia oscura non è forse la prima cosa che viene in mente quando si considera il modo in cui la vita potrebbe essere sostenuta su un altro pianeta, ma a Dan Hooper e Jason Steffen del Centro Fermilab di astrofisica delle particelle, la materia oscura potrebbe essere un fattore determinante nel permettere la vita di evolversi e sopravvivere su mondi lontani al di fuori del nostro Sistema Solare.

Gli scienziati propongono che le particelle di materia oscura potrebbeeo affondare fino al nucleo di un pianeta e attraverso l'annientamento della materia, rilasciare energia sufficiente per mantenere la sua superficie abbastanza calda per mantenere l'acqua allo stato liquido, anche al di fuori della tradizionale zona abitabile.


La materia oscura è stata postulata nel 1933 da Fritz Zwicky e poi di nuovo nel 1970 da Vera Rubin, per tenere conto delle prove sulla 'massa mancante' nelle velocità orbitali delle galassie negli ammassi e per le stelle ai bordi delle galassie.
La materia oscura è dedotta dall'esistenza dai suoi effetti gravitazionali sulla materia visibile e sulle radiazione di fondo, ma non emette luce visibile e non interagisce con qualsiasi altro problema se non per la sua gravità.

Nonostante l'evidenza sfuggente della sua esistenza, è stato ipotizzato che sia circa il 23 per cento della composizione dell'Universo (il resto, è per il 4 per cento materia "normale" e per il 73 per cento energia oscura, che è la forza sconosciuta che guida l'espansione e l'accelerazione dell'Universo).
La materia oscura si ritiene che possa influenzare l'evoluzione dell'Universo gravitazionalmente, anche se gli scienziati sono ancora all'oscuro di quello che in realtà è.

"Il motivo per cui non si vede direttamente è che essa è costituita da materiale debolmente interagente", afferma Hooper. Egli è l'autore di un documento presentato all'Astrophysical Journal intitolato "Materia Oscura e l'abitabilità dei pianeti", che descrive una teoria della materia oscura (le particelle massive debolmente interagenti, o WIMP).

"Per questo motivo, non interagisce, ed è fondamentalmente inerte e quindi non produce molta energia utilizzabile".
Si ritiene che il centro galattico della Via Lattea contenga un'alta densità di materia oscura.
Tuttavia, Hooper e Steffen hanno suggerito che l'energia che viene dalla materia oscura possa tenere gli esopianeti caldi.


Alcune parti della galassia, in particolare il centro galattico, così come i nuclei di galassie nane che sono satelliti della nostra Via Lattea, contengono una concentrazione molto più elevata di materia oscura (dell'ordine di centinaia o migliaia di volte più densa) rispetto alla regione dello spazio vicino al nostro Sole. Hooper e Steffen hanno calcolato che la materia oscura disperde particelle di materia con i nuclei atomici all'interno del nucleo dei pianeti rocciosi, perdendo slancio legandosi gravitazionalmente per si depositarsi sul nucleo del pianeta, dove si annichila e rilascia energia.
"Se una particella di materia oscura passa attraverso un pianeta, c'è una possibilità che si scontri con un atomo e perda un pó della sua velocità e quantità di moto", spiega Hooper. "Una volta che questo accade, invece di volare nello spazio ancora una volta, può unirsi al pianeta grazie alla forza di gravità e una volta che ciò accade, non ci vorrebbe molto tempo per le particelle di materia oscura a cadere nel nucleo del pianeta, dove rimarranno".
Come per le regioni nello spazio ricche di materia oscura, si puó riaaccumulare dentro le "super-Terre" (quei pianeti rocciosi con masse diverse volte quella del nostro pianeta) per fornire energia sufficiente a mantenere la superficie abbastanza calda per acqua liquida.

Questo vale anche molto al di fuori della zona abitabile della stella, dove di solito le temperature, tra l'altro, non permettono all'acqua di rimanere come un liquido sulla superficie del pianeta, una condizione essenziale per la vita come noi la conosciamo.
In linea di principio, la materia oscura potrebbe ampliare la zona abitabile e aumentare il numero di luoghi in cui potremmo trovare la vita.


Tuttavia questo potrebbe essere troppo bello per essere vero. "Sono dubbioso su come la materia oscura possa riscaldare davveeo i pianeti", dice Lewis astrobiologo Dartnell dell'University College di Londra.
"Anche se il loro modello è coerente con alcune teorie sulla natura e sulla distribuzione della materia oscura, sembra fare appello a un insieme piuttosto speciale di condizioni. E tali pianeti rari sarebbero praticamente impossibili da individuare nella realtà".

Tuttavia, con miliardi di pianeti previsti che esistano nella nostra galassia, sembra possibile che alcuni possano beneficiare della materia oscura e questi mondi sarebbero molto diversi dalla Terra.

"La vita su un pianeta riscaldato dalla materia oscura sarebbe probabilmente molto diversa da quella della vita sulla Terra," afferma Hooper. "Molte specie viventi sulla Terra, per esempio, si sono evolute per raccogliere l'energia dalla luce solare. Su un pianeta scaldato dalla materia oscura l'energia potrebbe venire dal centro del pianeta, e la vita avrebbe dovuto trovare altri modi per utilizzarla".

Il calore fornito dall'annichilazione della materia oscura, spiegato da Hooper e Steffen nel loro articolo, potrebbe mantenere un pianeta abitabile per migliaia di miliardi di anni, anche oltre la durata della sua stella.
Nonostante il suo scetticismo, Dartnell riconosce l'importanza del lavoro di Hooper e Steffen. "E' un'idea intrigante e l'astrobiologia come disciplina ha bisogno di un input fresco e idee coraggiose come questa".


Traduzione e adattamento a cura di Arthur McPaul


Fonte:
http://www.astrobio.net/exclusive/4048/how-to-keep-lonely-exoplanets-snug-–-just-add-dark-matter-

domenica 26 giugno 2011

L'Ora Di Vesta Si Avvicina


Le prime immagini a risoluzione maggiore di un pixel riprese dallo spettrometro VIR nella luce visibile e nell'infrarosso dell'asteroide Vesta. Le riprese, che hanno una risoluzione di circa 90 km per pixel, sono state effettuate l'8 giugno scorso, quando la sonda Dawn era a circa 351.000 km dal corpo celeste. Crediti: NASA/JPL-Caltech/UCLA/ASI/INAF

Dopo quasi quattro anni di viaggio e la bellezza di 2,7 miliardi di chilometri percorsi, la sonda della NASA Dawn (Alba, in inglese)  ha praticamente raggiunto, in perfetta tabella di marcia, l’asteroide Vesta.  Ora la sonda è a poco più di 150.000 chilometri dal corpo celeste. L’inserimento nell’orbita di Vesta è ormai alle porte: il 16 luglio prossimo Dawn verrà ‘catturata’ da Vesta e si troverà a solo 16.000 chilometri da esso, un valore appena maggiore della misura del diametro della Terra.


Al centro di controllo di Pasadena del Jet Propulsion Laboratory, che segue la missione, si respira un’atmosfera serena e allo stesso tempo carica di attese per l’imminente avvio della piena fase operativa: “La sonda è in perfetta traiettoria verso il suo obiettivo. Non vediamo l’ora di esplorare questo mondo sconosciuto con Dawn” dice Robert Mase, project manager della missione.
Intanto prosegue a pieno ritmo e, anche in questo caso nel migliore dei modi, il collaudo e la calibrazione degli strumenti a bordo della sonda, che stanno inviando immagini che, seppur prese a distanze ragguardevoli, sono già molto interessanti dal punto di vista scientifico. La  definizione della camera è infatti già due volte migliore di quelle prese dal telescopio spaziale Hubble.

Anche le ultime riprese di VIR (Visible and Infrared Mapping Spectrometer), lo spettrometro ad immagini nel visibile e nel vicino infrarosso sono già ricche di informazioni per gli scienziati coinvolti. Derivato dallo strumento VIRTIS a bordo della missione Rosetta, VIR è stato fornito dall’ Agenzia Spaziale Italiana (ASI) e realizzato con la guida scientifica del’INAF.

“Stiamo vivendo un periodo entusiasmante, che ci ripaga per anni di lavoro” commenta con soddisfazione Angioletta Coradini dell’INAF-IFSI, responsabile del team dello strumento VIR. “Queste immagini ci mostrano Vesta così come appare a due ben definite lunghezze d’onda nel visibile e nel vicino infrarosso. Noi siamo in grado di produrre immagini in ben 432 lunghezze d’onda sia nel visibile che nel vicino infrarosso, e questo ci permette di ricavare degli spettri che a loro volta ci permetteranno di studiare la composizione di questo corpo. ”

Da quando Dawn inizierà l’attività scientifica nella sua prima orbita di ricognizione,  a 2.700 chilometri da Vesta e successivamente, sempre più vicino, fino a circa 200 chilometri dalla superficie, VIR e gli altri suoi strumenti di bordo riverseranno a Terra una quantità enorme di immagini e misure dettagliatissime della struttura esterna del corpo celeste. E sarà proprio lo spettrografo italiano a ricostruire una mappa super dettagliata del suolo di Vesta e dei minerali che lo compongono.
“Quasi ogni giorno arrivano nuovi dati che ci mostrano Vesta sempre più indettaglio.

Il lavoro di interpretazione è già iniziato, e a breve saremo sicuramente in grado di dire qualcosa sulle proprietà della superficie di Vesta” sottolinea Maria Cristina De Sanctis, dell’INAF-IASF, vice responsabile del team dello strumento VIR. “Attendiamo con ansia il periodo in cui Dawn orbiterà a poche centinaia di chilometri dalla sua superficie, e lo spettrometro VIR lavorerà praticamente di continuo.”

A cura di Marco Galliani


Fonte:  



sabato 25 giugno 2011

Un Incidente Cosmico


Un’equipe di scienziati ha studiato l’ammasso di galassie Abell 2744, detto Ammasso di Pandora. Hanno ricostruito la storia violenta e complessa dell’ammasso utilizzando telescopi sia in orbita che a terra, tra cui il VLT (Very Large Telescope) dell’ESO e il telescopio spaziale Hubble. Abell 2744 sembra essere il risultato di un tamponamento a catena di almeno quattro diversi ammassi di galassie; questo scontro complesso ha prodotto strani effetti che non erano mai stati visti prima tutti insieme.

Quando enormi ammassi di galassie si scontrano, lo scompiglio che ne risulta è una miniera di informazioni per gli astronomi. Studiando uno dei più complessi e insoliti ammassi in collisione, un’equipe internazionale di astronomi ha ricostruito la storia di un incidente cosmico durato circa 350 milioni di anni.

Julian Merten, uno dei principali autori di questo nuovo studio dell’ammasso Abell 2744, spiega: “Come un detective che cerca di ricostruire le cause di un incidente, possiamo utilizzare le osservazioni di queste resti cosmici per ricostruire gli eventi accaduti in un periodo durato centinaia di milioni di anni. Questa indagine può a sua volta svelare come si formano le strutture nell’Universo e come diversi tipi di materia interagiscano gli uni con gli altri quando si schiantano.”

“L’abbiamo soprannominato l’ammasso di Pandora perchè tanti fenomeni diversi sono stati scatenati dalla collisione. Alcuni di questi fenomeni addirittura non erano mai stati visti in precedenza.” aggiunge Renato Dupke, un altro membro dell’equipe.

Abell 2744 è stato studiato ora con una minuzia mai raggiunta prima, combinando i dati del VLT (Very Large Telescope) dell’ESO, del telescopio giapponese Subaru, del telescopio spaziale Hubble della NASA/ESA e del telescopio per raggi X Chandra della NASA. 

Le galassie dell’ammasso sono chiaramente visibili nelle immagini del VLT e di Hubble. Anche se le galassie sono brillanti costituiscono meno del 5% della massa totale. Il resto è gas (circa il 20%), così caldo che risplende solo nella banda dei raggi X, e materia oscura (circa il 75%), completamente invisibile. Per capire cosa fosse accaduto durante lo scontro, l’equipe aveva bisogno di ricostruire la posizione di tutti e tre i tipi di materia in Abell 2744.  

La materia oscura è particolarmente sfuggente, poichè non emette, non assorbe e non riflette la luce (da ciò il suo nome), ma si mostra solo attraverso l’interazione gravitazionale. Per localizzare questa sostanza misteriosa l’equipe ha sfruttato un fenomeno noto come “lente gravitazionale”. I raggi di luce emessi da galassie distanti vengono infatti curvati attraversando il campo gravitazione dell’ammasso, come se attraversassero una lente. Il risultato è una serie di distorsioni rivelatorie nelle immagini delle galassie di fondo nelle osservazioni di VLT e Hubble. Tracciando esattamente il modo in cui queste immagini vengono distorte è possibile descrivere accuratamente dove si trova la massa nascosta – e di conseguenza la materia oscura.

In rapporto a questo, trovare il gas caldo è molto più semplice, poichè l’Osservatorio Chandra per raggi X della NASA può osservarlo direttamente. Queste osservazioni sono fondamentali non solo per trovare dove si nasconde il gas, ma anche per mostrare angoli e velocità delle diverse componenti dell’ammasso prima dello scontro.

Quando gli astronomi studiarono i risultati trovarono molte caratteristiche curiose. “Abell 2744 sembra essersi formato da quattro diversi ammassi coinvolti in una serie di scontri in un periodo di circa 350 milioni di anni. La distribuzione complicata e diseguale dei diversi tipi di materia è molto rara e affascinante”, dice Dan Coe, l’altro autore principale dello studio.

Sembra che le collisioni complesse abbiano isolato parte del gas caldo e della materia oscura così che essi ora sono separati sia tra loro che dalle galassie visibili. L’ammasso di Pandora unisce diversi fenomenti che sono stati visti finora solo individuamente in altri sistemi.

Vicino al centro dell’ammasso c’è una “proiettile”, dove il gas di un ammasso si è scontrato con quello di un altro e ha creato un’onda d’urto. La materia oscura è passata attraverso lo scontro senza danni [1].
In un’altra zona dell’ammasso apparentemento si trovano galassie e materia oscura, ma niente gas caldo. Il gas potrebbe essere stato rimosso durante la collisione, lasciando dietro di sè solo una debole traccia.

Nelle parti più esterne dell’ammasso si trovano caratteristiche ancora più strane. Una regione contiene moltissima materia oscura, ma nessuna galssia o gas caldo. Un grumo spettrale di gas caldo è stato espulso e questo precede invece che seguire la materia oscura associata. Questo incomprensibile assetto potrebbe svelare agli astronomi qualcosa a proposito del comportamento della materia oscura e di come i vari ingredienti dell’Universo interagisono tra di loro.

Gli ammassi di galassie sono le più grandi strutture del cosmo: contengono bilioni di stelle. Il modo in cui si formano e si sviluppano attraverso scontri ripetuti ha profonde ricadute sulla nostra comprensione dell’Universo. Sono in corso ulteriori studi dell’Ammasso di Pandora, il più complicato e affascinante prodotto di una fusione mai scoperto.

Note
[1] Questo effetto era stato visto prima in alcuni ammassi di galassie, tra cui l’originale, il ”cluster proiettile”, 1E0657-56.

Ulteriori Informazioni
Questa ricerca viene descritta in un articolo intitolato “Creazione di strutture cosmiche nel complesso ammasso di galassie in interazione Abell 2744”, in via di pubblicazione nella rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.

L’equipe è formata da J. Merten (Institute for Theoretical Astrophysics, Heidelberg, Germania; INAF-Osservatorio Astronomico di Bologna, Italia), D. Coe (Space Telescope Science Institute, Baltimore, USA), R. Dupke (University of Michigan, USA; Eureka Scientific, USA; National Observatory, Rio de Janeiro, Brasilel), R. Massey (University of Edinburgh, Scozia), A. Zitrin (Tel Aviv University, Israele), E.S. Cypriano (University of Sao Paulo, Brasile), N. Okabe (Academia Sinica Institute of Astronomy and Astrophysics, Taiwan), B. Frye (University of San Francisco, USA), F. Braglia (University of British Columbia, Canada), Y. Jimenez-Teja (Instituto de Astrofisica de Andalucia, Granada, Spagna), N. Benitez (Instituto de Astrofisica de Andalucia), T. Broadhurst (University of Basque Country, Spagna), J. Rhodes (Jet Propulsion Laboratory/Caltech, USA), M. Meneghetti (INAF-Osservatorio Astronomico di Bologna, Italia), L. A. Moustakas (Caltech, USA), L. Sodre Jr. (University of Sao Paulo, Brasile), J. Krick (Spitzer Science Center/IPAC/Caltech, USA) and J. N. Bregman (University of Michigan, USA).

L’ESO (European Southern Observatory) è la principale organizzazione intergovernativa di Astronomia in Europa e l’osservatorio astronomico più produttivo al mondo. È sostenuto da 15 paesi: Austria, Belgio, Brasile, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Olanda, Portogallo, Repubblica Ceca, Spagna, Svezia, e Svizzera. L’ESO svolge un ambizioso programma che si concentra sulla progettazione, costruzione e gestione di potenti strumenti astronomici da terra che consentano agli astronomi di realizzare importanti scoperte scientifiche. L’ESO ha anche un ruolo di punta nel promuovere e organizzare la cooperazione nella ricerca astronomica. L’ESO gestisce tre siti osservativi unici al mondo in Cile: La Silla, Paranal e Chajnantor. Sul Paranal, l’ESO gestisce il Very Large Telescope, osservatorio astronomico d’avanguardia nella banda visibile e due telescopi per survey. VISTA, il più grande telescopio per survey al mondo, lavora nella banda infrarossa mentre il VST (VLT Survey Telescope) e’ il più grande telescopio progettato appositamente per produrre survey del cielo in luce visibile. L’ESO è il partner europeo di un telescopio astronomico di concetto rivoluzionario, ALMA, il più grande progetto astronomico esistente. L’ESO al momento sta progettando l’European Extremely Large Telescope o E-ELT (significa Telescopio Europeo Estremamente Grande), di 40 metri, che opera nell'ottico e infrarosso vicino e che diventerà “il più grande occhio del mondo rivolto al cielo”


Contatti
Anna Wolter
INAF-Osservatorio Astronomico di Brera
Milano, ITALY
Tel: +39 02 72320321
e-mail: anna.wolter@brera.inaf.it

Julian Merten
Institute for Theoretical Astrophysics
Heidelberg, Germany
Tel: +49 6221 54 8987
e-mail: jmerten@ita.uni-heidelberg.de

Daniel Coe
Space Telescope Science Institute
Baltimore, USA
Tel: +1 410 338 4312
e-mail: dcoe@stsci.edu

Richard Hook
ESO, La Silla, Paranal, E-ELT and Survey Telescopes Public Information Officer
Garching bei München, Germany
Tel: +49 89 3200 6655
e-mail: rhook@eso.org

Oli Usher
Hubble/ESA
Garching, Germany
Tel: +49 89 3200 6855
e-mail: ousher@eso.org


Fonte:  
 


venerdì 24 giugno 2011

Fiamme Da Betelgeuse


Betelgeuse, una supergigante rossa nella costellazione di Orione, é una delle stelle più brillanti del cielo notturno. É anche una delle più grandi, la sua dimensione infatti raggiunge quasi quella dell’orbita di Giove – circa quattro volte e mezza il diametro dell’orbita della Terra. L’immagine del VLT mostra la nebulosa che la circonda, molto più grande della stella stessa, che si estende fino a 60 miliardi di chilometri dalla superficie della stella, circa 400 volte la distanza della Terra dal Sole.

Le supergiganti rosse come Betelgeuse rappresentano una delle ultime fasi della vita una stella massiccia. In questa fase molto breve la stella aumenta di dimensione spingendo gli strati esterni nello spazio a un tasso molto rapido – si spoglia di immense quantità di materiale (all’incirca equivalente alla massa del Sole) in soli 10 000 anni.

Il nuovo risultato mostra che i pennacchi vicini alla stella sono probabilmente collegati con le strutture della parte esterna della nebulosa ora fotografata nell’infrarosso con VISIR. La nebulosa non può essere vista nella banda ottica perché la luminosità della stella stessa la eclissa. La forma irregolare e asimmetrica del materiale indica che la stella non ha perso i suoi strati in modo simmetrico. Le bolle di materiale stellare e i pennacchi giganti da esse prodotti potrebbero essere la causa dell’aseptto grumoso della nebulosa.

Il materiale che si vede in questa nuova immagine é molto probabilmente polvere di silicati e allumina. É lo stesso materiale che forma la gran parte della crosta terrestre e di quella di altri pianeti rocciosi. In qualche momento di un distante passato i silicati della Terra sono stati prodotti da una stella massiccia (e ora estinta) molto simile a Betelgeuse

In questa immagine composita le osservazioni di NACO dei pennacchi sono riprodotte nel disco centrale, il cerchio rosso piccolo nel centro ha un diametro di circa quattro volte e mezzo l’orbita della Terra e indica la posizione della superficie visibile di Betelgeuse. Il disco nero corrisponde a una zona molto brillante dell’immagine che é stata mascherata per permettere di vedere la nebulosa che é molto debole. Le immagini di VISIR sono state ottenute attraverso filtri infrarossi sensibili a radiazioni di diversa lunghezza d’onda, con il blu che corrisponde a onde più corte e il rosso alle più lunghe. Il campo di vista é 5.63 x 5.63 arcosecondi.

Note
[1] NACO é uno strumento del VLT che combina il sistema NAOS (Nasmyth Adaptive Optics System) e lo spettrografo CONICA (Near-Infrared Imager and Spectrograph). Fornisce immagini con ottica adattiva assistita, polarimetria di immagine, coronografia e spettroscopia, tutto nella banda infrarossa.

Ulteriori Informazioni
Questa ricerca é stata presentata in un articolo scientifico che verrà pubblicato dalla rivista Astronomy & Astrophysics.

L’equipe é composta da P. Kervella (Observatoire de Paris, Francia), G. Perrin (Observatoire de Paris), A. Chiavassa (Université Libre de Bruxelles, Belgio), S. T. Ridgway (National Optical Astronomy Observatories, Tucson, USA), J. Cami (University of Western Ontario, Canada; SETI Institute, Mountain View, USA), X. Haubois (Universidade de Sao Paulo, Brasile) and T. Verhoelst (Instituut voor Sterrenkunde, Leuven, Olanda).

L’ESO (European Southern Observatory) è la principale organizzazione intergovernativa di Astronomia in Europa e l’osservatorio astronomico più produttivo al mondo. È sostenuto da 15 paesi: Austria, Belgio, Brasile, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Olanda, Portogallo, Repubblica Ceca, Spagna, Svezia, e Svizzera. L’ESO svolge un ambizioso programma che si concentra sulla progettazione, costruzione e gestione di potenti strumenti astronomici da terra che consentano agli astronomi di realizzare importanti scoperte scientifiche. L’ESO ha anche un ruolo di punta nel promuovere e organizzare la cooperazione nella ricerca astronomica. L’ESO gestisce tre siti osservativi unici al mondo in Cile: La Silla, Paranal e Chajnantor. Sul Paranal, l’ESO gestisce il Very Large Telescope, osservatorio astronomico d’avanguardia nella banda visibile e due telescopi per survey. VISTA, il più grande telescopio per survey al mondo, lavora nella banda infrarossa mentre il VST (VLT Survey Telescope) e’ il più grande telescopio progettato appositamente per produrre survey del cielo in luce visibile. L’ESO è il partner europeo di un telescopio astronomico di concetto rivoluzionario, ALMA, il più grande progetto astronomico esistente. L’ESO al momento sta progettando l’European Extremely Large Telescope o E-ELT (significa Telescopio Europeo Estremamente Grande), di 40 metri, che opera nell'ottico e infrarosso vicino e che diventerà “il più grande occhio del mondo rivolto al cielo”.


Fonte:  



HoloGrav Per La Comprensione Profonda Dell'Universo


I fisici presso l'Università di Southampton stanno iniziando un nuovo progetto di ricerca che si propone di migliorare la nostra comprensione dell'Universo e del materiale presente al suo interno, sperando che il loro lavoro permetterà predizioni migliori  in diversi sistemi matematici come le collisioni al Large Hadron Collider, o lo sviluppo di superconduttori a temperatura ambiente, che potrebbero fornire potenza per super-efficienti circuiti elettronici.

Il programma quinquennale, dal titolo "Metodi olografici per i sistemi fortemente accoppiati (HoloGrav)", è una collaborazione tra i fisici di 13 paesi della UE, tra cui l'Università di Southampton, il CERN, e l'Ecole Normale Supérieure in Francia. 

I team di scienziati useranno le loro esperienza di leader mondiali in finezza / gravità per esplorare nuovi materiali fortemente accoppiati che al momento non capiscono, sia nelle applicazioni delle particelle che nella fisica della materia condensata.

L'originale teoria della "dualità gauge / gravità" proposta nel 1997 da Juan Maldacena ha innescato un importante progresso nella fisica teorica, suggerendo una teoria di gauge del tipo che descrive la forza nucleare forte e una teoria delle stringhe, che comprende la gravità.

Secondo Nick Evans, docente di fisica teorica delle alte energie presso l'Università di Southampton, le implicazioni della dualità gauge / gravità per le teorie quantistiche sono di vasta portata e questa nuova ricerca potrebbe permettere ai fisici di esplorare questioni importanti nella fisica dei buchi neri come le grandi questioni, se una doppia teoria è la migliore descrizione della gravità quantistica in natura.

"Stiamo iniziando a capire che la gravità quantistica è legata ad altre forze", ha detto il professor Evans. "Vogliamo inoltre capire la  cromodinamica quantistica (la spiegazione teorica delle particelle nei nuclei degli atomi). Al momento non si comprendono questi materiali, ma una migliore comprensione potrebbe essere cruciale per la nostra conoscenza dell'Universo e della sua evoluzione e potrebbe anche permetterci di fare previsioni matematiche migliori".

Oltre ad affrontare queste domande sulla natura della materia nell'Universo, il programma Holograv fornirà un forte approcio a queste materie per la comunità di studenti universitari d'Europa. Il progetto ha appena ricevuto £ 451.000 dalla Fondazione europea della scienza (FES) e convoca la prima riunione il 29 giugno.


Adattamento e traduzione a cura di Arthur McPaul

Fonte:  



Dai Campioni Di Genesis Evidenziate Sostanziali Differenze Del Sistema Solare Interno


I ricercatori della NASA hanno analizzato campioni di ritorno dalla missione Genesis del 2004 scoprendo che il nostro Sole ed i suoi pianeti interni possono essersi formati in modo diverso rispetto a quanto si pensasse.

I dati hanno rivelato differenze tra il Sole e pianeti nell'ossigeno e nell'azoto, che sono due degli elementi più abbondanti nel nostro Sistema Solare. Anche se la differenza è lieve, le implicazioni potrebbero contribuire a determinare come il nostro Sistema Solare si è evoluto.

"Abbiamo scoperto che la Terra, la Luna, così come i meteoriti marziani e altri campioni di asteroidi, hanno una concentrazione più bassa della O-16 rispetyo al Sole", ha dichiarato Kevin McKeegan, un ricercatore di GENESIS presso la UCLA, e autore principale di uno dei due articoli pubblicati Science di questa settimana. 
"L'implicazione è che non abbiamo sono gli stessi materiali della nebulosa solare che ha creato il Sole. Il come e il perché resta ancora da scoprire".

L'aria sulla Terra contiene tre diversi tipi di atomi di ossigeno che si differenziano per il numero di neutroni che contengono. Quasi il 100 per cento di atomi di ossigeno nel Sistema Solare sono composti da O-16, ma ci sono anche piccole quantità di isotopi di ossigeno più esotici chiamati O-17 e O-18. I ricercatori che studiano i campioni riportati da GENESIS hanno scoperto che la percentuale di O-16 del Sole è leggermente superiore a quella sulla Terra o su altri pianeti terrestri. Le percentuali degli isotopi di altri campioni sono stati leggermente inferiori.

Un'altra delle differenze tra il Sole e pianeti è nell'azoto.
Come per l'ossigeno, l'azoto è un isotopo, N-14, che contribuisce per quasi il 100 per cento degli atomi del Sistema Solare, ma c'è anche una piccola quantità di N-15. I ricercatori che studiano gli stessi campioni dell'atmosfera terrestre, l'azoto del sole e di Giove hanno poco più N-14, ma il 40 per cento in meno di N-15. 
Sia il Sole e Giove sembrano avere la stessa composizione di azoto. Come nel caso dell'ossigeno, la Terra e il resto del Sistema Solare interno sono molto diversi nella percentuale di azoto.

"Questi risultati mostrano che tutti gli oggetti del Sistema Solare compresi i pianeti terrestri, i meteoriti e le comete sono anomali rispetto alla composizione iniziale della nebulosa da cui il Sistema Solare si è formato", ha dichiarato Bernard Marty, un co-ricercatore di GENESIS dal Centre de Recherches et Pétrographiques Géochimiques e autore principale dello studio. "Comprendere la causa di tale eterogeneità avrà un impatto sul nostro punto di vista sulla formazione del Sistema Solare".

I dati sono stati ottenuti dalle analisi dei campioni raccolti nel vento solare dalla sonda GENESIS o dal materiale espulso dalla parte esterna del Sole. Questo materiale può essere pensato come un fossile della nostra nebulosa a causa della preponderanza di prove scientifiche che indicano come lo strato esterno del nostro Sole non è cambiato in maniera misurabile per miliardi di anni.

"Il Sole ospita più del 99 per cento del materiale attualmente presente nel nostro Sistema Solare, quindi è una buona idea studiarlo meglio", ha detto il Genesi Principal Investigator Don Burnett del California Institute of Technology di Pasadena, in California.
"Anche se è stato più impegnativo del previsto, abbiamo risposto ad alcune domande importanti, e come tutte le missioni di successo, altre ne sono sorte".

GENESIS era stato lanciato nell'agosto 2000. La navicella spaziale ha viaggiato al punto di Lagrange L1 della Terra a circa 1 milione di chilometri, dove rimase per 886 giorni tra il 2001 e il 2004, passivamente, raccogliendo campioni di vento solare.


L'8 settembre del 2004, la sonda ha rilasciato una capsula di ritorno del campione, che è entrata nell'atmosfera terrestre. Anche se la capsula effettuò un atterraggio duro a causa di un paracadute difettoso (foto in alto), è stato il primo campione riportato a terra dalla NASA, dopo la missione lunare Apollo nel 1972, e il primo materiale raccolto al di là della Luna. 


Adattamento e traduzione a cura di Arthur McPaul

Fonte:  
 


giovedì 23 giugno 2011

Altre Prove Confermano Oceano Sotto La Superficie Di Encelado


La sonda Cassini della NASA ha scoperto la migliore prova per dimostrare la presenza di un grande serbatoio di acqua salata sotto la crosta ghiacciata della luna di Saturno, Encelado.

I dati provengono da un'analisi diretta dei grani di ghiaccio ricchi di sale nei pressi dei getti espulso dalla luna.

I dati che hanno analizzato la polvere cosmica mostrano i granelli espulsi dalle fessure, note come strisce di tigre, sono relativamente piccoli e soprattutto a basso contenuto di sale. 
Ma più vicino alla superficie, Cassini ha scoperto che i grani relativamente grandi sono  ricchi di sodio e potassio. Il sale ricco di particelle ha una composizione tipo quella dell'oceano e indica che la maggior parte, se non tutto, del ghiaccio e vapore acqueo espulso proviene dall'evaporazione di acqua salata liquida. 
I risultati appaiono sulla rivista Nature.

    


La missione Cassini scoprì i getti di vapore acqueo su Encelado nel 2005. 
Nel 2009, gli scienziati che lavoravano con l'analizzatore di polvere cosmica esaminarono alcuni sali di sodio trovati in grani di ghiaccio bell'anello E di Saturno, l'anello più esterno che prende il materiale principalmente dagli stessi getti di Encelado. 
Ma il sito di provenienza dell'acqua salata nel sottosuolo non è stato definitivamente accertato.
Il nuovo documento analizza tre flyby di Encelado con Cassini nel 2008 e nel 2009 con lo stesso strumento, concentrandosi sulla composizione dei grani espulsi dal pennacchio. Le particelle di ghiaccio che hanno colpito il bersaglio rilevatore alla velocità tra i 23.000 e i 63.000 chilometri all'ora si sono vaporizzati istantaneamente. I campi elettrici all'interno dell'analizzatore di polvere cosmica hanno separato i diversi elementi costitutivi della nube da impatto.

 

I dati suggeriscono la presenza di uno strato di acqua tra il nucleo roccioso della luna e il suo mantello di ghiaccio, forse più profondamente a circa 80 chilometri sotto la superficie.
Mentre l'acqua scorre contro le rocce, dissolve i composti di sale presenti attraverso le fratture e forma riserve di ghiaccio sovrastante sulla superficie. 
Se avviene pressione tra lo strato più esterno delle fessure aperte si crea un pennacchio espulso all'esterno. Circa 200 chilogrammi di vapore acqueo vengono espulsi ogni secondo in pennacchi di grani di ghiaccio. Il team calcola che le riserve di acqua devono avere grandi superfici per l'evaporazione, altrimenti si sarebbero facilmente congelate e non sarebbero più evaporati.

"Questa scoperta è una nuova prova fondamentale che dimostra come le condizioni ambientali favorevoli alla comparsa della vita possono essere sostenute anche  su corpi ghiacciati in orbita a pianeti giganti di gas", ha detto Nicolas Altobelli, scienziato del progetto dell'Agenzia Spaziale Europea per Cassini.

Lo spettrografo agli ultravioletti di Cassini ha inoltre recentemente ottenuto altri risultati complementari che supportano la presenza di un oceano sotto la superficie. 

  

Un team di ricercatori guidato da Candice Hansen del Planetary Science Institute di Tucson, in Arizona, ha misurato le riprese di dei getti del polo sud della luna da cinque a otto volte la velocità del suono, cioè più di quanto precedentemente misurato.
Queste osservazioni dei getti da un flyby 2010, sono coerenti con i risultati che mostrano una differenza nella composizione dei grani di ghiaccio vicini alla superficie lunare e quelli che sono invece presenti nell'anello E. 

Questo documento è stato pubblicato nel numero del 9 giugno del Geophysical Research Letters.
"Senza un orbiter come Cassini, capace di volare vicino a Saturno e le sue lune assaporare i chicchi di ghiaccio e sale dei getti, gli scienziati non avrebbero mai saputo informazioni così interessanti su questi mondi del Sistema Solare esterno", ha detto Linda Spilker, del team NASA di  Cassini al Jet Propulsion Laboratory di Pasadena, in California


Adattamento e Traduzione a cura di Arthur McPaul

Fonte:  



mercoledì 22 giugno 2011

La Terra Nel Mirino Di Un Buco Nero



Così doveva apparire la stella, secondo i ricercatori dell’università di Warwick, quando un buco nero al centro d’una galassia a 3.8 miliardi di anni luce di distanza ha iniziato a distruggerla, producendo l’esplosione battezzata Sw 1644+57. Crediti: University of Warwick / Mark A. Garlick

Sulla sedia del regista c’è seduta solo lei, la fisica. Ma la sceneggiatura che le sue asettiche leggi hanno concepito, ripercorsa in due articoli in uscita domani su Science, è degna d’un film di Quentin Tarantino. Un horror che ha inizio 3.8 miliardi d’anni fa, quando una stellina incauta – grande grosso modo come il nostro Sole – vìola la soglia fra il quotidiano tran tran dei tempi cosmici e la catastrofe. È un’invisibile linea rossa, e demarca la zona di sicurezza attorno all’enorme buco nero situato al centro d’una galassia remota. Nell’esatto istante dello sconfinamento, scattano silenziosi i meccanismi inesorabili della forza di gravità. E per la malcapitata stellina non c’è più scampo. La morte è di quelle atroci, più da antilope nella savana che da palla di gas infocato nel vuoto interstellare: lacerata, fatta a pezzi e infine divorata dall’insostenibile attrazione gravitazionale del buco nero. Il quale, a banchetto ancora in corso, ha pensato bene di rigurgitare una parte del pasto in forma di radiazione gamma, generando un fascio collimato di potenza inimmaginabile rivolto esattamente verso la Terra.

Gli scienziati non ne hanno la certezza assoluta, ma dovrebbe essere andata più o meno così. «Al momento, la sola ipotesi che abbiamo per spiegare la dimensione, l’intensità, la scala temporale e il livello di fluttuazioni dell’evento che abbiamo osservato», dice infatti Andrew Levan, dell’Università di Warwick, primo autore di uno dei due paper, «è che un buco nero massiccio, nel cuore di quella galassia, abbia attratto una stella di grandi dimensioni e l’abbia fatta a pezzi per effetto della marea gravitazionale. Il buco nero rotante, a quel punto, ha generato due getti, uno dei quali puntato dritto dritto verso la Terra».

Quel che è certo è che il 28 marzo scorso, dopo un viaggio durato quasi quattro miliardi di anni, il gamma-ray flash Sw 1644+57 – questo il nome in codice del “proiettile” – ha colpito in pieno i sensori del satellite Swift della NASA (con partecipazione italiana e inglese), mettendo in stato d’allerta i cacciatori di lampi gamma di mezzo mondo. A quel punto è partita l’indagine, spiega Gianpiero Tagliaferri, ricercatore all’INAF-Osservatorio astronomico di Brera e responsabile italiano di Swift: «All’inizio è stato classificato come un GRB, un gamma-ray burst, l’atto finale della morte d’una stella massiccia. Ma dopo un paio di giorni si è notato che la sorgente rimaneva molto attiva, sia nella banda gamma sia soprattutto nella banda X. Quindi si è capito che non poteva essere un lampo di raggio gamma. Si è pensato, allora, che potesse essere un transiente nella nostra galassia. Successive osservazioni, però, hanno stabilito che si trattava di un evento avvenuto in un’altra galassia, lontana dalla nostra miliardi di anni luce».

I dati raccolti in un secondo tempo dallo Hubble Space Telescope e dall’osservatorio spaziale per raggi X Chandra hanno infatti rafforzato l’ipotesi, già suggerita dall’astrofisico di Berkeley Joshua Bloom ad appena tre giorni dalla prima rilevazione del flare, che non si trattava d’un classico GRB, bensì d’una porzione (circa il 10%) della massa d’una stella trasformata in energia da un buco nero, e irradiata in banda X dal suo disco d’accrescimento, o sotto forma di jet relativistico X e gamma allineato con il suo asse di rotazione. «Un evento esplosivo completamente diverso da tutti quelli visti prima», commenta ora Bloom, alla guida del team che ha curato il secondo paper uscito su Science.

Pur trovandoci esattamente al centro del mirino, in quest’occasione noi terrestri non abbiamo però corso alcun pericolo, garantisce Tagliaferri: «Con i gamma-ray burst, riceviamo fasci simili tutti i giorni, ma arrivano da distanze troppo grandi per comportare rischi. Certo, se un evento simile si fosse verificato con il buco nero al centro della nostra galassia, e fosse stato indirizzato verso di noi, avrebbe potuto anche distruggere la vita sulla Terra. Ma la probabilità che ciò avvenga è irrisoria». Così com’è completamente implausibile che sia il nostro Sole a far da antipasto al buco nero che si trova nel cuore della Via Lattea. «Il centro della galassia dista da noi circa diecimila parsec. Ora, un singolo parsec è più di tre anni luce, dunque stiamo parlando di distanze enormi. Pur muovendosi all’interno della galassia a velocità molto elevata, il Sole non andrà mai a finire vicino al buco nero centrale».


A cura di Marco Malaspina

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Un Anello Nella Via Lattea



Mappa realizzata dallo strumento PACS di Herschel con osservazioni alla lunghezza d'onda di 70 micron. L'immagine rivela una distribuzione estesa lungo il piano Galattico di polvere con temperature maggiori di -250 gradi centigradi. La zona più calda corrisponde a Sgr A* in cui è immerso il buco nero centrale della nostra Galassia. Sono anche indicate le regioni di formazione stellare Sgr B2 e Sgr C. (Immagine prodotta con la pipeline di analisi dati sviluppata all'IFSI con il contributo delle Università La Sapienza e Tor Vergata, e grazie al sostegno dell'ASI)

Ha una grandezza smisurata, circa 650 anni luce, e una massa di 30 milioni di masse solari. È un gigantesco anello, piuttosto deformato, composto da polveri e gas freddissimi, che circonda il buco nero al centro della nostra Galassia. A scoprirlo, i sensibilissimi ‘occhi’ dell’osservatorio spaziale Herschel dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA), che scrutano l’universo nella banda di radiazione dell’infrarosso.

“Le spettacolari immagini del centro galattico che oggi abbiamo a disposizione sono una vera a propria mappa -- con dettagli senza precedenti -- di temperatura e densità della materia presente in quella zona della Via lattea” dice Sergio Molinari, dell’INAF-IFSI di Roma, primo autore dell’articolo che descrive la scoperta pubblicato oggi online sulla rivista The Astrophysical Journal Letters. “Da questa eccezionale vista è emersa ai nostri occhi una struttura fredda, a temperature di 250 gradi centigradi sotto zero, con una conformazione che ricorda molto il simbolo matematico dell’infinito, una sorta di ‘8’ coricato. Il confronto con dati ottenuti con radiotelescopi da terra ha poi rivelato come questa struttura sia in realtà dovuta ad un gigantesco anello ellittico deformato in direzione verticale e visto di taglio”

Ma cosa può aver prodotto questa struttura e quali immani forze ne hanno modellato la forma, fino ad arrivare a quella che oggi osserviamo? Gli scienziati non hanno ancora una risposta certa a questi interrogativi. Ma sottolineano che questa configurazione è esattamente quella prevista dalle teorie oggi che indicano per la nostra Galassia una struttura di tipo a spirale barrata, nella quale la regione centrale presenta due prolungamenti di stelle che nell’insieme ricordano una barra che attraversa il nucleo. Conclusioni in linea con altri indizi che suggeriscono questo scenario, provenienti da indagini sulla distribuzione e sulle proprietà dinamiche del gas e delle stelle che popolano la Via Lattea, come quelle condotte, sempre nell’infrarosso, dal telescopio Spitzer e dal progetto 2MASS (2 Micron all Sky Survey). Grazie alle osservazioni condotte da Herschel la nostra comprensione della dinamica delle zone centrali della nostra Galassia fa un grande balzo in avanti. E apre nuovi, affascinanti scenari che riguardano l’attività passata del buco nero supermassiccio che si trova proprio nelle zone centrali della Via Lattea.

“Questa scoperta potrebbe in effetti essere collegata a quella recentemente fatta dal satellite Fermi-LAT, che ha rivelato nei raggi gamma gigantesche bolle di plasma provenienti dal centro Galattico” prosegue Molinari. “E’ difficile resistere alla tentazione di riconoscere in questo massiccio anello freddo il fossile di una gigantesca ‘ciambella’ di polvere esistita in una possibile fase da Nucleo Galattico Attivo (AGN) nel passato della Via Lattea, dove il gigantesco buco nero che si trova nelle sue regioni centrali era il motore che avrebbe prodotto smisurate emissioni di energia, sotto forma di radiazioni e getti di materia.”

Anche Barbara Negri, responsabile ASI dell’unità Esplorazione ed Osservazione dell’Universo sottolinea altri  risvolti scientifici legati a questa scoperta:  ”I ricercatori hanno avanzato un’ipotesi estremamente interessante sul movimento dell’ anello rispetto al centro della nostra Galassia, dove si trova un buco nero gigantesco. Questo anello di materia ruoterebbe in maniera eccentrica rispetto a questo centro a causa di effetti di risonanza. Il buco nero centrale della nostra Galassia si troverebbe, molto vicino alla parte frontale dell’ anello. Pertanto, queste oscillazioni periodiche degli anelli di polvere e gas, che sembrano circondare i giganteschi buchi neri che si trovano al centro delle galassie, potrebbero essere un fenomeno relativamente comune”.


A cura di Marco Galliani

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Phobos Accarezza Giove


Dintorni di Marte, 1 giugno 2011: Mars Express distoglie il suo sguardo dal pianeta rosso e punta invece Giove, distante oltre 529 milioni di km. Molto più vicino, esattamente a 11.389 km, si trova Phobos, il maggiore e il più interno dei due satelliti naturali del pianeta Marte, una piccola luna di forma irregolare dal diametro medio di 22 km.

Seguendo la sua orbita attorno a Marte, Phobos si trova per alcuni istanti perfettamente allineata con Giove. La camera stereoscopica ad alta risoluzione che equipaggia Mars Express, HRSC, viene allora messa in operazione e tenuta fissa su Giove nel momento della congiunzione, facendo in modo che il pianeta rimanga nello stesso punto dell’inquadratura. L’operazione ha prodotto un totale di 104 immagini nell’arco di 68 secondi, tutte realizzate utilizzando il canale ad alta risoluzione della camera.

Ora quelle singole immagini sono state elaborate e messe in sequenza, e il risultato è un video che mostra Phobos passare accanto a Giove e quasi eclissarlo. La sequenza è spettacolare, ma ha anche un valore scientifico: conoscendo l’esatto momento in cui Giove passava dietro a Phobos, l’osservazione aiuterà a verificare e anche migliorare la conoscenza della posizione orbitale della luna marziana.

“Phobos ha un’orbita irregolare. A causa delle sue piccole dimensioni risulta difficile calcolarne l’orbita in base agli effetti gravitazionali e l’unico modo è osservarla direttamente”, spiega Roberto Orosei, ricercatore all’INAF-IFSI Roma. “Lo studio del moto orbitale di Phobos è importante per determinare l’origine di questo piccolo corpo celeste: se sia un asteroide catturato da Marte o un satellite che si è formato in loco”.

Crediti per le immagini: Department of Planetary Sciences and Remote Sensing at the Institute of Geological Sciences of the Freie Universität Berlin.


A cura di Stefano Parisini

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martedì 21 giugno 2011

Quando Il Sole Sarà Una Nana Bianca


I ricercatori dell'Università di Leicester stanno studiando il possibile destino finale del Sistema Solare esaminando altre stelle "nana bianche" poste altrove nella nostra galassia.


Una nana bianca è l'ultimo stadio del ciclo di vita di una stella come il Sole, dopo che si è contratta ad un diametro più piccolo di quello della Terra. Incredibilmente denso, un cucchiaino di materiale di una nana bianca peserebbe circa cinque tonnellate.

Nathan Dickinson, un dottorando del Dipartimento dell'Università di Fisica e Astronomia, si sta occupando drlla composizione chimica delle nane bianche per il suo dottorato di ricerca. Egli è particolarmente interessato alla presenza di 'elementi pesanti' dentro ed intorno alle nane bianche, che sono altrimenti principalmente composte dai due elementi più semplici, l'idrogeno e l'elio.
I dati del telescopio spaziale Hubble offrono uno spettro per ogni stella che rivela la sua composizione chimica. Le nane bianche più fresche, con una temperatura di meno di 25.000 gradi, a volte contengono elementi come l'ossigeno, l'azoto, il silicio e il ferro che sono stati aspirati dai resti dei pianeti.
Le nane bianche più giovani e calde, mostrano sempre prodotti chimici pesanti a causa della loro alta temperatura. Tuttavia, a volte presentano più materiale di quello che ci si aspetterebbe,  sollevando la questione se esso è arrivato anche dal pianeti o se sia nato altrove, forse nelle nuvole intorno alla stella.

"Comprendere se il materiale extra presente nelle nane bianche calde è stato strappato dai pianeti è importante", sottolinea Dickinson. "Può darci un'idea di come questi antichi sistemi planetari si evolvono con l'invecchiamento della stella, in modo da ottenere un quadro più completo di come i sistemi solari muoiono".
"Oltre ad essere lo stadio finale del ciclo di vita della maggior parte delle stelle, le nane bianche sono tra gli oggetti più antichi della galassia e possano dirci quali erano i più antichi sistemi solari. Dato che il Sole terminerà la sua vita come una nana bianca, potrebbe dirci cosa potrebbe succedere in definitiva al nostro Sistema Solare".

Nel 2010 Dickinson ha presentato alcuni dei suoi lavori al 17° Workshop europeo White Dwarf in Germania, che da allora è stato pubblicato negli Atti del Convegno AIP rivista.
"Lavorare in prima linea in questa area scientifica è molto emozionante", dice Dickinson. "So di essere uno di una comunità relativamente piccola di persone al mondo che lavora su questo particolare settore.
Questo lavoro contribuisce ad ampliare la nostra comprensione di come la maggior parte delle stelle si evolvono alla fine alla loro vita e come i sistemi solari muoino, come si comporta l'ambiente intorno a queste antiche stelle e cosa succederà alla fine della stragrande maggioranza delle stelle della galassia".

Il Vice Rettore e Capo del Collegio di Scienze e Ingegneria, il professor Martin Barstow ha aggiunto: "Si tratta di risultati importanti, che dimostrano come gli scienziati più giovani possono essere coinvolti nella ricerca d'avanguardia e aiutare la University dare un contributo importante per rispondere ad alcune delle domande più difficili circa l'Universo e il nostro posto al suo interno".. 


Traduzione e adattamento a cura di Arthur McPaul

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lunedì 20 giugno 2011

Un Anello Verde Nel Cielo Notturno



La brillante nebulosa verde smeraldo in alto, vista dal telescopio spaziale Spitzer della NASA, ricorda la forma di un anello luminoso. Gli astronomi ritengono che anelli come questo siano scolpiti dalla potente luce delle stelle giganti di classe  "O".
Le stelle O sono il tipo più massiccio di cui è nota l'esistenza.

Nominato RCW 120 dagli astronomi, questa regione di gas caldo e polvere incandescente si puó trovare tra le nuvole oscure circondata dalla coda della costellazione dello Scorpione. L'anello verde di polvere è in realtà incandescente ai colori infrarossi che i nostri occhi non possono vedere, ma appaiono brillanti se visti dai rilevatori a infrarossi di Spitzer. Al centro di questo anello ci sono un paio di stelle giganti la cui intensa luce ultravioletta ha scavato la bolla, anche se si confondono con le altre stelle quando vengono visualizzate agli  infrarossi.

Anelli come questo sono così comuni nelle osservazioni di Spitzer, che gli astronomi hanno anche chiesto l'aiuto del pubblico per aiutare a trovarli e catalogarli tutti.
Chiunque sia interessato a partecipare alla ricerca può visitare "Il progetto Via Lattea", parte del "Zooniverse" dei progetti di astronomia pubblico, alla pagina  http://www.milkywayproject.org/ .

Il piatto della nostra galassia si trova verso la parte inferiore della foto e l'anello è leggermente sopra il piano. La foschia verde visto in fondo all'immagine è il bagliore diffuso di polvere dal piano galattico. (Credito immagine: NASA/JPL-Caltech)


Traduzione e adattamento a cura di Arthur McPaul

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sabato 18 giugno 2011

Voyager 1: Ricalcolata La Distanza Ai Confini Del Sistema Solare


Gli scienziati della NASA hanno analizzato i dati recenti dalle sonde Voyager e Cassini e hanno calcolato che Voyager 1 avrebbe potuto attraversare la frontiera in dello spazio interstellare in qualsiasi momento e molto prima di quanto si pensasse.

I risultati sono apparsi in un articolo nel numero di questa settimana della rivista Nature.
I dati di Voyager con lo strumento a bassa energia che misura le particelle cariche, per la prima volta nel dicembre 2010, aveva indicato che la velocità verso l'esterno delle particelle cariche in streaming dal Sole ha rallentato a zero. La stagnazione del vento solare è continuata almeno fino al febbraio 2011, segnando una densa "zona di transizione" precedentemente imprevista ai margini del nostro Sistema Solare.
"Ancora una volta ci accingiamo a varcare quella frontiera imminente", ha detto Tom Krimigis, ricercatore per il Voyager.

Krimigis e colleghi hanno combinato i nuovi dati di Voyager con le misure inedite dalla fotocamera ionica e neutra di Cassini. Lo strumento di Cassini raccoglie i dati sugli atomi neutri in streaming nel nostro Sistema Solare dall'esterno.
L'analisi indica che il confine tra spazio interstellare e la bolla di particelle cariche che soffia il Sole intorno, che è posta probabilmente tra i 10 ei 14 miliardi miglia (da 16 a 23 km) dal Sole, con una migliore stima di circa 11 miliardi di miglia (18.000 milioni chilometri). 

Dal momento che Voyager 1 è già a quasi 11 miliardi miglia (18 miliardi di chilometri), potrebbe entrare nello spazio interstellare in qualsiasi momento.
"Questi calcoli mostrano che ci stiamo avvicinando, ma quanto vicino è? 
Questo non lo sappiamo, ma Voyager 1 viaggia verso l'esterno ad un miliardo di miglia ogni tre anni, quindi non potrà aspettare ancora a lungo", ha dichiarato Ed Stone.

Gli scienziati intendono continuare ad analizzare i dati Voyager 1, in cerca di conferme. Stanno anche studiando i dati di Voyager 2,  ma Voyager 2 non è così vicino al bordo del Sistema Solare come Voyager 1. Voyager 2 è infatti a circa 9 miliardi miglia (14 miliardi di chilometri) di distanza dal Sole.

Lanciate nel 1977, le sonde gemelle Voyager stanno viaggiando da 33-anni.
Sono le più lontane sentinelle dell'umanità sentinelle a lavoro nello spazio profondo in rotta per raggiungere lo spazio interstellare. 


Traduzione e adattamento a cura di Arthur McPaul

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MESSENGER Continua A Svelare I Segreti Di Mercurio



Il 18 marzo 2011, la sonda MESSENGER è entrata in orbita attorno a Mercurio compiendo una ricognizione completa della geochimica, della geofisica, della storia geologica, dell'atmosfera, della magnetosfera, e dell'ambiente al plasma del pianeta.

MESSENGER sta fornendo una grande quantità di nuove informazioni e alcune importanti sorprese. 
Per esempio, la composizione della superficie di Mercurio è diversa da quella attesa, mentre il suo campo magnetico ha una asimmetria Nord-Sud che colpisce l'interazione della superficie del pianeta con particelle cariche dal vento solare.

Decine di migliaia di immagini stanno rivelano le principali caratteristiche del pianeta in alta risoluzione per la prima volta nella storia.
Le misurazioni della composizione chimica della superficie del pianeta stanno fornendo importanti indizi sull'origine del pianeta e della sua storia geologica. 
Le mappe della topografia e il campo magnetico stanno offrendo nuove prove sui processi interni e dinamici. Gli scienziati ora sanno che le particelle energetiche nella magnetosfera sono un prodotto dell'interazione continua del campo magnetico di Mercurio con il vento solare.
"MESSENGER ha superato una serie di tappe proprio questa settimana" ci dice il MESSENGER Principal Investigator Sean Solomon della Carnegie Institution. 

La superficie in dettaglio delle
Immagini ottenute con il MESSENGER Mercury Dual Imaging System (MDI) sono state combinate in mappe per il primo sguardo globale sul pianeta in condizioni di visione ottimale. Nuove immagini mostrano la regione del polo nord che ospita una delle più grandi distese di pianure di  depositi vulcanici del pianeta, con spessori fino a diversi chilometri. Le ampie distese di pianure confermano che gran parte del vulcanismo ha formato la crosta e ha proseguito in gran parte della storia di Mercurio, nonostante uno stato generale di "stress contractional" che tende a inibire l'estrusione di materiali vulcanici sulla superficie.

Tra le caratteristiche affascinanti osservate nelle immagini del  passaggio ravvicinato di Mercurio sono stati i depositi brillanti irregolari su alcuni piani di cratere.
Nuove osservazioni con il MDIS sono state mirate a rivelare questi depositi irregolari che mostrano gruppi senza montatura, fosse irregolari con dimensioni orizzontali che vanno da centinaia di metri fino a diversi chilometri. Questi pozzi sono spesso circondati da aloni più diffusi di materiale riflettente, che si trovano associati con picchi centrali, anelli di picco e crateri a cerchio.

"L'aspetto di queste formazioni incise sono diverse da tutto ciò che abbiamo visto prima su Mercurio o sulla Luna", dice Brett Denevi, uno scienziato del personale presso la Johns Hopkins University Applied Physics Laboratory (APL) a Laurel, Maryland e membro della squadra di imaging di MESSENGER. "Siamo ancora discutendo sulla loro origine, ma sembrano avere un'età relativamente giovane e potrebbero suggerire una più abbondante componente volatile del previsto sulla crosta di Mercurio".

L'analisi della composizione di superficie con l'X-Ray Spectrometer (XRS) ha fatto alcune importanti scoperte fin dal suo primo inserimento in orbita. I rapporti di magnesio / silicio, di alluminio / silicio, calcio e / silicio su vaste aree della superficie del pianeta a differenza della superficie della Luna, non sono dominati da rocce ricche di feldspati. Le osservazioni di XRS hanno anche rivelato sostanziali quantità di zolfo sulla superficie sostenendo con suggerimenti da osservazioni terrestri, che sono presenti minerali di solfuro. Questa scoperta suggerisce che i mattoni originali di  Mercurio potrebbero essere stati ossidati meno di quelli che formavano gli altri pianeti terrestri e potrebbero essere la chiave per comprendere la natura del vulcanismo su Mercurio.
 
Lo spettronomo a Raggi Gamma di neutroni ha rilevato il decadimento di isotopi radioattivi di potassio e torio e i ricercatori hanno determinato le abbondanze della maggior parte di questi elementi. Secondo Larry Nittler, uno scienziato della Carnegie Institution, "Inoltre, il rapporto dedotto di potassio di torio è simile a quello di altri pianeti terrestri, suggerendo che Mercurio non è molto impoverito in volatili, contrariamente ad alcune idee prima sulla sua origine."

L'altimetro laser di MESSENGER  ha mappato la topografia dell'emisfero nord di Mercurio in dettaglio. La regione del polo nord, per esempio, è una vasta area di basse elevazioni. La gamma complessiva dell'altezza topografica vista fino ad oggi supera i 9 chilometri (5,5 miglia).
Precedenti immagini radar fatte dalla Terra hanno mostrato che  a nord di Mercurio e al suo polo sud ci sono depositi probabilmente composti di ghiaccio d'acqua e forse, altre di granite conservate a freddo, su pavimenti permanentemente in ombra di crateri da impatto in alta latitudine.
L'altimetro di MESSENGER sta misurando la profondità dei crateri del pavimento vicino al polo nord. La profondità dei crateri polari con  i depositi sostiene l'idea che queste zone siano perennemente in ombra.

La geometria del campo magnetico interno di Mercurio può potenzialmente consentire il rifiuto di alcune teorie su come si riteneva fosse generato. La sonda ha rilevato che l'equatore magnetico di Mercurio è ben più a nord rispetto all'equatore geografico del pianeta. Il campo magnetico dipolare si trova a circa 0,2 raggi o 480 km (298 miglia), a nord del centro del pianeta. Il meccanismo della dinamo responsabile della generazione del campo magnetico del pianeta ha quindi una forte asimmetria Nord-Sud.
Come risultato di questa asimmetria nord-sud, la geometria delle linee del campo magnetico è diversa a nord di Mercurio e delle regioni polari meridionali. 
In particolare, il campo magnetico della "calotta polare", in cui linee di campo sono aperte al mezzo interplanetario è molto più vicino al polo sud. Questa geometria implica che la regione polare sud sia più esposta rispetto al nord delle particelle cariche riscaldate e accelerate dal vento solare. L'impatto di tali particelle cariche sulla superficie di Mercurio contribuisce sia alla generazione della tenue atmosfera del pianeta sia agli agenti atmosferici spaziali di materiali di superficie, entrambi i quali dovrebbero avere una asimmetria nord-sud.

Una delle scoperte più importanti fatte dal Mariner 10 nel 1974 fu la presenza di particelle energetiche simili alla magnetosfera della Terra.
Quattro esplosioni di particelle furono osservate al primo flyby, ed è stato sconcertante che tali eventi non sono stati rilevati da MESSENGER durante uno dei suoi tre passaggi ravvicinati.
Con MESSENGER ora in orbita quasi polare su Mercurio, gli eventi energetici vengono visti quasi come un orologio, ha detto Ralph McNutt del team. 
"Scoppi di elettroni energetici, con energie da 10 volt kiloelectron (keV) a più di 200 keV, sono stati rilevati nella maggior parte delle orbite. Lo spettrometro di particelle energetiche ha dimostrato la presenza di elettroni piuttosto che ioni energetici a latitudini moderate. 
La posizione latitudinale è del tutto coerente con gli eventi visti da Mariner 10".

Con una piccola magnetosfera e con la mancanza di una sostanziosa atmosfera, la generazione e distribuzione degli elettroni energetici è diversa da quelli al suolo. Un meccanismo candidato per la loro generazione potrebbe essere la formazione di un "doppio strato", una struttura al plasma con grandi campi elettrici lungo il campo magnetico locale. Un altro invece potrebbe essere l'induzione determinata da rapidi cambiamenti nel campo magnetico, un processo che segue il principio utilizzato sui generatori sulla Terra per produrre energia elettrica. I meccanismi al lavoro saranno studiati nei prossimi mesi.

"Stiamo assemblando una visione globale della natura e del funzionamento di Mercurio per la prima volta", ha sottolineato Salomon, "e molte delle nostre idee precedenti sono state messe da parte mentre le nuove osservazioni portano a nuove intuizioni. 
La nostra missione principale ha a disposizione un altro anno su Mercurio e possiamo aspettarci altre sorprese dal pianeta più interno del nostro Sistema Solare".


Traduzione e adattamento a cura di Arthur McPaul

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